C’è una teoria marxista della conoscenza? Ci sono brani di Marx che si possono integrare in una teoria della conoscenza, c’è la concezione materialistica della storia (quella espressa ad esempio nell’Ideologia tedesca) che ha anche aspetti rilevanti per una teoria della conoscenza, ci sono gli scritti engelsiani (l’Anti-Duhring e la Dialettica della Natura) ma una vera e propria questione di teoria della conoscenza la abbiamo con la polemica tra il realismo epistemico (conoscitivo) di Lenin (di ispirazione engelsiana), il marxismo di ispirazione neokantiana di Plechanov e l’empiriomonismo di Bogdanov (variante del cosiddetto empiriocriticismo di Mach e Avenarius). A questa polemica hanno fatto riferimento tutta una serie di scritti sia in Urss che in occidente, ma da essa hanno tratto ispirazione anche pensatori del marxismo più o meno eretico (si pensi ad Alfred Sohn Rethel, ad Adam Schaff e di conseguenza agli studi incentrati sul linguaggio, sulla sua natura sociale e sulle sue implicazioni cognitive di Ferruccio Rossi Landi oppure si pensi alla conoscenza come pratica teorica di Althusser). Nell’elaborare una teoria marxista della conoscenza e del lavoro intellettuale bisogna tenere presente questi dibattiti che ci hanno preceduto.
Passando al merito sembra vero che un processo fisico come quello conoscitivo debba consistere in una trasformazione e tuttavia questa trasformazione dovrebbe consistere in un rispecchiamento altrimenti viene ad essere messa in questione la nozione di verità. Se infatti la conoscenza è trasformazione e le trasformazioni possono essere di qualsiasi tipo, cosa distinguerebbe una trasformazione che ci dia una rappresentazione vera della realtà da quella che ci darebbe una rappresentazione falsa della realtà? Si dovrebbe ricorrere comunque ad un rispecchiamento che sia criterio della verità o falsità della teorie che vorrebbero avere rilevanza conoscitiva.
Il punto è che, condizionando le visioni del mondo alla fase storica, il materialismo storico ha una possibile via d’uscita relativistica. Questo stare un po’ al limite tra realismo e relativismo è una caratteristica del materialismo storico che oscilla possiamo dire tra Lenin e la sociologia della conoscenza che rielaborano entrambi stimoli provenienti da Engels. Esso può essere risolto dicendo ad es. che esista una verità propria di ogni momento storico e il materialismo è la concezione vera (e vera rispetto a tutte le concezioni passate) nel periodo che segna il passaggio da capitalismo a socialismo ma che non possiamo aprioristicamente dire quale sia la concezione vera nel futuro. Oppure possiamo reinterpretare il processo conoscitivo come trasformazione in modo da evitare il rischio del relativismo.
Si potrebbe cioè ipotizzare che mentre le trasformazioni oggettuali sono trasformazioni degli oggetti esterni seguendo un modello elaborato dal nostro cervello, le cosiddette trasformazioni mentali sono trasformazioni di rappresentazioni elaborate dal nostro cervello avendo come modelli gli oggetti del mondo esterno. La differenza tra trasformazioni mentali e trasformazioni oggettuali sarebbe solo nel verso: le prime sono autoplastiche, le seconde alloplastiche, le prime trasformano il nostro cervello, le seconde la realtà esterna. Entrambe le trasformazioni sarebbero materialistiche e quelle conoscitive aventi come modello la realtà esterna sarebbero anche rispecchiamenti (così come quando si trasforma il colore sulla tavolozza in una rappresentazione di un volto: la materia viene trasformata per riprodurre un oggetto esterno al cervello).
Il lavoro intellettuale a sua volta da un lato è materiale perché materiali sono le forme in cui si esprime socialmente (la scrittura), d’altro lato è materiale perché il lavoro dell’intelletto presuppone il cervello e dunque il corpo materiale etc.
Si tratta di due argomenti distinti: il primo evidenzia l’esito materiale del pensiero che si deve esprimere e codificare tramite la materia; il secondo evidenzia il presupposto materiale del pensiero, il processo materiale di cui ha bisogno il pensiero per formarsi. Tuttavia ciò non abolisce la distinzione né tra lavoro intellettuale e lavoro manuale ad es. (l’attività intellettuale non coincide completamente con l’atto di scrivere, tanto che uno può esprimere più o meno lo stesso contenuto sia verbalmente che graficamente e dunque il contenuto si può distinguere dalle forme in cui viene codificato) né tra lavoro materiale e lavoro mentale (il lavoro materiale non è solo materiale perché ha bisogno del cervello ma perché si realizza in un certo rapporto con gli oggetti materiali).
