da Materialismo Storico, n° 2/2017 (vol. III)
Premessa
Presentiamo all’attenzione dei lettori di Materialismo storico un’intervista a Ernesto Screpanti a proposito del suo libro L’imperialismo globale e la grande crisi (1). L’autore ci offre una ricostruzione assai chiara, documentata ed esaustiva dell’ormai classico concetto marxista di imperialismo, rilevandone al contempo l’evoluzione sia nell’ambito della storia mondiale contemporanea che in quello della teoria economico-politica.
Screpanti sostiene che oggi sia finalmente visibile a occhio nudo, anche sul piano meramente empirico, la predominanza di una forma di capitale essenzialmente multinazionale e liberoscambista, rispetto al capitale monopolistico, nazionale e mercantilista caratteristico del Novecento.
Un predominio questo che tuttavia non va considerato meramente come esito del processo storico di globalizzazione del capitalismo, ma anzi, come condizione trascendentale, se non addirittura proprio come condizione di esistenza del capitalismo stesso, in quanto processo tendenzialmente illimitato di accumulazione ovvero di riproduzione allargata, secondo la celebre definizione marxiana per cui il capitale produce essenzialmente capitale e lo fa nella misura in cui produce plusvalore.
Il riferimento teorico principale è Marx, citato a più riprese, laddove sostiene che il capitale tenderebbe inesorabilmente al cosmopolitismo della produzione, tramite l’estensione del mercato mondiale per mano borghese. La nuova forma assunta da questo dominio capitalistico sull’orbe terracqueo sarebbe appunto l’attuale imperialismo globale, una sorta di processo di semplificazione, astrazione e omologazione universale del rapporto di produzione capitalistico, che andrebbe a modificare dalle fondamenta innanzitutto il rapporto fra Stato e Capitale, incrinando quella simbiosi che gli era stata sinora attribuita, almeno da parte marxista.
Lo Stato rimane essenziale e insostituibile nel disciplinamento del lavoro salariato ovvero nella funzione di “gendarme sociale” per lo più interno. L’ordine mondiale, tuttavia, andrebbe incontro ad una Sovereignless Global Governance articolata in tre funzioni principali, incarnate ciascuna da Stati particolari: Sceriffo globale, Banchiere globale, Motore dello sviluppo. L’esercizio di queste funzioni mette in campo da una parte la possibilità sempre aperta del conflitto internazionale e della guerra, dall’altra lo svuotamento di sovranità dei singoli Stati a favore dell’automatismo e dell’inintenzionalità del mercato. ’irrompere della crisi si presenta infine come acceleratore non solo e non ta nto delle contraddizioni insite in questo processo globale in corso d’attuazione, ma come vera e propria accelerazione dell’asservimento degli Stati, dei popoli e delle classi subalterne ai cosiddetti “mercati”, in realtà al capitale multinazionale [C.M.F.].
Se interpreto bene, Lei ci propone fin da subito una ripresa di Marx a partire dal celebre Discorso sul libero scambio insieme agli ultimi capitoli del primo libro del Capitale, sull’accumulazione originaria e la teoria moderna della colonizzazione. Potremmo, secondo Lei, aggiungere a questi scritti l’attività giornalistica di Marx sulle pagine della “New York Daily Tribune” a proposito dell’India e della Cina? In ogni caso, Lei ritiene che se d’imperialismo oggi occorre parlare, dal punto di vista teorico, dobbiamo rintracciarlo già a quell’altezza, senza nulla o poco concedere alle diverse teorie sull’imperialismo che lo hanno poi seguito? Ci può chiarire meglio questo punto?
Nelle opere che lei cita, inclusi quegli scritti giornalistici, a cui aggiungerei alcuni illuminanti passi del Manifesto, Marx esibisce una lungimiranza fuori dal comune. La visione di un processo di accumulazione capitalistica che si dispiega sin dalle origini sulla scala del “mercato mondiale” prefigura proprio il tipo di imperialismo globale che si sta affermando oggigiorno. Rispetto a questa visione, le teorie dell’imperialismo novecentesche di Hobson, Kautsky, Lenin, Luxemburg, Bucharin, costituiscono quasi un regresso teorico.
