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La manovra 2020 e il vecchio “patto neocorporativo”

Il fracasso mediatico, per questo governo è essenziale. Copre alla perfezione le manovre che preparano la “manovra 2020”, ossia la legge di stabilità che dovrà vedere la luce entro il 31 dicembre. Annunciata come una manovra lacrime e sangue, dunque tale da mettere a rischio il consenso sociale e la tenuta dell’esecutivo, potrebbe invece rivelarsi un po’ meno devastante – congiuntura economica permettendo – con supporto e l’applauso di Confindustria e, senza troppe sorprese, di CgilCislUil, impegnate a rispolverare il vecchio patto corporativo (ora battezzato “patto per la fabbrica”).

L’apertura del mondo industriale è avvenuta con un articolo del IlSole24Ore, organo del “sindacato dei padroni”, che riconosceva i dati positivi degli ultimi tempi (cosa che Repubblica o il Corriere, per esempio, provano a ignorare). L’elenco è nutrito e potrebbe togliere addirittura un terzo del peso previsto (45 miliardi), portandolo a un durissimo, ma meno tragico, 30 miliardi.

Come?

Secondo IlSole ci sarà un extragettito fiscale derivante dalla fatturazione elettronica dell’Iva sarebbe nel 2019 pari a 4 miliardi di euro, se non più, il doppio di quanto stimato dal governo nella finanziaria 2019. Questa innovazione, ripetiamo sempre, non è “merito” del governo gialloverde, visto che la legge istitutiva risale al 2007, ma è stata resa operativa solo dall’ultimo Gentiloni.

In pratica, con la diffusione della fatturazione elettronica, per una serie di aziende diventa più complicato – non impossibile – evadere l’Iva. Il che comporta due vantaggi per le entrate dello Stato: aumenta il gettito derivante dall’imposta sul valore aggiunto, anche con crescita economica pari a zero, e diminuiscono contemporaneamente i “rimborsi” che lo Stato deve restituire dopo aver incassato “più del dovuto” (stando a foglietti di carta che appaiono e scompaiono). L’incrocio automatico dei dati rende infatti molto più difficile per le imprese anche avanzare richieste di rimborso basate su dati truccati e “verificati” magari da qualche funzionario corrotto.

Il risparmio è stato calcolato in 700 milioni solo i primi due mesi (oltre 4 miliardi a fine anno).

Ma è solo l’inizio. La mancata procedura d’infrazione e la flessibilità concessa dalla Commissione Europea, pari allo 0.2% del Pil, porta ad una riduzione di altri 6 miliardi sulla manovra in gestazione.

Per quanto riguarda i risparmi su reddito di cittadinanza e quota 100, il cui “congelamento” sui conti del 2019 aveva già fornito 1,5 miliardi per la “manovra correttiva” necessaria per evitare la procedura di infrazione, nel prossimo anno saliranno a 6 miliardi (rispetto a quanto preventivato all’inizio).

Il governo aveva inoltre stimato per quest’anno un tasso di interesse sui Btp pari al 2.6%. Il drastico calo dello spread nelle ultime settimane lo colloca all’1.68%, con un risparmio della spesa per interessi di un miliardo.

Maggiori entrate e flessibilità, insomma, portano un bonus di 16 miliardi di euro.

Anche il rapporto deficit-Pil ne risente positivamente, fermandosi così all’1,9% per l’anno in corso, con un effetto di trascinamento sulla manovra 2020.

I soldi ci sono, visto che questo è comunque ancora un paese tra i primi dieci del mondo. Il problema è per cosa possono/debbono essere usati.

Ovviamente, se tutte queste maggiori risorse vengono destinate all’unico obbiettivo della riduzione del debito, restano indisponibili per investimenti pubblici e prestazioni sociali. Che dovranno invece essere comunque ridotte (da qualche parte dovranno venir fuori gli altri 30 miliardi per completare la manovra), solo con qualche drammaticità in meno, forse.

Il “riconoscimento” fornito da Confindustria non è comunque a gratis. Il presidente degli industriali, Boccia, ha ottenuto la promessa di un nuovo – ennesimo – forte taglio del cuneo fiscale e della decontribuzione del salario di produttività a favore dei lavoratori. Soprattutto, niente salario minimo (diventato ormai l’ultima bandiera sventolata dai 5Stelle).

Con questa mossa gli industriali si preparano alle prossime tornate contrattuali, dove intendono concedere aumenti minimi (in modo da stimolare almeno un po’ i consumi e dare un senso all’esistenza dei “sindacati complici”), ma comunque controbilanciati da una forte diminuzione del cuneo fiscale a favore dei lavoratori. In pratica, si tratta di una fiscalizzazione dei salari monetari che deve contribuire a tenere alto il tasso dei profitti a favore degli industriali. In altri termini, per Boccia gli aumenti salariali – se proprio ci devono essere – li deve pagare lo Stato.

Il solito orrore, come da tre decenni a questa parte. Altro che cambiamento!

Ma perché i sindacati ufficiali dovrebbero accettare con gioia una partita così palesemente truccata? La spiegazione, appena accennata, è arrivata dal presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che li ha incontrati durante la scorsa settimana insieme a Di Maio.

Sul tavolo il cosiddetto “rilancio della previdenza complementare”. I sindacati si erano presentati un po’ diffidenti, visto che tra le proposte del governo c’è da tempo una modifica del trattamento fiscale dei fondi pensione (con un aumento delle aliquote e dunque un taglio ai ricavi degli stessi fondi pensione “chiusi”, co-gestiti da CgilCislUil). Pare ci sia stato un mezzo passo indietro su questo punto, oltre a una promessa relativa al trasferimento del TFR nella previdenza integrativa.

In pratica un allargamento della base finanziaria dei fondi integrativi gestiti dagli “enti bilaterali” (Confindustria e sindacati), e una messa a rischio di una delle poche certezze rimaste ai lavoratori: la liquidazione. Che a quel punto sarebbe legata all’andamento delle borse, più che alla carriera lavorativa e contributiva.

In cambio, un altro po’ di morfina nelle vene della già scarsa conflittualità sociale.

E questa sarebbe l’”opposizione democratica” al governo fascioleghista?

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