Quello che è vero è che non esiste un lavoro puramente materiale né un lavoro puramente mentale, come pure non esiste un lavoro puramente intellettuale né un lavoro puramente manuale. Tuttavia la tecnologia e la divisione del lavoro permettono progressivamente di distinguere sempre di più i due momenti (il professore può dettare il suo elaborato ad una dattilografa, la fase progettuale può essere distinta dalla fase esecutiva, un uomo che copia uno scritto può non comprenderne il contenuto). Questo non va trascurato e non ci consente di liberarci di queste distinzioni già a monte, quanto piuttosto ci costringe ad immaginare una ricomposizione a valle.
Se un lavoratore Intellettuale esprime la sua conoscenza su foglio, essa diventa oggettiva per lui come la conoscenza di un altro lavoratore intellettuale. Ossia l’espressione di una conoscenza fa della conoscenza stessa un oggetto rendendola disponibile agli altri ed anche a se stesso (un lavoratore della conoscenza può dimenticare addirittura ciò che ha elaborato e riceverlo come se fosse stato elaborato da altri: c’è un bell’aneddoto sul logico e matematico Hilbert a tal proposito). Piuttosto la distinzione va fatta tra la conoscenza che è già oggettivata e quella che è risultante dalla sua elaborazione attuale, elaborazione che non essendo ancora espressa in forme oggettivate assume una colorazione soggettiva, ancora indefinita e piena di potenzialità non ancora note (il filosofo Wittgenstein spesso si lamentava continuamente del fatto che le sue tesi fossero fraintese: questo perché diverse informazioni rimanevano implicite nella sua scrittura)
A questo proposito bisogna fare attenzione nell’analizzare la conoscenza che usalmente viene considerata più affidabile (ad es. la conoscenza matematica) a non confondere ad es. il valore di verità di 2+2=4 con la rilevanza pragmatica di 2+2=4. Ovvio che per le società primitive 2+2=4 non tanto non sia vera, ma sarebbe un complesso di segni senza alcun senso in quanto non ci sono le condizioni per cui esso vada statuito né ci conseguenza c’è la comprensione del suo significato e la rilevanza del suo utilizzo. Ciò però sarebbe conciliabile anche con una concezione per cui le verità matematiche fossero verità assolute. Del resto anche le cosiddette verità assolute hanno bisogno di un contesto di senso e pragmatico perché ad esse sia riconosciuta la rilevanza del loro essere vere o false (ma non necessariamente il loro essere vere o false). Il caso di 23+2=1 si ha quando non si vuole calcolare qualcosa come il numero di ore trascorso dall’origine dell’universo ad oggi, ma quando si vuole misurare il tempo all’interno di un contesto che si interpreta come ripetitivo (legandolo ad es. alla rotazione del pianeta intorno al proprio asse e quindi al cosiddetto alternarsi del giorno e della notte) in quanto ripetitivo è il processo lavorativo vincolato dalla riproduzione della forza lavoro (la quale periodicamente deve riposarsi per riprodursi). Possiamo dire che le proposizioni vere in un’analisi legata al contesto storico-sociale in cui sono asserite dovrebbero essere espresse con enunciati molto più lunghi che esplicitassero il contesto di senso nel quale sono immerse.
Bisogna stare attenti cioè a non ridurre il formalismo matematico in un rapporto tra segni senza tenere presente l’aspetto del significato. In questo modo si confonde l’ambito sintattico delle cifre (che sono i segni per indicare i numeri) e quell semantico dei numeri che sono i significati delle cifre. Mutando il modulo, 23+2=25 non è in contraddizione con 23+2=1, cosa che si verificherebbe se la verità fosse relativa in questo caso. Tuttavia è giusto dire che i sistemi di cifre e le operazioni che si fanno con essi siano relative ai bisogni di chi li usa e dunque siano relative al contesto storico e sociale nel quale si attuano. Non si discute qui il loro valore di verità (essi sono segni che non hanno valore di verità se non li si connette ad un significato) quanto piuttosto le forme con le quali si esprimono e le implicazioni che da essi si fanno discendere, oltre all’interpretazione sulla loro natura (possiamo dire che in una società aristocratica ci può essere la tendenza ad es a considerare la verità matematica come sintetica, mentre nella società borghese la verità matematica tende ad essere analitica in quanto si privilegia l’apporto conoscitivo legato al lavoro ovvero quello empirico e tecnico-scientifico).