Certamente un regresso giustificato storicamente, perché il capitalismo dell’era colonialista si configurò effettivamente in quella maniera (impero nazionale, tendenza al monopolio, protezionismo, capitalismo di Stato etc.). Oggi con il senno di poi possiamo dire che quel tipo di imperialismo non era la “fase suprema del capitalismo”, bensì solo una fase transitoria. Alcuni di quei teorici, ma soprattutto Hilferding, avendo osservato una tendenza all’espansione degli investimenti diretti esteri, avevano intuito la possibilità di una trasformazione nella direzione della globalizzazione. Però bisognerà aspettare la fondazione del Organizzazione Mondiale del Commercio (1996) e l’esplosione del movimento No Global per averne una chiara visione.
Lei parla di imperialismo globale dei mercati o meglio di sistema di dominio delle imprese multinazionali – affiancate dalle istituzioni di governance che esse stesse hanno contribuito a produrre (FMI, BM, OMC) – in termini che ricordano il funzionamento inintenzionale del mondo della ricchezza di stampo smithiano. Vorrei capire se effettivamente è questa la visione che Lei intende restituire dell’economia capitalistica. Se così fosse, sarebbe da una parte assai interessante rintracciare una persistenza di Adam Smith in Karl Marx; d’altra parte ciò sottrarrebbe alla politica (degli Stati, delle classi, di popoli) capacità autonoma di intervenire significativamente nei processi reali, oltre che capacità esplicativa degli stessi.
Non si può parlare olisticamente del Capitale come totalità che persegue un fine o un piano più o meno immanente nel decorso storico. I processi reali sono sempre il risultato di azioni di agenti concreti. Tuttavia spesso accade che l’interazione di molti soggetti produce conseguenze che vanno oltre le intenzioni. Le crisi, per esempio, nessuno le vuole, ma in certi momenti tutti operano in modo tale da farle scoppiare. I soggetti dominanti del processo di accumulazione capitalistica contemporaneo sono le imprese multinazionali. Le più importanti sono delle enormi organizzazioni che cercano di controllare i mercati e condizionare gli Stati. I mercati moderni non sono di concorrenza perfetta, come ipotizzava Adam Smith, bensì di concorrenza oligopolistica.
La concorrenza è spietata, ma non passa prevalentemente per la riduzione dei prezzi delle merci. Passa per l’innovazione tecnologica, l’imitazione, il marketing, la pubblicità, le strategie oligopolistiche, le fusioni e le acquisizioni. E porta a una crescita costante delle dimensioni d’impresa. Però, contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere sulla scorta di Kautsky, tale processo di aumento delle dimensioni d’impresa non genera una tendenza alla creazione di un unico trust globale. E ciò perché nascono continuamente nuove imprese multinazionali. Nel 1976 ne esistevano 11.000 con 86.200 affiliate estere. Nel 2015 erano diventate 320.000 con 1.116.000 affiliate estere (dati UNCTAD). Resta comunque valida l’intuizione di Smith riguardo al ruolo della competizione come regolatore fondamentale del processo d’accumulazione. E Marx in ciò è pienamente smithiano. I mercati regolano il processo ma sono le imprese che lo determinano. I manager delle imprese sono dei soggetti, i mercati no.
Per questo è più corretto parlare di “imperialismo globale delle multinazionali” invece che di “globalizzazione dei mercati”. Di fronte allo strapotere delle multinazionali e alla sua crescita, gli Stati e la politica perdono terreno? Si e no. Certamente i “piccoli” Stati, e penso a nazioni come il Giappone, il Brasile, la Corea del Sud, perdono autonomia politica, nel senso che i loro governi non sono in grado di attuare politiche economiche in controtendenza rispetto al ritmo dell’accumulazione globale e in contrasto con gli interessi delle multinazionali. Si pensi al Giappone, che ha cercato di tirarsi fuori dal suo “ventennio perduto” con l’abenomics (politiche espansive keynesiane protette dalla svalutazione dello Yen), ma non ci è riuscito.
Da 2009 al 2015, un’epoca di rallentamento globale della crescita, l’economia giapponese, nonostante l’abenomics, si è sviluppata leggermente più di quanto faceva nei venti anni precedenti, ma non più di quanto permetteva il mercato mondiale: il suo PIL è cresciuto in media intorno all’1% l’anno. Negli ultimi due anni, addirittura è cresciuto a un saggio compreso tra lo 0 e lo 0,5%. Nel mondo globalizzato di oggi i governi riescono a ottenere sviluppo solo se si subordinano agli interessi del capitale multinazionale (praticando il dumping fiscale, sociale, ambientale). Tuttavia tale perdita di autonomia politica coinvolge solo in misura limitata i grandi Stati, cioè Stati Uniti, Cina, Russia, Germania (con l’appendice UE). E ciò per il semplice motivo che le grandi dimensioni dei mercati interni consentono in una certa misura di attuare politiche espansive autonome accompagnandole con il protezionismo e/o la svalutazione.
