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La passione tutta italica per la tortura

Una condanna emanata dalla Corte di Giustizia europea dovrebbe tradursi immediatamente in revisione della legislazione nazionale esistente. Quella per le torture poliziesche commesse a Genova 2001, su indicazione del governo d’allora e con la partecipazione diretta di almeno due ministri nella “sala comando” della questura, indica il punto più basso cui è arrivata la classe politica di questo paese. Talmente basso da ridursi a fare da scudo agli interessi, o all’arbitrio puro e semplice, delle molte polizie esistenti nel nostro paese.

Non è superfluo sottolineare che quanto accaduto nella caserma di Bolzaneto nelle maledette giornate di Genova, è ancora più grave di quanto accaduto alla Diaz per la condizione di “cattività” dei fermati. Su questo sono in corsi altri esposti anche alla Corte Europea che non potranno che rafforzare il pesante giudizio già espresso sulla “macelleria messicana” alla Diaz.

È quasi superfluo ricordare il numero infinito di politici, più o meno “di grido”, che si sgolano ogni volta che qualche “agente” si fa pescare con un morto o un ferito grave tra le mani, fino ad insultare i familiari delle vittime alla stregua dei fascisti delle curve che innalzano striscioni contro la madre di Ciro Esposito. In fondo, l’atteggiamento generale è ben spiegato dall’emendamento presentato dalla Lega – nel 2004 – a uno dei pochi progetti di legge miranti all’inserimento nel Codice Penale del reato di tortura: questa diventava punibile solo se praticata per due volte dallo stesso poliziotto o carabiniere. La prima, in fondo, poteva valere come “cerimonia di iniziazione” per le reclute…

Non è invece inutile ricordare da dove trae origine la condiscendenza italica verso le pratiche di tortura, commissionate alle varie polizie o tollerate quando queste si lasciano andare a “pratiche autonome”. È vero, dappertutto le polizie sono molto sbrigative nel trattare quanti capitano tra le loro mani, colpevoli o innocenti che siano. Ed è anche vero che dappertutto le magistrature nazionali sono più che benevole nei confronti degli agenti che vengono – non molto spesso – indagati e processati.

Ma dappertutto – quantomeno nell’occidente capitalisticamente avanzato – la pratica della tortura è stigmatizzata, almeno ufficialmente. Qui neanche questo. Il waterboarding dei prigionieri a Guantanamo è riconosciuto anche negli Stati Uniti come tortura, e addirittra alcuni procuratori militari – militari! – si sono rifiutati di ammettere come prova le confessioni estorte sotto tortura. Qui il waterboarding inflitto diverse volte ai brigatisti catturati, all’inizio degli anni ’80, viene ancora adesso definito come poco più che un “interrogatorio stringente”. Nell’unico caso in cui si è arrivati a un riconoscimento giudiziario del waterboarding come tortura – una tecnica tra le tante praticate dal “dottor De Tormentis”, al secolo il vicequestore Nicola Ciocia – è stato decisamente indiretto. Una sentenza emessa dal Tribunale di Perugia ha infatti assolto il torturato, Enrico Triaca, dal reato di “calunnia” nei confronti del torturatore; il quale si vedeva però prescritti tutti i reati commessi (qualificati, a norma di Codice Penale vigente, come semplici “maltrattamenti”, “percosse” e via minimizzando).

 

Non crediamo che ora la condanna europea solleciti più di tanto un Parlamento di “nominati” a procedere rapidamente per mettere una toppa a un vuoto di legge vergognoso. In ogni caso, in questo paese, fare una legge non significa praticamente nulla. Se non si interviene sulle “culture formative” che imprintano gli agenti delle varie polizie, se non si rompe – con condanne vere, di quelle che troncano una carriera – la catena di omertà posta a protezione delle pratiche più sordide in caserme, questure, carceri, se non si sanziona certa magistratura disponibile a trasformare le violenze e le torture poliziesche in “reati bagatellari” a prescrizione rapida… la tortura di fatto continuerà come prima. Magari ci saranno più denunce e relativi processi, ma assisteremo a voli pindarici per derubricare atti di tortura a più banali “maltrattamenti”, con qualche Giovanardi, La Russa o Salvini a sbraitare in aula “dalla parte degli agenti”.

I nostri lettori sanno benissimo che consideriamo l’Unione Europea il vero nemico delle classi sociali “subordinate”, e potrebbero trovare sorprendente il fatto che ci si appelli a una sentenza europea pretendendone l’applicazione.

L’apparente paradosso è causato dal modo in cui la classe politica italiana – quasi tutti i partiti che sono passati per il Parlamento – ha approcciato nel dopoguerra ogni trattato europeo. Una firma in bianco, senza neanche leggere, senza soppesare le conseguenze concrete di ogni singola riga di quei trattati. Sia che riguardassero le relazioni economiche e di bilancio o i diritti sociali (che vanno scomparendo), sia che investissero i diritti civili (sono gratis, quindi ce li possono anche concedere).

Un atteggiamento consueto nella mentalità di destra (“firmiamo, tanto poi qui comandiamo noi e facciamo come ci pare”), sia nell’ex centrosinistra (“firmiamo, tanto ci diranno poi da Bruxelles cosa fare e riusciremo infine a superare l’arretratezza e il protofascismo nazionale”).

Una classe politica senza statisti, almeno da qualche decennio. Una classe politica selezionata prima sulla base delle clientele, ora sulla base degli interessi diretti di gruppi industriali, finanziari, ecc. Una classe politica senza cultura e qualche volta persino senza laurea, che non sa a cosa serva uno Stato e come funzioni, che improvvisa “soluzioni” senza possedere la scienza con cui elaborarle. Una classe politica che, quindi, si fa indicare dai gruppi di interesse cosa fare anche legislativamente.

E che, nel caso della tortura, si fa dirigere ancora dai vertici delle polizie.

Pdf del libro “La tortura in Italia”:

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