Non si deve tanto discutere il valore di verità di 2+2=4, ma il sistema nel quale è inserito all’interno di un contesto di classe. Tuttavia già il fatto che 2+2=4 sia valido sia nella società schiavistica, che nella società feudale che in quella borghese sarebbe da spiegare. Non tutte le verità sono funzione del modo di produzione. Piuttosto il collegamento tra enunciati riconosciuti come veri all’interno di più modi di produzione e altri enunciati considerati stabilmente veri ma invece solo ipotetici o contingentemente veri può configurarsi diversamente a seconda del modo di produzione (Tolomeo può credere che 2+2=4 e che il sole giri intorno alla Terra, ma Galileo deve invece sostituire una delle credenze di questa congiunzione). Potremmo magari dire elaborando la concezione di Lakatos (epistemologo ungherese, anticomunista ma competente) che un nucleo di conoscenze rimane costante attraverso più modi di produzione, un altro insieme di conoscenze cambia da un modo di produzione all’altro e un altro insieme cambia all’interno dello stesso modo di produzione. Ciò va spiegato nel senso che ci sono contenuti compatibili con più contesti (o più compatibili con l’evoluzione sociale) e dunque posti a livelli di conoscenza più profonda.
Marx dice che il contenuto della scienza è un contenuto sociale sia perché usa strumenti (quali il linguaggio) che sono sociali, ma anche perché l’attività scientifica sia pure svolta individualmente ha un contenuto che usa categorie che sono socialmente condivisibili. I rapporti tra gli individui non sono sospesi nemmeno temporaneamente in quanto essi non hanno sempre bisogno della compresenza corporea. La socialità in questo caso non è data dalla contiguità fisica ma dal carattere sociale dei contenuti del sapere e dagli effetti che questa loro ricerca avrà quanto meno sulle loro relazioni con gli altri. Lo stesso funzionamento delle sinapsi non è strettamente individuale in quanto l’unità della specie umana rende comuni anche i processi neurobiologici che presiedono all’attività conoscitiva.
Va chiarito che, per realtà sociale, si intende anche la realtà naturale o gli oggetti ad es. matematici nel momento in cui più individui hanno accesso ad essi attraverso la percezione o attraverso le facoltà razionali. Il contenuto logico e dunque comunicabile del sapere rende questo sapere sociale per cui la dimensione individuale della conoscenza è data dalla elaborazione originale di essa da parte di ogni individuo senza però che tale originalità la renda socialmente non condivisibile. Ogni nostra opinione può essere analizzata, esaminata, discussa, accettata o rifiutata da altri anche se nessuno l’ha elaborata nello stesso modo in cui la abbiamo elaborata noi.
Potremmo dire che le conoscenze individuali riguardino più la facoltà di atteggiarsi rispetto a processi (naturali o sociali) su cui non si ha influenza (da cui la filosofia) e che vengono imposte da una classe improduttiva a classi produttive come ideologia consolatoria e giustificatoria, mentre le conoscenze collettive sono quelle che si diffondono e si sistematizzano in quanto capaci di trasformare il contesto naturale o sociale e sono potenzialmente utilizzabili anche dalle altre classi sociali.
Il contenuto delle conoscenze individuali deve avere qualcosa in comune perché diventi condivisibile (e qui il pensiero va al logos di Eraclito, a Platone e Aristotele). Tuttavia la condivisione di un sapere che vale per gli individui (e vale per ogni individuo) è cosa diversa da un sapere collettivo vero e proprio ovvero di un sapere che si consolida e si elabora collettivamente, come quello scientifico, ma soprattutto come quello attinente alla politica che potrebbe essere la rivoluzione epistemologica che avverrà con la transizione al socialismo.