Se la tesi fondamentale che Lei intende sostenere è che il capitale necessita del libero scambio (e della sua legittimazione scientifica), come spiega l’aumento delle misure protezionistiche, tariffarie e non, proprio negli anni della “crisi”? Un errore teorico? Una resistenza dello Stato al processo di globalizzazione? Una concausa della crisi? O cos’altro?
Le imprese multinazionali vogliono il libero scambio perché gli permette di accumulare su scala mondiale. Ma più che a causa del libero movimento delle merci, che pure è importante, la globalizzazione contemporanea è esplosa in seguito all’abbattimento delle barriere al libero movimento dei capitali. Gli investimenti diretti esteri sono le cannoniere del moderno imperialismo. Sono ciò che consente alle imprese nazionali di diventare multinazionali, e al pesce grosso di un paese di mangiarsi i pesci piccoli di altri paesi. Dopo la crisi scoppiata nel 2008 molti governi hanno cercato di risollevare le sorti delle economie nazionali ricorrendo a vari tipi di misure protezionistiche e svalutazioni competitive. L’intento era di far trainare lo sviluppo dalle esportazioni e di sostituire parte dei beni importati con produzioni nazionali. Questo tipo di politica funziona se la persegue un paese solo e gli altri stanno a guardare. Ma se così fan tutti, si verifica un processo di eterogenesi dei fini che disillude quasi tutti. Se ogni paese riduce la crescita delle importazioni, la crescita della somma delle esportazioni globali diminuisce e quindi quasi tutti vedono ridursi la crescita delle proprie esportazioni, con il risultato che le politiche mercantiliste ottengono l’effetto opposto a quello desiderato.
Una parziale eccezione a questa regola è costituita dal paese più protezionista del mondo, gli Stati Uniti. Date le grandi dimensioni del mercato interno e la bassa dipendenza dal commercio estero, i governi di questo paese sono riusciti a usare il protezionismo (già da prima di Trump) per difendere le politiche fiscali e monetarie espansive in forza delle quali sono cresciuti un po’ più degli altri paesi capitalistici avanzati. Per il mondo nel suo complesso, tuttavia, la crisi si è trasformata in un rallentamento di lungo respiro proprio a causa della diffusione delle politiche protezioniste. La lezione che ne traiamo è che i “mercati” sono un controllore efficace delle politiche dei governi in quanto sono un regolatore inefficiente dell’accumulazione del capitale.
In questo caso hanno generato crisi e rallentamenti della crescita, ma così, senza che nessuno lo avesse programmato, hanno punito le politiche di quasi tutti quei governi che credevano di poter usare il mercantilismo per andare in controtendenza.
Lei sostiene che gli Stati nazionali siano attori secondari del processo di globalizzazione ancora in fieri. A fronte di ciò, come rendere compatibile questa tesi con l’evidenza per la quale il debito pubblico in tutti i Paesi OCSE è in continuo aumento? Non ritiene che si tratti – come per Marx – di un dispositivo essenziale per garantire la riproduzione capitalistica attraverso l’ampliamento dei mercati di sbocco e, al tempo stesso, generare un assetto distributivo vantaggioso per l’”aristocrazia finanziaria”? In altri termini: non ritiene che lo Stato nazionale continui a svolgere una funzione essenziale proprio per l’accumulazione?
Oggigiorno la tendenza all’aumento dei debiti pubblici è determinata fondamentalmente da due fattori. Il primo è che i governi cercano di attrarre investimenti diretti esteri praticando il dumping sociale e fiscale: riducono il costo del lavoro e le tasse delle imprese. Ciò porta a una riduzione delle entrate fiscali, solo in parte compensata dall’aumento delle imposte indirette. Sostanzialmente il governo opera per ridistribuire il carico fiscale dalle imprese ai consumatori e dai ricchi ai poveri. Sono politiche al servizio del capitale. I dirigenti politici le fanno non perché sono perversi o stupidi, ma perché sono costretti dal mercato globale: in caso contrario perderebbero investimenti diretti esteri e/o indurrebbero delocalizzazioni delle produzioni nazionali. Il secondo fattore è che i governi non possono ridurre troppo la spesa pubblica o aumentare troppo le tasse indirette perché altrimenti produrrebbero effetti recessivi. In alcuni casi c’è un terzo fattore: i governi cercano di salvare le banche e le grandi imprese industriali dai fallimenti causati dalla crisi.
