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Autonomia differenziata: il convitato di pietra è l’Unione Europea

Come è stato osservato in più interventi tenuti in una recente e riuscita assemblea a Napoli (09 marzo – “Il Sud Conta”) sulla questione del regionalismo differenziato, dalla riforma costituzionale del 2001 la “questione meridionale” (a prescindere dalle sue varie declinazioni) è stata espulsa dalla agenda politica nazionale e, anche formalmente, la questione settentrionale è entrata a far parte del discorso politico dominante, con chiara legittimazione costituzionale.

Il tema del recupero del “grande divario” tra Nord e Sud del Paese è stato, di conseguenza, del tutto obliterato. Le stesse politiche di orientamento della spesa pubblica nazionale hanno guardato altrove.

Nel 2001 lo Svimez, analizzando l’andamento dell’anno precedente, da un lato si rallegrava del fatto che il Sud da qualche anno presentasse incrementi del prodotto interno lordo, dei consumi e degli investimenti maggiori di quelli del resto del paese, mentre dall’altro lato evidenziava (come a dire qui lo dico e qui lo nego) delle tendenze che mostravano come tale miglioramento fosse illusorio: «… l’economia del Mezzogiorno si presenta con dati e prospettive certamente migliori rispetto all’esperienza della prima parte degli anni ’90, avendo saputo arrestare la tendenza ad un ulteriore arretramento dei livelli relativi di prodotto, di occupazione e di investimenti. Un consolidamento ed ulteriori progressi del processo di crescita dell’economia dell’area restano più che mai legati, oltre che alla congiuntura nazionale e internazionale, all’intensità e alla regolarità dell’azione volta a rimuovere i vincoli strutturali e gli elementi di debolezza che continuano a gravare sul Mezzogiorno».

In effetti questa ripresa del mai compiuto processo di convergenza si inseriva in un quadro che la rendeva meramente congiunturale, ossia dipendente dal ciclo italiano, europeo e più propriamente mondiale. Non a caso nei due anni successivi la ripresa si consumò a causa della crisi mondiale scaturita dalla fine del boom hi-tech che si sovrapponeva alle vicende dell’attentato alle Torri Gemelle: «La fase espansiva che aveva interessato le principali economie industrializzate nel 2000, e che aveva portato alla performance migliore del decennio, con saggi di crescita intorno al 3% per l’area dell’euro, non ha trovato conferma nell’anno appena trascorso. La crescita del PIL nell’Unione europea si è più che dimezzata da un tasso medio del 3,4% all’1,4%, confermando uno stato di dipendenza dal ciclo della domanda mondiale, e degli Stati Uniti in particolare (cresciuti nel 2001 all’1,2% appena, dopo tre anni consecutivi di tassi superiori al 4%), e del commercio mondiale rimasto virtualmente stazionario dopo l’eccezionale accelerazione del 2000 (13% circa)».

Un paio d’anni di lieve ripresa («Sospinta dalla positiva espansione dell’attività economica in Europa, l’economia italiana, dopo una fase di stagnazione che durava ormai da quattro anni – la più lunga dal dopoguerra –, nel 2006 ha mostrato forti segni di ripresa. Sebbene la crescita del prodotto interno lordo nazionale sia risultata ancora inferiore di un punto a quella media dell’UE a 27 (1,9% contro il 2,9%), l’incremento è stato di oltre quattro volte quello medio del precedente triennio 2002-2005 (0,4%)»)e poi cominciò la tragedia greca della crisi del 2007 («La stesura del Rapporto di quest’anno interviene in una fase in cui la crisi internazionale si sta ripercuotendo sull’economia nazionale con una forza anche maggiore di quella che solo pochi mesi era stata prevista. Il calo degli ordini, della produzione industriale, degli investimenti e dell’occupazione configurano una recessione pesante con impatti significativi che tenderanno a trasferirsi dal sistema economico al tessuto sociale nazionale»).

Non finiva la crisi del 2007 («Tra le principali economie industrializzate l’Italia è fra le più lente a recuperare: nel 2011 il Pil nazionale è aumentato dello 0,4%, meno della Francia (+1,7%),molto meno della Germania (+3%), la metà di quello spagnolo e inglese (+0,7%). Negli ultimi dieci anni, dal 2001 al 2011, il Pil nazionale è cresciuto dello 0,3% medio annuo, meno di un terzo della media Ue (+1,4%). E il Mezzogiorno? […] In base a valutazioni SVIMEZ nel 2011 il Pil è aumentato nel Mezzogiorno dello 0,1%, distante dal +0,6% del Centro-Nord») che già giungeva alle porte quella del debito pubblico europeo («In base a valutazioni SVIMEZ nel 2012 il Pil è calato nel Mezzogiorno del 3,2%, oltre un punto percentuale in più del Centro-Nord, pure negativo (-2,1%)»).