Il fatto che il sapere si materializzi nelle forze di produzione non implica che queste forze di produzione siano di classe. Può darsi che non tutto il sapere capitalistico sia appannaggio di una sola classe (parte di esso potrebbe essere ereditato dalla classe successiva). Può darsi che l’uso delle forze di produzione sia di classe ma non le forze di produzione stesse. Rimane cioè uno spazio grande di approfondimento e di discussione. Inoltre se i mezzi di produzione incorporano conoscenza perché non lo potrebbero fare tutte le merci? In questo caso cosa succede? Allora nessuna merce in linea di principio sarebbe neutra dal punto di vista della classe? Le armi sono una merce solo capitalistica? Cucchiai e forchette? Da un lato bisogna fare attenzione all’entusiasmo eccessivo di Lenin per l’elettrificazione, dall’altro bisogna fare altrettanta attenzione a considerare tutta la tecnologia sin qui prodotta come parto del diavolo. La tecnologia e la scienza che essa presuppone vanno studiate al loro interno, nella loro genesi e nella loro struttura, nei loro rischi e nelle loro possibilità. Anche qui il dualismo sereno e schematico dovrebbe svanire per fare posto all’inquietudine e alla concretezza dell’ambivalenza. Il problema per il marxista è in quale rapporto di produzione la tecnologia si concretizza, quali possono essere le direzioni che la tecnologia prende dati diversi modi di produzione e a quali ideologie può pervenire l’analisi borghese della scienza e della tecnologia.
Ridurre la realtà oggettiva a quella antropizzata pare limitante. Anche la realtà naturale è una fonte di conoscenza e di informazione attraverso i rapporti di causalità al suo interno. Inoltre il possesso degli istituti e più in generale del supporto fisico della conoscenza non implica che il capitale sappia le implicazioni di questa conoscenza e sappia il rapporto esistente tra i mezzi impiegati e la conoscenza che vorrebbe far usare. Bisogna a questo proposito domandarsi: la cultura critica che demistifica l’ideologia capitalista è ben conosciuta anche dai capitalisti stessi oppure essa smaschera anche quello che i capitalisti credono in perfetta buona fede? I capitalisti hanno il livello di consapevolezza di coloro che li smascherano?
Ciò però presupporr4ebbe sempre che il capitale conosca tutte le implicazioni delle conoscenze che promuove. In realtà, se da un lato esso promuove le conoscenze più utili al profitto al tempo stesso esso genera conoscenze che gli si ritorceranno contro. Inoltre bisogna comunque considerare la resistenza dei lavoratori della conoscenza, resistenza che da un lato si volge al mantenimento di privilegi corporativi e alla perpetuazione di forme comunque desuete di sapere, dall’altro prepara la ricerca di strumenti più adatti ad un passaggio d’epoca. La lotta per il sapere disinteressato se da un lato è la resistenza di forme idealistiche di strategie cognitive dall’altro è la consapevolezza della necessità di pianificare la formazione per il lungo periodo e quindi la difficoltà di subordinare la produzione e la formazione intellettuale per obiettivi a breve.
Possiamo dire che il capitale incaricherebbe gli intellettuali organici del capitale di promuovere la conoscenza funzionale al profitto e questi lavorerebbero in questo senso perché sono convinti che il capitale sia il migliore dei sistemi? In realtà i lavoratori della conoscenza perseguono i loro interessi materiali e dunque si rendono disponibili a chi li paga. Poiché gli Stati sono datori di lavoro (per altri motivi) dei lavoratori della conoscenza questi non obbediscono solo alle imprese capitalistiche. Spesso essi approfittano del fatto che il loro datore di lavoro non conosce la materia per sviluppare anche ricerche che li interessano soggettivamente e fanno in modo da rispettare i contratti con i loro committenti in modo da avere tempo di dedicarsi ad altro. Spesso essi usano la dissimulazione per non subordinarsi troppo al committente. Infine, e questo è l’argomento decisivo, nemmeno essi conoscono tutte le implicazioni cognitive e pratiche di quello che pensano, progettano e realizzano. Dunque nemmeno essi sono in grado di costituire una conoscenza completamente asservita.