Si può dire che la crescita dei debiti pubblici produce un vantaggio per “l’aristocrazia finanziaria”? Sì, e in due sensi: da una parte i manager delle grandi banche possono speculare senza grossi rischi perché i governi sono quasi sempre pronti a salvarli, dall’altra i titoli del debito pubblico costituiscono un’enorme massa di “capitale fittizio” con cui redistribuire reddito dalle tasche dei contribuenti a quelle dei capitalisti e, nei momenti di crisi, per scatenare la speculazione al ribasso con la quale le imprese finanziarie, le banche, gli hedge funds ecc. espropriano i piccoli risparmiatori. E che dire della tesi secondo cui lo Stato nazionale svolge una qualche funzione di sostegno all’accumulazione con la gestione del debito pubblico? In alcuni casi accade che i governi mettono in atto politiche fiscali espansive per sostenere l’accumulazione, e tali politiche fanno aumentare il deficit e il debito pubblico. È ciò che è accaduto in Giappone, dove il rapporto debito/PIL è passato dal 191,8% nel 2008 al 250,4% nel 2016; negli Usa, dove è passato dal 62,5% al 106,1%; in Cina dove è passato dal 27% al 46,2%. Tuttavia gli effetti che queste politiche hanno avuto sulla crescita del PIL nazionale sono stati deboli e quelli che hanno avuto sulla crescita del PIL globale sono stati irrilevanti. Cinquant’anni fa una politica del genere negli Stati Uniti avrebbe determinato un boom della crescita globale. Oggi nessuno dei tre paesi riesce più a svolgere da solo la funzione di motore dell’accumulazione globale, e non ci riescono neanche tutti e tre insieme finché la Germania continua a remare contro.
Lei parla a proposito della teoria economica dominante (cosiddetto neoliberismo) di “disciplina ideologica” e di “mercati delle coscienze”. Considera quindi che tale disciplina non sia scienza (neppure nell’accezione di scienza sociale), ma che sia unicamente la legittimazione accademica degli interessi delle classi dominanti? Ovvero, Lei non ritiene che vi sia la possibilità, anche remota, di avere una visione scientifica del mondo economico contemporaneo?
Nelle discipline sociali la scienza non va mai scissa dall’ideologia. La comprensione e la spiegazione della realtà sociale è sempre una interpretazione e questa tende a esprimere un “punto di vista”. Alcuni punti di vista consentono di capire certe cose meglio di altri. Per Marx è il punto di vista operaio che gli permette di capire quello che Smith e Ricardo non avevano potuto capire partendo da un punto di vista borghese. Ciò non toglie che i due economisti liberali inglesi siano stati dei grandi scienziati. Marx stesso gli tributò quasi il tributo di un allievo. Keynes era imbevuto di ideologia liberale, e ha iniziato un rivoluzione scientifica che ci ha fatto capire alcune cose che gli economisti marxisti non erano riusciti a capire bene prima di lui. Perfino un cane morto come von Hayek, padre dell’ultraliberismo contemporaneo, ha acquisito una conoscenza (la funzione informativa dei mercati) da cui i marxisti possono trarre lumi. Ovviamente l’ideologia svolge un ruolo importante nei processi di costruzione dell’egemonia politica e di disciplinamento delle forze sociali. Ed è anche vero che spesso tale egemonia è costruita su delle falsificazioni della realtà, delle vere proprie menzogne teoretiche. Solitamente queste menzogne passano per la dimostrazione di teoremi che sono formalmente rigorosi, ma che sono basati su assiomi irrealistici o assurdi. Siccome gli assiomi non possono essere dimostrati, alla fine tutto si riduce a un atto di fede. Oggi ad esempio molti credono che una forte espansione dell’offerta di moneta causa inflazione. Pochi sanno che la teoria monetarista ha dimostrato questa proposizione sotto le ipotesi che ci sia sempre piena occupazione e concorrenza perfetta, due ipotesi ridicole.
