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“I comunisti lavorino ad una alleanza popolare più vasta “

Contributo al Forum “Come si organizzano i comunisti nel XXI Secolo” tenutosi a Roma sabato 21 aprile promosso dalla Rete dei Comunisti.

1) Il partito comunista di massa ha ancora senso ed efficacia?

L’organizzazione dei comunisti è ancora oggi indispensabile per imprimere una direzione politica ai movimenti che nascono e si sviluppano nel corso della lotta di classe. La questione del socialismo dentro le dinamiche sociali del conflitto e le contraddizioni economico-sociali in una data fase può essere fatta vivere solo da un partito comunista nelle modalità storiche e politiche possibili e in base alle possibilità attraverso le quali si può verificare una rottura rivoluzionaria, un’egemonia politica e sociale delle forze rivoluzionarie e progressiste e una relativa transizione socialista.

Occorre per questo definire quale partito, la sua forma storico-politica in base ai profondi mutamenti sociali, alle forme di relazioni sociali, le tecnologie, la rete, alle modalità in cui oggi comunicano e si compongono socialmente e culturalmente gli individui, un partito la cui forma e azione è relativa alla composizione di classe.

Tuttavia, penso che oggi un partito comunista di massa nel nostro paese non sia ancora all’ordine del giorno, a causa dei pregressi storici e della vulgata del pensiero unico dominante, all’arretratezza dei livelli generali di coscienza di classe (è pur vero che il partito comunista deve apportare coscienza alla classe, ma ciò va fatto nelle forme e nelle modalità adeguate ai livelli di coscienza dati).

Penso più a un partito di quadri politici capace di incidere nelle situazioni spingendole avanti nel conflitto sociale, orientandole e favorendone l’organizzazione contro il nemico di classe e su un programma minimo possibile e praticabile attraverso nuove forme di agitazione politica, organizzazione di massa e azione: il lavoro politico-organizzativo per linee esterne, organizzazioni di massa sindacali, di territorio, culturali, ecc.. Per linee interne, propaganda e formazione, va fatto crescere un corpo militante proveniente dalle lotte, crescendo in questa direzione le avanguardie di classe più combattive e ben presenti nei movimenti: lavoro politico-organizzativo la struttura del partito.

2) Le profonde modifiche della composizione di classe che conseguenze hanno prodotto nella società e nel blocco sociale antagonista?

Con la fine dell’operaio massa e le composizione tayloristica del lavoro, assistiamo già da oltre 40 anni a un processo di frammentazione della classe operaia e in generale del lavoro vivo dentro nuovi processi di produzione generati dall’organizzazione del lavoro attraverso ristrutturazioni delle filiere: dalla produzione al terziario.

Si può parlare di scomposizione della forza-lavoro attraverso il decentramento produttivo. A ciò si aggiunge la delocalizzazione che ha spostato le produzioni dalle aree metropolitane occidentali a paesi del terzo mondo. Questa scomposizione è stata di fatto un attacco alla classe operaia e ai lavoratori salariati in generale, nei luoghi di lavoro e a livello più generale alle condizioni di lavoro (diritti) e ai salari.

Infatti, la scomposizione stessa ha determinato una perdita di identità di classe e quindi di forza materiale del lavoro vivo che si esprimeva nella lotta di classe in ambito sindacale, sociale e politico.

In questo processo si è innestata la degenerazione del PCI, che sul piano economico in talune aree del paese come l’Emilia Romagna si faceva portatore del decentramento produttivo e quindi della scomposizione operaia, costituendo un vero e proprio laboratorio della ristrutturazione capitalistica, mentre dall’altra, sul piano politico, approdava al pensiero e alle politiche di stampo liberale, fino al neoliberismo di cui il renzismo è l’elemento finale, con il PD che è divenuto la principale forze del capitale monopolistico e finanziario e dell’euro macelleria sociale in Italia.

Il blocco sociale antagonista oggi è un “residuato bellico” della grande ondata di lotte sociali degli anni ’60-70. Esistono lotte sul territorio e in luoghi di lavoro, ma che non hanno una valenza ricompositiva anche perché è del tutto assente il soggetto del punto 1): i comunisti, con gli strumenti politici e l’impostazione del partito che sinsono dati sino ad oggi, non sono in grado di fare politica rivoluzionaria e di ricomporre sul piano della politica i focolai di antagonismo sociale. Questo è un gap che va colmato.

La proletarizzazione.