La conoscenza se può essere usata come strumento di dominio può anche essere utilizzata per l’emancipazione, nei limiti possibili all’interno del modo di produzione capitalistico. Mentre il prodotto materiale è un oggetto individuale e dunque una volta che il capitale se ne appropria esso non è più disponibile, il prodotto culturale è una sorta di struttura comune che può essere fruibile con diversi supporti e ciò lo rende meno facilmente appropriabile in maniera univoca e definitiva dal capitale. Tuttavia il capitale tenta di concentrare la conoscenza su macchine (in questo processo la teoria filosofica del funzionalismo ha un ruolo anche ideologico) e di togliere ai lavoratori l’esercizio di quelle funzioni che le macchine possono svolgere al loro posto. In questo modo il lavoratore perde l’abitudine ad applicare i prodotti mentali come mezzi di produzione per svolgere il proprio lavoro. Anche in questo caso però con una diversa organizzazione sociale si potrebbe guadagnare tempo per dedicarsi a funzioni intellettuali più alte e raffinate e lasciare dietro di sé funzioni più ripetitive (ad es. quelle legate al calcolo e alla classificazione).
Il punto è che allo stato attuale delle cose noi abbiamo di fronte un intreccio che, per effetto della crisi, si sta di nuovo scindendo producendo però schieramenti imprevedibili e trasversali. L’ambiguità dell’intreccio è in realtà molto più difficile da districare. Bisognerebbe dire che ormai non siamo più in un regime capitalistico puro (sempre se ha senso parlare in questi termini) ma siamo già in una sorta di transizione (ciò spiegherebbe appunto l’intreccio tra due forme di razionalità). Questo sarebbe positivo, ma andrebbe spiegato in che senso e perché invece soggettivamente ci sentiamo ancora frustrati dagli eventi storici che si sono verificati. Inoltre che s’intende per conoscenza? Una rappresentazione vera della realtà? Qual è il ruolo della verità in questo argomento? La non neutralità della conoscenza equivale alla relatività storicista del vero? Qual è il rapporto tra conoscenza vera o falsa e la natura di classe della conoscenza?
Infine la caratterizzazione di classe di una conoscenza è difficile. Non si può procedere in questo campo senza un approfondimento sulla natura del dibattito epistemologico presente anche in ambito borghese. Il problema a mio parere è anche quello per cui, quando una tecnologia incorpora nel mezzo di produzione un sapere che prima era applicato dal lavoro vivo, ci sia la possibilità per il lavoro vivo di occuparsi d’altro e di applicare altro sapere senza dequalificarsi (o almeno ci sia una riduzione d’orario che abbia ricadute anche creative). Pensiamo (fuori del contesto immediatamente produttivo) il ruolo delle calcolatrici: molti ragazzini alle elementari disimparano a fare le quattro operazioni. Imparano dell’altro? Dunque magari la tecnologia in sé è meno valutabile di un contesto più complessivo che comprenda invece la tecnologia utilizzata.
Volendone vedere le potenzialità liberatorie, più la tecnologia diventa potente ed efficiente più i lavoratori si possono chiedere perché il loro lavoro sia così faticoso o stressante: perché la catena di montaggio è così veloce e noi dobbiamo adeguarci ad essa? Non possiamo rallentarla per conciliarla con le nostre necessità? Perché il team deve sviluppare la creatività e la solidarietà dei membri e queste belle cose devono essere subordinate alla massimizzazione del profitto? Perché abbiamo possibilità di curare tutte queste malattie e la possibilità di farlo viene frustrata dai brevetti? Come si vede la finalizzazione del progresso al profitto manifesta a pieno le contraddizioni nelle quali il modo di produzione capitalistico si avvolge. Si può evidenziare come la conoscenza venga subordinata al capitale ma non riteniamo si possa dimostrare che la conoscenza prodotta nella fase capitalistica abbia una struttura intrinsecamente capitalistica. Seguire invece questa convinzione potrebbe significare incamminarsi su una deriva utopistica e potenzialmente conservatrice (e subordinata al tempo senza essere in grado di anticiparlo) in quanto porterebbe a criticare in maniera indiscriminata qualsiasi progresso mentre bisogna elaborare strumenti che in qualche modo consentano di evitare sia l’entusiasmo acritico sia la paranoia reazionaria.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Eros Barone