In sintesi, le proposizioni avanzate nelle scienze sociali sono sempre impregnate di ideologia e quasi sempre mescolano verità e menzogna.
Anche le teorie critiche funzionano così. Basti pensare a quante castronerie vengono scritte ancora oggi da certi marxisti più o meno ortodossi sulla teoria del valore-lavoro, per dirne una. Ciò implica che siamo incapaci di costruire una comprensione scientifica della realtà? No. L’economia è una scienza che riesce a stabilire conoscenze effettive, pur attraverso visioni di parte. E le conoscenze acquisite entro un certo paradigma ideologico possono poi essere rielaborate e usate anche da scienziati che adottano paradigmi alternativi. Marx l’aveva fatto con le teorie di Smith e Ricardo. Noi possiamo farlo con le teorie di Keynes, Schumpeter, Stiglitz, Ostrom e altri. Dobbiamo però essere sempre molto cauti nell’avanzare proposizioni esplicative, sempre consapevoli che la nostra visione è influenzata in modo determinane dal punto di vista, e sempre pronti a modificare le nostre opinioni sulla base dell’esperienza e della critica.
Nel testo Lei dedica una lunga e articolata riflessione alla povertà (misurata in termini relativi e/o assoluti; contestualizzata nel tempo storico nonché nello spazio geopolitico; non immediatamente coincidente con la classe operaia), che mette in luce la complessità di tale concetto. Tuttavia, mi pare che poi, soprattutto nel finale, attribuisca al processo di globalizzazione una sorta di proprietà di semplificazione del rapporto diseguale fra le classi, tale per cui si prospetterebbe in tendenza una radicalizzazione della contraddizione capitale/lavoro; una radicale dicotomia ricchezza/povertà; una generale proletarizzazione delle classi subalterne sia del Centro che della Periferia e che, a suo dire, implicherebbe una incontenibile carica sovversiva da parte di queste ultime, in grado addirittura di rovesciare lo stato di cose presente. Non Le sembra da una parte riduttivo e dall’altra utopistico affidare le sorti del sistema-mondo alla lotta di classe così configurata?
È riduttivo come lo sono tutte le astrazioni teoriche. Con le astrazioni si perdono i dettagli, ma si va al nocciolo delle questioni. Ora, io credo che la globalizzazione contemporanea abbia determinato i seguenti processi sociali: 1) un aumento della povertà relativa in tutto il mondo e di quella assoluta in molti paesi avanzati; 2) un aumento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze; 3) una tendenza alla riduzione della quota salari sul reddito nazionale; 4) un impoverimento dei ceti medi con proletarizzazione della piccola borghesia. Il nocciolo di questi fenomeni è colto dalla tesi secondo cui è in atto un processo di polarizzazione sociale, con una ristretta classe di capitalisti che si arricchisce sempre più e una classe proletaria che si espande sempre più e sempre più si omogeneizza globalmente. Si omogeneizza con un processo di tendenziale impoverimento relativo.
Sembra che la legge marxiana dell’impoverimento crescente si stia realizzando con la globalizzazione.
È utopistico pensare che è nelle classi oggi perdenti che dobbiamo riporre le nostre speranze? Che solo una rivoluzione proletaria globale (ovviamente articolata in tempi e modi diversi nei diversi ambiti nazionali) può innescare un processo capace di rovesciare la globalizzazione dello sfruttamento capitalistico in una globalizzazione socialista della libertà? Certamente sì, se guardiamo allo stato attuale della mobilitazione politica delle classi subalterne. Ma non si dimentichi che le grandi insurrezioni internazionali spesso si verificano all’improvviso, quando nessuno se le aspetta. Nel 1916 non veniva considerata utopistica le teoria leniniana della trasformazione della guerra in rivoluzione? E nel 1966, quando si teorizzava la fine della classe operaia, chi avrebbe scommesso su esplosioni come il 68 e l’autunno caldo?
A proposito dell’Unione Monetaria Europea, nel libro si fa riferimento a uno “schema Germania” basato sul combinato di politiche fiscali restrittive e politiche monetarie restrittive. Cosa pensa della svolta della BCE in merito all’adozione di politiche monetarie non convenzionali, quali sono state le sue motivazioni e quali le possibili conseguenze? Inoltre, non ritiene che, come ha osservato George Soros, in fondo la Germania trarrebbe molti benefici dalla implosione dell’Unione, se non altro per la sua capacità di accrescere le proprie esportazioni anche al di fuori dell’eurozona?
