L’ex direttore de The Economist, Bill Emmott, da una quindicina di anni è un editorialista de La Stampa. Nel suo editoriale del 30 agosto, Emmott ha provato a perimetrare il campo del “reale” sul ruolo che i governi europei dovrebbero svolgere contro la Russia, ma anche verso gli Usa di Trump.
Da un lato invita a non “formalizzarsi” su quanto prevede il diritto internazionale per requisire non solo gli interessi, ma anche il capitale dei fondi russi in Europa, attualmente congelati (sequestrati ma non espropriati, insomma), dall’altro invita gli europei “a mostrare i muscoli” sia a Putin che a Trump.
Quando Emmott parla di “muscoli” si riferisce anche all’incremento, da parte europea, dell’arsenale missilistico dell’Ucraina sia in funzione difensiva che offensiva.
Infine ha invitato ad una postura più assertiva verso Trump nei negoziati sui dazi, apprezzando la schiena dritta della Commissione Europea sui vincoli alle piattaforme e alle aziende tecnologiche statunitensi, anche a rischio di rivedere l’accordo a perdere raggiunto dalla Von der Leyen con gli Usa e spacciato come “grande risultato” per il mantenimento delle relazioni transatlantiche.
Gli scossoni imposti da Trump a queste relazioni non risparmiano neanche un partner privilegiato, speciale e storico come il Regno Unito, minacciato di innalzamento dei dazi se non abbasserà le penne sulle corporation statunitensi. Contestualmente, il governo britannico è anche quello più bellicoso contro la Russia nel quadro della Coalizione dei Volenterosi, alzando continuamente l’asticella della tensione e trascinandovi gli altri paesi europei della coalizione.
In qualche modo Emmott ha provato a mettere una pezza e a suonare la carica dopo lo sconsolato “stato dell’arte” sull’autonomia strategica europea declamato da Mario Draghi nel suo intervento al meeting di Rimini.
Mettendo in controluce le sollecitazioni di Emmott, il campo del “reale” – per le ambizioni europee – somiglia parecchio a un campo di battaglia. Militarmente contro la Russia – con tutto quello che ne consegue – economicamente contro gli Stati Uniti, e anche qui con conseguenze fino a oggi del tutto inimmaginabili dagli europei.
Le divaricazioni tra quello che le classi dominanti europee vorrebbero fare, quello che possono fare e quello che potrebbero essere costrette a fare, continuano a intrecciarsi contradditoriamente tra loro, alimentando avventuristiche fughe in avanti sul piano militare contro la Russia e crescente consapevolezza che i rapporti economici tra Ue e USA da tempo sono diventati più competitivi che convergenti.
In questo frullatore della storia le inette ma avventuriste classi dirigenti europee si muovono in mix di ambizioni e frustrazioni che le stanno logorando.
Gli agenti esterni di questo logoramento hanno sicuramente il volto e le smorfie sulla faccia di Trump e la fine della ritualità transatlantica che ha caratterizzato l’Europa del dopoguerra. Ma sono anche la consapevolezza che i rapporti di forza mondiali sono cambiati o comunque destinati a cambiare molto rapidamente. Il vertice dell’Organizzazione di Shangai, in corso in questi giorni, lo sta dimostrando plasticamente.
In questo contesto l’Italia della Meloni ha deciso che è meglio investire sull’”usato sicuro” – la subalternità agli USA – piuttosto che sull’autonomia strategica europea. Ma rimanere fuori da un eventuale braccio ferro dell’Europa con la Russia in nome dell’Occidente non è nelle corde della destra, neanche di quella italiana. In questa divaricazione la Meloni fino ad oggi si è districata vivendo alla giornata, ma è evidente che così non si andrà avanti per molto.
Se si riarma l’Ucraina per renderla un “porcospino d’acciaio”, per farle fare il “lavoro sporco” per conto dell’Europa – così come fa Israele in Medio Oriente per conto proprio e degli Usa –, i rischi di arrivare a dei “fatti compiuti”, e quindi al conflitto vero e proprio, aumentano esponenzialmente.
Come dice lo storico statunitense Graham Allison, le guerre scoppiano per motivi economici e geopolitici ma anche “per l’onore”, cioè per situazioni in cui diventa difficile fare marcia indietro senza perdere credibilità e autorevolezza.
I governi europei si sono infilati esattamente in questa situazione e quasi settimanalmente complicano ancora di più gli scenari, sabotando i negoziati per la possibile conclusione della guerra in Ucraina.
Per l’Europa è quasi uno scenario da alternativa del diavolo: o rischia tutto “esibendo i muscoli” sia verso la Russia che verso gli USA, come chiede Bill Emmott, oppure deve spararsi sui piedi ammettendo che il progetto dell’Unione Europea e della sua autonomia strategica non ce la può fare, scatenando così una crisi di legittimità e credibilità interna dagli esiti imprevedibili.
In tempi normali tra queste due opzioni si sarebbe potuta trovare una terza via, meno traumatica e più felpata, in grado di ottenere e consolidare risultati senza strappi. Ma i tempi sono diventati più tumultuosi e i margini di manovra si sono andati restringendo. Sta qui la contraddizione con cui stiamo facendo i conti in questa fase storica.
Le classi dominanti europee nei decenni hanno costruito un progetto comune puntando soprattutto a bastonare le esigenze popolari e a far convergere i mercati. Quando la fine del bipolarismo USA/URSS ha richiesto significativi passaggi decisionali, sul piano politico hanno più volte lisciato l’appuntamento. Quando poi la crisi sistemica ha squassato i vecchi perimetri dei rapporti di forza, ha prevalso un avventurismo militare non adeguato sul piano politico e materiale. I rischi di guerra e di crisi che ne derivano sono innumerevoli. Ragione per cui va bastonato il cane che affoga, prima che faccia danni irreparabili. Una alternativa di visione e di sistema diventa sempre più necessaria.
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