Nella teoria (non marxista ma) materialista della conoscenza, su cui disserta l’autore di questo articolo, in realtà è quanto mai complessa la conciliazione di due tendenze, o esigenze, che sono compresenti ed operanti nel materialismo storico-dialettico: quella del realismo e quella dello storicismo. Insistere, come è giusto che facciano gli assertori del materialismo storico-dialettico, sul principio del radicarsi nella ‘humus’ della storia di qualsiasi forma e iniziativa della prassi umana, e, in particolare, sulla storicità delle scienze e della filosofia, dei loro criteri e metodi d’indagine e di discorso, e delle procedure delle quali si valgono per decidere del valore di verità delle loro ipotesi e teorie, rischia di essere interpretato come espressione di un relativismo e di compromettere l’universalità e la necessità del sapere. Per quanto riguarda il valore della conoscenza matematica (23+2=25 e/o 23+2=1), l’errore in cui cade l’autore è quello di ritenere che la legittimità di un criterio di calcolo sia sinonimo della sua validità: in tal caso, infatti, si confonde la natura di una norma con quella di un’asserzione o, meglio, la norma di una valutazione con la valutazione secondo quella norma. In un errore del genere non si cade, invece, se il giustificare la scelta di criteri e di metodi, di princìpi e di concetti di un’indagine e di un discorso è interpretato come l’accertarsi se si diano condizioni necessarie o sufficienti di legittimità. Non vi sarebbero problemi di scelta se si potessero stabilire le condizioni necessarie e sufficienti della sua legittimità; ne esistono, invece, proprio perché le sole condizioni che possiamo stabilire della legittimità di quel che pensiamo e facciamo sono ‘o’ quelle necessarie ‘o’ quelle sufficienti, non mai quelle necessarie ‘e’ sufficienti. Questa è la ragione per cui tutti i tentativi di proporre condizioni necessarie e sufficienti della legittimità delle scelte si risolvono nel disconoscimento della natura propria dello scegliere, che non è scegliere secondo norme, ma è uno scegliere norme. Marx afferma implicitamente questo principio nelle sue “Tesi su Feuerbach”, in particolare nella seconda di esse.
Italo Nobile
Sulla problematicità del rapporto tra la tendenza realistica e quella relativistica entrambe interne al materialismo storico-dialettico non si è mai fatto mistero nell’articolo. Non sono del tutto d’accordo con l’identificazione completa dello storicismo e del relativismo, dal momento che il primo, nella peggiore delle ipotesi, è una variante del secondo e le tesi specifiche che introduce possono anche porre limiti al relativismo stesso. Nell’articolo ho accennato (con poche pretese) a due possibili vie d’uscita.
Quanto alla questione della legittimità o della validità varrebbe la pena di un approfondimento. In primo luogo sull’uso dei termini, soprattutto quando i termini sono quelli presi dal linguaggio che a mio parere a torto viene chiamato “naturale”. Inoltre l’introduzione all’interno di un contesto conoscitivo di una terminologia normativa sia pure supportata da una certa tradizione filosofico-scientifica rischia di generare equivoci. Che s’intende per “legittimità” e cosa si intende per “validità” perché questi termini si contrappongano in questo contesto? Va detto che la distinzione tra criteri (o norme) e asserzioni non viene accettata da tutte le tradizioni filosofiche, dal momento che l’esigenza di esprimere i criteri tende a problematizzare la distinzione stessa.
Quello che si è semplicemente fatto nell’articolo è stato negare che diversi sistemi di numerazione siano tra loro incommensurabili e affermare che c’è un piano in cui essi risultano equivalenti. E questo a prescindere dal fatto che il loro uso nel corso della storia sia stato tale che l’uno escludesse (almeno in parte) l’altro. Il rischio per chi scrive è solo che la possibilità di usare diversi sistemi di numerazione venga interpretata come una sorta di argomento per il relativismo o per una più misteriosa dialettica.