Victrix causa deis placuit. Gli dei hanno voluto aiutare il vincitore. Proprio quando in Eurolandia stava per esplodere una crisi che avrebbe portato al suo disfacimento, gli dei hanno ispirato Mario Draghi. Questi ha capito cosa si doveva fare per salvare l’UEM e l’ha fatto. Ha messo in atto politiche monetarie espansive con cui: 1) ha abbassato i tassi d’interesse; 2) ha ridotto drasticamente gli spread; 3) ha rifornito le banche di liquidità; 4) ha tagliato l’onere del servizio dei debiti pubblici: 5) ha monetizzato parte dei debiti pubblici; 6) ha determinato una svalutazione dell’euro. In sostanza ha creato le condizioni per uscire da quella crisi e avviare la ripresa attualmente in corso. La ripresa tuttavia è ancora modesta perché le politiche fiscali europee, condizionate da quelle tedesche, non sono sufficientemente espansive. Se il governo tedesco facesse una politica fiscale fortemente espansiva riuscirebbe a svolgere la funzione di motore dell’accumulazione globale (insieme a Usa e Cina) e a spingere l’economia mondiale verso una sostenuta ripresa. Ma non lo fa. Perché? Perché la Bundesverband der Deutschen Industrie ritiene che una moderata crescita trainata da un enorme surplus commerciale è sufficiente per sostenere l’accumulazione del capitale senza scatenare tensioni nei rapporti di forza tra le classi, cioè senza rafforzare la classe operaia con l’avvicinamento alla piena occupazione. Così gli aumenti salariali sono tenuti sotto controllo e, insieme a una rilevante crescita della produttività, sono usati per sostenere uno strisciante deprezzamento reale che serve a mantenere la competitività dell’industria tedesca.
Questo tipo di politica, mentre alimenta una sorta di imperialismo neomercantilista tedesco in Europa, serve anche gli interessi di tutto il capitale europeo: imponendo una bassa crescita del PIL a tutta l’Unione, contribuisce a mantenere basso il costo del lavoro. Si capisce che né la FCA né la Daimler hanno interesse a una rottura della UE. A ragionare invece in termini di classi operaie nazionali, quali avrebbero interesse a una rottura? Certamente le classi operaie dell’Italia, della Francia, della Spagna, della Grecia ecc. Ma il capitale tedesco che interesse avrebbe? Assolutamente nessuno. Dentro l’UE gode di un Marco sottovalutato (tale è l’Euro) che aiuta ad alimentare il surplus commerciale tedesco. Se l’UE si disgregasse, il Marco si rivaluterebbe e la Germania perderebbe competitività in Europa e nel mondo. Se le autorità monetarie tedesche operassero per impedire una rivalutazione del Marco, quelle americane, italiane, francesi e spagnole potrebbero operare per una svalutazione delle loro monete. Penso che le classi subalterne del Sud Europa abbiano oggi un interesse di fondo alla rottura dell’UE e che le forze di sinistra dovrebbero lottare per l’Italexit, la Frexit, la Spexit ecc. L’Unione Europea è il risultato di una vittoria del capitale nella lotta di classe continentale e, allo stesso tempo, è un potente strumento per la continuazione di questa lotta. Dunque, battersi per la disgregazione dell’Unione deve essere visto come parte di una strategia di riscossa del proletariato mirante a una rivoluzione proletaria, se non mondiale, almeno europea.
Lei argomenta, nel libro, che l’obiettivo della Cina (peraltro dichiarato) sarebbe quello di sostituire il dollaro, come strumento di riserva internazionale, con una valuta emessa dal FMI e basata su un mix di monete nel quale il peso dello Yuan sarebbe relativamente elevato. Considera questa prospettiva realistica? Più in generale, ritiene che l’egemonia USA sia oggi seriamente messa in discussione da un “nuovo imperialismo” cinese? Saremmo di fronte a uno scenario interimperialistico o a qualcosa di totalmente inedito? In che misura tutto ciò confermerebbe la sua lettura dell’imperialismo globale?