Con le politiche austeritarie dell’UE vengono ridimensionati se non distrutti interi comparti del manifatturiero. Anche il terziario non se la passa bene, come in una reazione a catena è l’intera economia italiana a essere devastata. In particolare a soffrirne sono le piccole e medie imprese produttive e commerciali. È un esercito di forza lavoro a essere espulso dai cicli di produzione del capitale, e ciò è la direzione che assume la proletarizzazione di questa massa di settori piccolo borghesi. Dunque non solo forza-lavoro salariata, ma anche una vasta platea di piccoli imprenditori subisce il medesimo destino andando a formare una composizione di classe altamente precarizzata a causa delle forme prevalenti in Occidente, e in Italia in particolare, della produzione capitalistica, ma anche dei rapporti di forza capitale/lavoro fissati nelle ultime leggi che sanciscono e normano la condizione precaria del lavoro come la condizione prevalente del lavoro nell’attuale società.

Non solo la scomposizione di classe, ma anche il fattore culturale di questa massa neoproletaria, precarizzata, spiega la non acquisizione di coscienza di classe e di identità collettiva come “classe per sé” dentro il modo di produzione capitalistico.

Una massa che quindi trova nuove forme di adesione politica spesso nel populismo di destra, nazionalista, persino razzista, che meglio si legano all’originaria visione piccolo-borghese della società e della propria esistenza sogettiva nella società.

I comunisti, oltre a scontare vecchi schemi organizzativi e d’analisi della composizione di classe, non solo non si pongono il problema di intervenire in questa nuova composizione sociale e del lavoro, ma di conseguenza non si pongono neppure il problema di individuare gli strumenti giusti.

Si è parlato di “populismo di sinistra”, di “sinistra nazionale”. Io penso che la questione della sovranità popolare non debba inseguire “da sinistra” gli schemi delle destre, ma ritrovare in un nuovo anti-neocolonialismo anticapitalista quella ricomposizione politica che può togliere l’egemonia politica e culturale a quell’arma di distrazione di massa che è il nazionalismo populista di Lega, fascisti e destre varie.

Se i comunisti abbandonano o mettono in secondo piano la contraddizione portante del modo di produzione capitalistico, che è quella tra capitale/lavoro (e non masse/élite, definizione piuttosto generica), non avranno poi gli strumenti adeguati per ricostruire un blocco sociale antagonista al capitalismo, alla sua espressione storicamente data in quest’epoca che è il neoliberismo di tipo anglosassone e l’ordoliberismo di stampo teutonico.

Non si tratta dunque di affrontare la questione della sovranità con il due tempismo: rivoluzione democratico-borghese – rivoluzione socialista, né di mettere all’ordine del giorno il socialismo subito. Si tratta di lavorare affinché l’uscita dall’UE non sia reazionaria, lasciando le leve del comando del paese a una borghesia più nazionale, non cosmopolita, che può godere di una vasta adesione anche in strati sociali proletarizzati e di piccola e media borghesia, secondo una via “ungherese”. La sovranità popolare è nella ricostruzione di una democrazia diretta che riparta dal rapporto capitale/lavoro, dai luoghi di lavoro, dal territorio, dai punti focali della nuova accumulazione originaria, la gentrificazione delle città, la devastazione ambientale e territoriale a fini di profitto, dalle privatizzazioni, a partire dai punti nevralgici del capitale, ossia quei processi che mettono a valore la produzione capitalistica. Non è un caso che le lotte della logistica abbiano creato allarme sociale da parte del capitale e delle sue istituzioni: intervenire con il boicottaggio sui flussi di circolazione della merce è molto pericoloso per il capitale poiché va a mettere in discussione nell’immediato la realizzazione dei profitti. È un esempio che può estendersi ad altri settori del lavoro e ricomporre forza materiale di classe. Il capitale va colpito a partire da dove è più debole.

Ciò a cui i comunisti devono puntare è a un’egemonia operaia, proletaria di tutti i settori della massa che soggettivamente (per il posto che variamente occupa nella produzione sociale) è contrapposta alle “élite”. Solo così si può concepire un blocco sociale vasto e una strategia politica che dia la direzione giusta anche a quei settori proletarizzati o devastati dalla crisi che non trovano l’aggregazione antagonista come una strada immediatamente congeniale.

Solo così si può mettere all’ordine del giorno nella rottura con l’UE e i suoi dispositivi di comando, trattati, moneta, una transizione popolare al socialismo, una socializzazione di un’economia che con tutta probabilità resterà di mercato ancora a lungo, ma con dei vincoli economici, finanziari, sociali (sui diritti), che vedono il primato, attore primario, lo stato che emerge da un processo popolare costituente.