Infine non credo che la scelta sia solo scelta di norme, dal momento che le norme lasciano una libertà di scelta (anche se la scelta non è in questo caso “secondo norme” ma tra lo scegliere norme e lo scegliere secondo norme ci sono altre opzioni) e non credo che Marx accennasse ad una cosa del genere nella seconda Tesi. Ma approfondire questo tema ermeneutico andrebbe ben oltre il fine che l’articolo si poneva
Redazione Contropiano
La replica di Eros Barone, che si era persa nei meandri dell’informatica:
È singolare che Nobile mi chieda di precisare la distinzione tra il concetto di legittimità e il concetto di validità. Tuttavia, per facilitarne la comprensione, procederò alla ‘explicatio terminorum’ che mi viene sollecitata attraverso un esempio concernente quella norma che è lo sperimentalismo (‘quaestio juris’), laddove, proprio perché lo sperimentatore non si pone il problema della legittimità di tale norma (e a tal punto in certi casi trascura di riconoscerne il carattere normativo, che considera la presenza ‘hic et nunc’ di oggetti di esperienza o di fatti o di protocolli come un dato anteriore alla problematica della ricerca, senza rendersi conto che è sempre una interpretazione dell’esperienza secondo certi criteri e mediante certi schemi e princìpi di concettualizzazione), egli confonde spesso l’efficacia e la fecondità del cosiddetto metodo sperimentale con la sua legittimità, la verità di una ipotesi con il fatto della sua conferma o della sua verifica (‘quaestio facti’). Più vigile è la consapevolezza critica di logici e matematici, che riconoscono la natura normativa delle premesse metalinguistiche dei sistemi formali di logica o di matematica: proprio per questo essi distinguono la verità o, meglio, la dimostrabilità dei teoremi dalla convenzionalità delle norme o delle regole mediante le quali possono essere costruiti sistemi nel contesto dei quali la verità di quei teoremi è dimostrabile secondo quelle norme o regole. Lei converrà che a nessun matematico o logico verrebbe in mente, oggi, di porsi il problema della verità degli assiomi di un sistema di logica o di matematica. Per quanto concerne la critica circa il relativismo, osservo: a) che il filosofo della scienza Ludovico Geymonat, insieme con altri, riconosce che nel processo conoscitivo che si svolge secondo il ritmo dell’approssimazione successiva la verità relativa è, entro certi limiti, anche una verità oggettiva, quindi una conoscenza controllabile ancorché parziale; b) che è propria delle scienze la consapevolezza della provvisorietà e storicità delle loro premesse, dei loro criteri e metodi, e delle conclusioni dei loro discorsi e delle loro indagini. D’altra parte, tengo a sottolineare che non sono vittima del pregiudizio di coloro per cui razionale è sinonimo di scientifico. La razionalità è un certo modo di procedere nel giustificare quel che pensiamo e facciamo, capace di mettere alla prova la validità dei nostri progetti e il valore delle nostre opere, e di autocorreggersi. Di fatto, le scienze sono, almeno finora, le sole forme di attività dell’uomo che siano riuscite a razionalizzare le loro scelte e le loro procedure. Si tratta perciò di sapere in che cosa propriamente consista la razionalità delle scienze di realtà e di esperienza (fra le quali, non solo virtualmente, vanno annoverati la critica dell’economia politica e lo stesso socialismo scientifico) e di stabilire se e in qual senso altre forme di attività possano diventare altrettanto razionali. Infine, gradirei sapere da Lei quali altre opzioni esistano oltre allo scegliere norme e allo scegliere secondo norme.
antonio
a teoria del riflesso è quanto di più borghese che ci sia. E’ del primo illuminismo, il catechismo del capitalismo. Che metteva la natura prima dell’uomo (oggettivo). Un uomo a-sociale “soggettivo”. Una scienza a-storica alla ricerca di verità assolute. Ma è tutta roba vecchia e inutile.
“2+2=4 ..Ciò va spiegato nel senso che ci sono contenuti compatibili con più contesti (o più compatibili con l’evoluzione sociale) e dunque posti a livelli di conoscenza più profonda..”. guardare prima: https://it.wikipedia.org/…/Teoremi_di_incompletezza_di…
Teoremi di incompletezza di Gödel – Wikipedia
2+2= 4, sono frutti di assiomi, ossia di concetti presupposti, e questi concetti presupposti NON sono fondati su NESSUNA verità, sono CONVENZIONI sociali!! NESSUNA CONOSCENZA PROFONDA!!
