Era previsto, ma il treno non ha cambiato direzione; non esistono più i comandi né i binari per farlo. L’abisso si avvicina, ma non c’è una sola idea – nell’establishment tedesco ed europeo – su cosa fare per non caderci dentro.
Le elezioni in Germania hanno confermato che la distruzione del “modello sociale europeo”, perseguita con feroce determinazione e sordità da oltre 30 anni a questa parte, produce un malessere sociale che la peggiore destra nazifascista cavalca facilmente ovunque. Soprattutto perché la “sinistra complice”, socialdemocratica, ne è stata protagonista al pari del “centro moderato”.
In Italia questa destra governa, ed è difficile dire tra Lega e “meloniani” chi sia il peggiore. In Francia c’è arrivata vicino, ma neanche questo fallito assalto è stato sufficiente a convincere il “presidente dei banchieri” a cambiare marcia. Per lui e il suo ristretto blocco sociale la cosa più importante è impedire che la sia pur arraffazzonata e periclitante coalizione progressista (Nupes) provi a governare per ridurre la portata dei danni prodotti dalla macronie. Squadra che perde non si cambia, insomma…
La Germania, che fin qui si era presentata come “locomotiva europea” sia sul piano economico che politico, dettando per tre decenni l’agenda dell’”austerità” europea, è oggi travolta da un’onda nera ma continua a blaterare soprattutto contro la sinistra che sopravvive solo grazie al movimento della Wagenknecht.
Più ancora dei risultati elettorali in Turingia e Sassonia – mentre si attende il voto del Brandeburgo, sia pure senza Berlino che fa land a sé – lo stato comatoso del “modello tedesco” si misura nella decisione della Volkswagen di chiudere alcuni stabilimenti in Germania per tentare di recuperare un po’ di competitività come azienda multinazionale sul mercato mondiale.
Non era mai avvenuto, in quasi 90 anni di storia industriale. E simboleggia qualcosa di più di un semplice impaccio, specie in un passaggio storico in cui i costruttori europei rinunciano a investire sull’auto elettrica e i cinesi stanno già definendo i nuovi standard in materia.
La recessione “tecnica” è questione di settimane, poi sarà ufficiale. E il governo “semaforo” – socialdemocratici, “verdi” e liberali – è un pugile suonato incapace di profferire parola anche quando la magistratura emana mandati di cattura per i sabotatori del North Stream, che hanno privato il paese di una fornitura energetica strategica. Ma sono ucraini, non russi, e con l’autorizzazione Usa e Nato. Il nemico ce l’hanno in casa e alle spalle, meglio non muoversi e non fiatare…
Senza dettagliare oltre su altri paesi più piccoli ma altrettanto febbricitanti, i tre pilastri più pesanti dell’architettura europea hanno perduto l’equilibrio. E la ragione è uguale per tutti: il neoliberismo che condanna parti crescenti della società ad un’esistenza troppo grama per potersi tradurre in “consenso” sociale per la governance “tecnica” del continente, mentre la guerra sembra tornare come unica prospettiva risolutiva di una crisi incancrenita.
Una miscela socialmente esplosiva, che somma e mescola paure diverse, tensioni geopolitiche e distribuzione ineguale della ricchezza, perdita della supremazia storica dell’”uomo bianco e occidentale” e flussi migratori generati proprio dalla sua sciagurata azione secolare.
Impoverimento di massa e guerra richiedono risposte alte, non paccottiglia che rimescola il già visto e consumato. Una crisi di sistema non si risolve con i cerotti messi all’ultimo istante su ferite profonde e sanguinose.
E il ritorno del nazifascismo come ideologia di massa non si arresta sommando nullità sociali solo quando si avvicina una scadenza elettorale. Ogni improvvisata “unità” senza un radicale cambiamento di logica è un fallimento sicuro.
Ma proprio questo ritorno nazifascista, che prova a tenere insieme nella sua narrazione la difesa del neoliberismo e le paure per la guerra alle porte, mina lo stesso precario edificio dell’Unione Europea, costruito nell’illusione che i vincoli economici e finanziari potessero generare di per sé un “comune sentire”, come se i popoli ragionassero secondo gli standard dei consigli di amministrazione.
Quando oscillano i capisaldi e la prospettiva è un tornado nella stanza non hanno più senso i giochini politici (tipo le tristezze del “campo largo” o le sommatorie di sigle).
Occorre un’idea di società e un progetto per realizzarla. Un’idea che non consideri l’insieme della popolazione come una riserva da spremere e chissenefrega di chi non ce la fa. Che smetta di creare emarginazione e quindi la massa dei problemi che ne derivano. Che strappi agli “imprenditori della paura” la stella di latta dello sceriffo al servizio del biscazziere più ricco. Che tolga di mezzo la guerra riconoscendo negli altri popoli del mondo, e nelle loro rappresentanza reali, dei pari con cui ragionare per coesistere. Che seppellisca l’idea nazista della supremazia di un “popolo eletto”, superiore per diritto divino, colore di pelle, cromosomi o contingenza storica.
Un’idea internazionalista che non cancelli nessuna identità di popolo ma le riconosca tutte. Un’idea di eguaglianza sociale che riduca al minimo le disparità, perché è da lì che nasce la prepotenza suprematista e la subordinazione ad un fuhrer…
Il resto del mondo sta dicendo da anni che il suprematismo (l’imperialismo) occidentale non ha più ragione d’essere. Non solo perché “è ingiusto” (lo è sempre stato…), ma soprattutto perché i suoi vantaggi storici – sviluppo industriale, tecnologie, armamenti, ricchezza prodotta, ecc – non sono più così potenti. E gli altri, tutti, ne sono consapevoli.
Non è più il tempo in cui un mercante scambia perline di vetro con pepite d’oro.
Non è più il tempo di Cortez the killer…
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