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Dal salario a Gaza. Tutto si tiene

Il 28 e 29 novembre sono due giorni di mobilitazione in cui tutto si tiene. Questioni internazionali, la pace, la guerra, il riarmo europeo, il genocidio contro i palestinesi, il proposito di attaccare il Venezuela, i salari bassi, i tagli alla spesa pubblica, la sanità al collasso, le pensioni…

Non è una sommatoria costruita a tavolino, ma la realtà viva che incide sulla vita e la carne delle persone e lega in modo intricato, indissolubile, temi che il altre occasioni sarebbero stati ben distinti. E ha intanto un nemico visibile, raggiungibile, attivo e cattivo nel governo Meloni.

Uno sciopero generale – il terzo in due mesi proclamato dall’Usb, con la successiva adesione di altri sigle sindacali conflittuali – contro la manovra di fine anno disegnata da Giorgetti sulla falsariga delle indicazioni lasciate a suo tempo da Mario Draghi e sotto la sorveglianza della Commissione europea.

Una finanziaria che mantiene un’alta tassazione sul lavoro dipendente e non dà niente a nessuno, tranne che alle “forze dell’ordine”, perché da sempre i governi antipopolari debbono tenersi cari i gendarmi.

Una manovra disegnata per completare il percorso di uscita dalla “procedura di infrazione” aperta a suo tempo da Bruxelles, e quindi pienamente rispettosa dei dikat dell’austerità.

Ricordate i leghisti e i meloniani che gridavano contro l’euro e la “dittatura europea”? Da tre anni sono i più scrupolosi osservanti di quelle regole che insultavano, preoccupati solo di ricavare qualche briciola per le clientele più indispensabili. Altro che “uscita dall’euro”… “i mercati” dominano, e i maggiordomi eseguono. Come faceva o farebbe il Pd, del resto…

Austerità, dunque, ma con la necessità di aumentare le spese militari nella dimensione ordinata da Trump e ben accolta dalla UE con il “piano ReArm”. Spese da finanziare con il debito pubblico, ovviamente. E il fatto che possa essere “debito europeo” non cambia nulla, visto che una quota non piccola sarà a carico anche del nostro bilancio, per quanto “scorporata” dalle spese ordinarie in modo da non contraddire il principio dell’austerità (un trucco contabile, insomma).

Tutto si tiene. Più armi, meno spesa sociale, salari fermi sennò le imprese piangono miseria, più debito e dunque ancora più tagli. Gli “impegni internazionali” si pagano, come sempre, e lo si fa svuotando le tasche di chi ha già poco. E cominciando ad immaginare di mandare prima o poi i giovani in guerra (Germania e Francia ci stanno già lavorando)

Non è un un’invenzione, lo certifica Eurostat (l’istituto centrale di statistica): l’Italia, insieme alla derelitta Grecia è l’unico paese del Vecchio Continente in cui il reddito reale (il potere d’acquisto, insomma) è diminuito nel corso degli ultimi 20 anni. E questo senza neanche contare le maggiori spese che bisogna affrontare davanti a servizi sociali che diminuiscono (la sanità in cima a tutto, in un paese che invecchia) e a bollette che volano di anno in anno.

L’economia è ferma, ci dicono i dati, al contrario del governo secondo cui non sarebbe mai andata così bene. Pesa una situazione internazionale di guerra, con l’energia che costa più cara (il gas gnl statunitense costa 4 volte di più di quello russo che si usava prima), le esportazioni che calano perché abbiamo messo “sanzioni” sui paesi di destinazione, mentre gli Usa comprano meno e ci hanno anche imposto dazi ben poco “amichevoli”.

Paghiamo tutto di più, ma stipendi e pensioni non cambiano.

Tutto si tiene. Il sostegno economico e militare all’Ucraina sottrae risorse e ancor più ne sottrarrà la “ricostruzione”, se e quando si arriverà a riconoscere la sconfitta dell’”Occidente collettivo” e la sua infamia (ancora si insiste, da queste parti, del continuare la guerra “fino all’ultimo ucraino”).

Il fatto di stare in uno schieramento internazionale in declino, per secoli sperimentato dal resto del mondo come colonialismo aggressivo e suprematista, comincia a comportare un prezzo alto da pagare. Anche in termini di relazioni economiche, e quindi di occasioni di crescita.

Il sostegno economico, politico, diplomatico e militare al genocidio dei palestinesi compiuto da Israele ha dimostrato che tutto l’Occidente condivide la stessa “cultura”, che non è fatta di “valori”, ma di disponibilità a massacrare a scopo di rapina. Applicando sempre un “doppio standard”.

Non bastava dunque uno sciopero generale – che è per definizione uno sciopero politico, perché diretto contro il governo e a proposito delle legge che regola per il prossimo anno la raccolta e la distribuzione delle risorse – occorreva raccogliere tutte le energie sociali in una manifestazione nazionale capace di tenere insieme tutte le diverse soggettività che si muovono su temi che stanno oggettivamente insieme.

Sarebbe bene che avesse le dimensioni che abbiamo visto il 4 ottobre, anche se avrà ovviamente il suo peso negativo il “silenziatore” posto dai media mainstream sul genocidio a Gaza. A settembre erano quasi tutti arrivati ad usare anche il termine “genocidio”, di fronte all’evidenza di uno sterminio di massa che non intendeva distinguere tra combattenti, civili, donne, vecchi e bambini. Anzi, proprio sui più deboli infieriva. Oggi sono tornati al silenzio.

Eppure ancora oggi si infierisce. Solo con numeri quotidiani un po’ più bassi, senza il clamore delle telecamere, perché tanto “c’è un cessate il fuoco”, anche se Israele spara tutti i giorni, blocca gli aiuti umanitari esattamente come prima, aspettando pazientemente che il freddo, la pioggia e la fame alzino la cifra dei morti.

Tutto si tiene. La povertà crescente, i diritti sociali e democratici in bilico qui, a casa nostra (dice persino Eurostat…), il riarmo e i rischi di guerra generale, l’indifferenza con cui ormai vengono citati gli orrori in Palestina o del Sudan, i preparativi espliciti per altre guerre, disegnano un orizzonte di futuro che somiglia terribilmente a Gaza e dintorni.

Noi non ci stiamo. Vi aspettiamo in piazza per bloccare l’azione di chi ci sta portando in quella direzione.

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