3) Quale funzione e di impegno dei comunisti nella rappresentanza politica?

Sulla scorta di queste considerazioni, i comunisti devono lavorare alla costruzione di un fronte popolare di opposizione che veda un’alleanza ben più vasta tra componenti del lavoro di quella che abbiamo sino ad oggi del blocco sociale di riferimento.

Vedo un partito di quadri politici che svolge lavoro a più livelli: sulla rappresentanza, ma anche ed è essenziale, un lavoro culturale e d’informazione con quegli strumenti che oggi i nuovi mezzi digitali di comunicazione ci offrono. Essere punto di riferimento nella produzione di visione politica su una molteplicità di argomenti è basilare se si vuole essere punto di riferimento, rappresentanza politica e fare contrasto alla visione reazionaria delle destre che devia le questioni sociali verso temi oscurantisti come il razzismo contro i migranti e un nazionalismo becero, sciovinista, basato sull’esclusione e la divisione sociale.

I comunisti non devono dividere ma unire, costruire ponti tra diversi universi sociali, culturali, relativi alle direzioni che prendono nella società i diversi soggetti del lavoro, sul territorio, in tutto il paese. La proposta di un’emittente nazionale digitale è quell’elemento che oggi ci manca.

4) Quale movimento sindacale opponiamo al patto sociale neocorporativo?

Il sindacato conflittuale deve avere ben chiaro che si recupera forza di classe nei rapporti con il capitale solo se si mette in discussione la catena del valore (vedere punto 2), con i suoi flussi di realizzazione del profitto. È sempre stato così, ma anche il neocorporativismo strisciante, può far arretrare le lotte, se diviene lotta per sé, di categoria, senza una visione più generale. O si vince tutti o non vince nessuno.

I comunisti, pur tenendo distinte le rispettive differenze tra partito e sindacato nelle funzioni che ricoprono nella lotta di classe, devono sempre essere in grado di legare ogni ambito del sindacato agli interessi generali della classe e alle questioni politiche che si pongono nel conflitto sociale.

Sul piano immediato, vediamo che persino in talune roccaforti del sindacato concertativo, è in atto una disaffezione da parte dei lavoratori verso CGIL-CISL-UIL. Ciò non si traduce immediatamente in posizioni di conflittualità aperta con il padronato, ma semplicemente in richiesta di maggiore tutela contrattuale e salariale, nonché del posto di lavoro. Occorre comprendere bene questo passaggio verso il sindacalismo di base senza vedere ciò come un processo automatico di politicizzazione.

I comunisti devono essere in grado di calibrare l’azione nelle organizzazioni sindacali con il fine di potenziare la forza sindacale nei luoghi di lavoro sulle specifiche vertenze, ma spingendo anche dove possibile per una crescita della politicizzazione dei lavoratori.

5) Quali conflitti, quali movimenti e quali organizzazioni sociali/sindacali sono più efficaci nella dimensione metropolitana?

L’analisi della composizione di classe oggi frammentata e della catena del valore (produzione ed estrazione), ci deve portare a considerare i luoghi e le modalità dell’intervento e dell’organizzazione della masse popolari.

Fabbrica, pubblico impiego, terziario composito e differenziato a partire dalla gdo-logistica, partite iva, cittadini resistenti nei territori, senzacasa, terzo settore e servizi privatizzati, sono tutti ambiti del conflitto sociale che vanno ricomposti su una piattaforma comune antiliberista e quindi su un fronte unitario di lotta.

Occorre colmare il gap esistente tra la percezione che cittadini e lavoratori hanno dell’Unione Europea e dei suoi trattati e le ricadute di questi dispositivi di oppressione sociale dal lavoro al fisco, dalle privatizzazioni alle speculazioni delle grandi opere e della gentrificazione che ridisegna gli spazi di vita secondo la valorizzazione del capitale e le rendite.

Non esiste lotta generale contro lo sfruttamento del capitale sul lavoro e sull’intero corpo sociale senza la direzione del colpo principale che oggi è l’UE, l’espressione politica ed economica del polo imperialista in cui il nostro paese è inserito secondo uno schema gerarchico prestabilito.

I comunisti devono essere in grado di tessere un filo conduttore comune a ogni esperienza di movimento e di lotta, spingendo verso forme di organizzazione della classe in grado di riconoscersi per identità sociale e per progettualità unitaria.

Sarebbe sbagliato oggi poter pensare al classico partito comunista di massa con cellule e/o sezioni, che per lo stato della coscienza generale della classe e delle masse popolari resterebbe parte a sé stante, esterna alle dinamiche del conflitto, o parte minoritaria.