Al momento la proposta cinese non sembra realistica. Gli Stati Uniti lotteranno fino all’ultimo sangue per mantenere il Dollar Standard e per evitare la de-dollarizzazione degli scambi internazionali. L’unica seria minaccia proviene dall’Euro. Attualmente circa il 64% delle riserve ufficiali mondiali sono in Dollari, il 19% in Euro, l’1% in Yuan. Se la moneta europea, che attualmente si sta rivalutando rispetto al Dollaro, si dovesse stabilizzare e se anche la ripresa della crescita nell’UE si stabilizzasse, la percentuale dell’Euro aumenterebbe e quella del Dollaro diminuirebbe, e si potrebbe andare verso un Dollar-Euro Standard. Se invece scoppiasse un’altra crisi in America e/o in Europa, allora la proposta cinese potrebbe tornare ad essere credibile. Potrebbero prospettarsi anche altre possibilità, ad esempio un ritorno al gold exchange standard, che sarebbe gradito ai paesi produttori di petrolio e forse alla stessa Cina (che ha recentemente accumulato enormi riserve auree). Ma è presto per fare previsioni in questa materia.
L’egemonia globale americana è oggi ancora forte nel campo della ricerca tecnologica e ovviamente in campo militare, mentre il PIL americano (18.569 miliardi di Dollari a dicembre 2916) resta il primo al mondo.
La Cina sta facendo passi da gigante in tutti e tre i campi, ma ancora non ha superato gli Stati Uniti (a quella data il suo PIL era pari a 11.119 miliardi di dollari). Viviamo in un periodo di acutizzazione di contrasti vetero-interimperiali, anche per colpa delle politiche mercantiliste messe in atto dopo la crisi. L’affermazione dell’imperialismo globale delle multinazionali non ha portato al superamento dei conflitti tra grandi Stati. Persiste un forte residuo delle vecchie ambizioni geopolitiche, e una sorta di (limitata) autonomia del politico che spinge le classi dirigenti americane, tedesche, cinesi e russe a guerreggiare (per interposto Stato) in modo più o meno permanente. Ma anche qui si verifica una sorta di eterogenesi dei fini che fa sì che le classi politiche, spesso senza volerlo, lavorino per gli interessi del grande capitale multinazionale. Ad esempio, se gli Stati Uniti riuscissero ad asfaltare la Corea del Nord, potrebbero vantare un successo imperiale americano contro uno “Stato canaglia” e otterrebbero un rafforzamento del loro controllo dell’estremo oriente. Ma alla fine tutto il capitale multinazionale (anche quello giapponese, quello russo e quello europeo) si avvantaggerebbe dell’apertura del nuovo mercato.
Infine, sul piano teorico, Lei come considera la proposta di Wray e di altri esponenti della Modern Monetay Theory di accrescere l’occupazione, fino ad arrivare al pieno impiego, permettendo allo Stato di svolgere la funzione di datore di lavoro di ultima istanza, attraverso la completa monetizzazione della spesa pubblica?
La Modern Monetay Theory non é altro che la vecchia teoria monetaria post-keynesiana trasformata in programma politico. Politiche monetarie espansive accompagnate da politiche fiscali espansive, se adottate in un paese abbastanza grande (come gli USA) possono riuscire a rilanciare la piena occupazione e lo sviluppo economico nazionale, se adottate anche da altri grandi paesi possono rilanciare lo sviluppo su scala mondiale. Se i principali governi del G8 decidessero di avviare una
politica di forte espansione della spesa pubblica e dell’offerta di moneta, il tasso di crescita del PIL globale potrebbe fare un salto senza precedenti. Il grande capitale multinazionale potrebbe anche gradire un tale cambiamento di regime d’accumulazione se fosse accompagnato da un patto sociale capace di moderare le rivendicazioni operaie. Il problema è proprio questo. Con un’economia globale che si avviasse verso la piena occupazione, i lavoratori non sarebbero più tenuti a freno dalla paura di perdere il posto di lavoro. E le lotte sociali potrebbero ripartire, stavolta su scala globale.
(1) Il testo di Ernesto Screpanti dal quale prende le mosse questa conversazione è Global imperialism and the great crisis: the uncertain future of capitalism, Monthly Review Press, 2014, disponibile liberamente in inglese a https://monthlyreview.org/product/global_imperialism_and_the_great_crisis/ e in italiano a https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/110636/limperialismo-globale-e-la-grande-crisi/.
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Ernesto Screpanti
Il libro purtroppo non è disponibile “liberamente”, cioè gratis.