Italo Nobile
Eros Barone opera una distinzione tra legittimità e validità che è a mio parere interna all’uso che egli (o la comunità filosofica a cui fa riferimento) fa dei termini “legittimità” e “validità”, stante il fatto che il primo termine ha una valenza quasi giuridico-politica (si pensi a Weber) che il secondo termine ha perso (semmai lo avesse in origine). E’ per questo che ritengo indispensabile un chiarimento di natura linguistica. Non c’è niente di singolare. La risposta apre più problemi di quanti ne risolva. Essa sembra presupporre che la presenza di dati anteriori alla problematica della ricerca consista di una mera interpretazione della ricerca, ma tale presupposizione erroneamente considera chiuso il dibattito sul realismo. Inoltre mette insieme oggetti, fatti e protocolli non chiedendosi per quale motivo in ognuno dei casi questi sono considerati dati e non chiedendosi se effettivamente lo sperimentatore non rifletta sulla sua attività e non immagini protocolli più rigorosi, fatti meglio accertati, oggetti realmente sussistenti. Non vorrei si confondesse il fatto che dati certi assiomi si proceda alla dimostrazione di determinati teoremi e il fatto che questi assiomi vengano messi in questione se nello sviluppo del sistema si incorre in contraddizioni (altro sono gli assiomi e altre sono le regole per cui se le regole sono convenzionalmente accettate gli assiomi lo sono sempre che lo sviluppo del sistema assiomatico non porti a contraddizioni) Insomma, ho qualche dubbio che il linguaggio normativo ci aiuti a chiarire meglio il metodo scientifico (anzi l’istanza metaforica di questo tipo di discorso rischia a mio parere di aumentare la confusione). E credo che nelle osservazioni di Barone si considerino chiusi dibattiti che invece saranno ancora per molto tempo aperti.
Quanto alla questione della verità come approssimazione (ripresa in altra maniera anche da Popper) il problema a mio parere rimane quello per cui senza verità non è facile stabilire un criterio di approssimazione per cui alla fine questo secondo problema lo si cerca di risolvere facendo appello a criteri pragmatisticamente condivisi (per quanto a volte elevati aulicamente all’apriori o nebulizzati in un convenzionalismo a cui non conviene più nessuno)
Infine ci sono scelte fatte all’interno dei limiti stabiliti da norme che non sono scelte di norme ma non sono nemmeno scelte secondo norme. All’interno cioè di scelte obbligate ci sono più possibilità che la norma non regola
Ultima osservazione: questo dibattito va un poco oltre le questioni toccate dall’articolo. Ho già spiegato cosa intendevo fare quando parlavo delle regole di calcolo e non mi sembra che la discussione in atto stia approfondendo questo punto
Italo Nobile
Volendo sintetizzare io ho parlato del relativismo e ho proposto alcune ipotesi. Poi ho semplicemente detto che l’esistenza di diversi sistemi di numerazione ha poco a che vedere con il relativismo. Infine ho detto che alcune ipotesi sono considerate vere anche dopo il passaggio da un modo di produzione ad un altro. Non credo ci aver confuso i presunti due livelli (quello della legittimazione e quello della validità). Non credo che questa distinzione sia condivisa universalmente. Credo che esso non possa essere considerata rigidamente e che a livello scientifico e filosofico si possa e si debba discutere e si discuta anche del livello normativo. Gli assiomi di un sistema di logica e di matematica non vengono discussi fino a che si lavora con gli enunciati di quel sistema. Tuttavia il matematico può chiedersi (e lo fa) se in quel sistema non ci sia una contraddizione che metterebbe in questione almeno uno degli assiomi
Infine considerare secundum lege anche le scelte che non sono dedotte dalla legge è un errore logico. Se io rispettando un divieto stradale debbo scegliere tra più itinerari, questa seconda scelta non è né secondo norme né è scelta di norme a meno che non diventi poi una consuetudine (in questo caso retrospettivamente mi si potrebbe attribuire una scelta di norme e quelli che verrebbero dopo di me farebbero una scelta secondo norme ma penso che stiamo comunque forzando il ragionamento)
De Marco
Vorrei menzionare l’«Introduzione metodologica » nella sezione livres-books del sito http://www.la-commune-paraclet.com
Paolo De Marco
NB: Se 2 e 2 fanno 4 o 22 allora la questione riguarda la confusione sull’operatore non del tutto chiarito – o formalizzato – rispetto al oggetto di studio. Questa era già una delle lezioni maggiori della « Repubblica » di Platone con i colpi di scena logici di Socrate. Questo, prendendo atto di una mancata conclusione della catena logica, ricominciava l’investigazione da un altro angolo. Kant e Marx dopo di lui fanno una distinzione cruciale tra investigazione e esposizione.
Italo Nobile
Sia lei che il mio precedente interlocutore credo stiate facendo delle osservazioni che non concernono quanto detto da me. Io ho semplicemente asserito che due operazioni fatte ognuna con un diverso sistema di numerazione possono essere equivalenti tra loro e dunque non sono rilevanti per stabilire la questione della verità degli enunciati matematici.