Vanno ripensate le modalità di penetrazione dell’organizzazione comunista e dell’avanguardia politica nelle specifiche situazioni, concorrendo alla costruzione di organizzazioni di massa anche solo inizialmente vertenziali, ma che possono costituire il terreno di crescita della coscienza politica, di diffusione delle idee del comunismo e del suo programma minimo e massimo, nel passaggio alla lotta per la sovranità popolare contro il regime della troica. Ovviamente ogni situazione è un caso a sé e va bene analizzato.

In questo senso va inquadrata la presenza e l’attività comunista in Potere al Popolo.

Partito e consigli, partito e soviet, partito e organismi di massa, la relazione avanguardia/classe si muove sempre tra questi due fattori, il lavoro dei comunisti alla costruzione del potere popolare costituente futuro motore propulsivo del nuovo stato rivoluzionario rifiuta  il terreno meramente funzionale alla sopravvivenza di ceto che ha avuto la sinistra e i residui comunisti (mi riferisco in particolare a Rifondazione) sino ad oggi in funzione esclusivamente elettoralistica.

Non v’è dubbio che le organizzazioni comuniste che si ritroveranno su questo terreno e avranno queste modalità di intervento nei movimenti e nei vari tipi di organismi del conflitto sociale, saranno quelle che faranno poi il passaggio all’unificazione in una forza comunista verso l’egemonia nel panorama politico dell’antagonismo di classe.

Sino ad oggi si è trovato naturale muoversi negli ambiti storici del conflitto di classe: classe operaia, lavoratori salariati in generale, più settori precarizzati e cittadini resistenti nei territori.

Ma non sono ancora state colte tutte le potenzialità che possono emergere da altri ambiti più frammentati del lavoro e nei territori. Mi riferisco in particolare alle partite iva, ai vessati della gestione separata, aprendo la questione fiscale. La gestione del fisco da parte degli organi dello stato ha la stessa funzione del patto di stabilità, un comando predatorio sulla popolazione: salari, redditi da lavoro autonomo, piccole rendite patrimoniali. È un terreno che ci è “sconosciuto”, o che si è poco battuto, ma è un terreno fondamentale se si considera che la piccola e media impresa, il lavoro autonomo e tutto ciò che ci gira intorno rappresenta una forte componente sociale, Categorie sociali compresse tra due fuochi: l’imposizione fiscale vessatoria e l’austerity, elementi fondamentali per la proletarizzazione crescente e la crescita di una massa precaria.

Il dibattito su questo terreno va aperto, non solo per intercettare quel malcontento che resta spesso emarginato nei recinti di una visione individuale dei problemi e quindi nell’inattivismo, ma anche per contrastare la vulgata reazionaria delle destre laddove raggiunge punte massime di consenso e adesione, secondo visioni nazionaliste e razziste.

Come detto in precedenza, non si tratta di rispondere al populismo delle destre inseguendolo, ma lavorando per far capire a soggettività piuttosto eterogenee tra loro chi è il vero nemico e quali i veri alleati sociali anche se transitori. Su questi capisaldi si costruisce un percorso unitario di sovranità popolare costituente. Su questo terreno cambiano anche le modalità di lotta e organizzative, tutte da esplorare.

Dobbiamo costruire una visione comune della gestione pubblica dell’economia, che per noi comunisti è parte della transizione al socialismo, mentre per settori sociali che parlano ancora il linguaggio della propria categoria d’appartenenza o di provenienza è la possibilità di esistere con le proprie piccole attività ma comprendendo tutti vantaggi fiscali, previdenziali, creditizi, le tutele che la gestione statale della finanza e dei gangli vitali dell’economia offre, ovviamente però negli obblighi contrattuali con con le proprie maestranze, verso una democratizzazione dal basso dei rapporti economici e una partecipazione popolare dal particolare al generale, dal luogo di lavoro, dal proprio territorio alle istituzioni centrali dello stato.

Anche su questo terreno ostico dei ceti medi in crisi si può battere la visione barbara e selvaggia del neoliberismo, del mors tua vita mea, del tutti contro tutti, se sappiamo trovare gli strimenti di intervento giusti e senza trovare facili suggestioni nazionaliste.

Senza voler aprire un’analisi che sarebbe molto più complessa e volendo semplificare, ciò non è niente di diverso rispetto la tattica leninista che portò i contadini nella rivoluzione sovietica (i bolscevichi adottarono il programma agrario dei contadini, vedi le Tesi d’aprile).

 

 

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