Adesso siamo in un’altra pausa, ma quanto lunga? L’unica certezza è che la ripresa della convergenza all’avvio del nuovo millennio è durata sì e no i primi due anni, mentre dal 2008 al 2013 l’andamento del Pil meridionale è stato ininterrottamente negativo, con il resto del paese che lo segue ad una velocità più lenta o con qualche piccolo scatto in avanti («Per il quinto anno consecutivo, dal 2007, il tasso di crescita del PIL meridionale risulta negativo. Dal 2007 al 2012, il Pil del Mezzogiorno è crollato del 10%, quasi il doppio del Centro-Nord (-5,8%)»).

La conclusione è che il divario tra Sud e Centro-Nord (inserendo nel Sud anche Abruzzo e Molise che vanno relativamente meglio) è ulteriormente aumentato.

In questo quadro di crescente disegueglianza, lo Svimez ha auspicato per anni una struttura produttiva più adeguata alla competizione internazionale ed una maggiore apertura dell’economia all’estero, richiamando anche l’esperienza irlandese. Tuttavia un simile adattamento risulta complesso e non praticabile in breve tempo, anche perché dovrebbe superare non poche barriere politiche e non realizzabile dentro un quadro di eccessiva dipendenza dal ciclo mondiale, poiché le oscillazioni del ciclo non consentirebbero la continuità d’azione che la strategia di adattamento comporterebbe. Sarebbe necessario uno stabilizzatore della domanda aggregata interna che rendesse l’economia meridionale meno dipendente dal contesto e al tempo stesso ci vorrebbe un investimento pubblico che rendesse realistica una qualsiasi strategia di politica industriale.

Lo stabilizzatore potrebbe essere il reddito minimo (a cui lo Svimez sembra essere interessato), che potrebbe mantenere certi livelli di consumi interni, così da non deteriorare ulteriormente la situazione. Il reddito sarebbe preferibile ad una politica occupazionale tesa alla creazione di contratti atipici in quanto questa soluzione farebbe soltanto emergere l’economia in nero evidenziando una bassa produttività dell’economia meridionale senza sostanzialmente farla progredire e condannando i lavoratori al precariato.

Per quanto riguarda gli investimenti il punto è strettamente legato ai processi istituzionali in corso. Lo stesso Svimez a questo proposito solo negli ultimi anni ha cominciato a registrare gli effetti negativi che la riforma Bassanini del Titolo V della Costituzione ha provocato: «Lo sviluppo del Mezzogiorno è frenato da una pressione fiscale superiore nel Mezzogiorno rispetto al Nord. Tra il 2007 e il 2016 è cresciuta dal 29,5% al 32,1%,mentre nel Nord, nello stesso decennio, è diminuita dalla 33,4% al 31,4%. A ciò si aggiunge che l’ampliamento delle disuguaglianze territoriali sotto il profilo sociale riflette un forte indebolimento della capacità del welfare di supportare le fasce più disagiate della popolazione. Gli indicatori sugli standard dei servizi pubblici fotografano un ampliamento dei divari Nord-Sud, con particolare riferimento proprio al settore dei servizi socio-sanitari che maggiormente impattano sulla qualità della vita e incidono sui redditi delle famiglie. La cittadinanza “limitata” connessa alla mancata garanzia di livelli essenziali di prestazioni, incide sulla tenuta sociale del Sud e rappresenta il primo vincolo all’espansione del tessuto produttivo. Ancora oggi per chi vive nelle aree meridionali, nonostante una pressione fiscale pari se non superiore per effetto delle addizionali locali, mancano, o sono carenti, diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia. Si tratta di carenze di servizi che condizionano decisamente anche le prospettive di crescita economica, perché diventano fattori che giocano un ruolo non accessorio nel determinare l’attrazione di nuove iniziative imprenditoriali. L’esempio macroscopico riguarda l’assistenza socio-sanitaria: gli abitanti del Mezzogiorno sono costretti a emigrare nelle strutture ospedaliere del Centro-Nord per curare patologie gravi o per interventi chirurgici. Circa il 10% del totale dei residenti al Sud si sposta verso strutture ospedaliere di altre Regioni. La soddisfazione per l’assistenza sanitaria e,in particolare ospedaliera, nel Mezzogiorno è molto più bassa che nel resto del Paese».

All’inizio si è prevalentemente intestardito a cercare un’interpretazione della riforma (sulla base di un’adesione ingenua al federalismo) che fosse conciliabile con una sostanziale perequazione territoriale, fingendo di non sapere che la riforma esplicitava chiaramente la volontà politica della parte più forte del paese di voler competere in Europa diminuendo la presunta zavorra meridionale. Ed è sullo sfondo europeo che la questione dei rapporti Nord-Sud va ripresa.

In questo ci può aiutare la tradizione politica di ispirazione marxista imperniata sul concetto di sviluppo economico capitalistico fondato sulla crisi (e sulle soluzioni imperialistiche della crisi) e non sull’equilibrio. All’interno di questa tradizione si articola il concetto di sottosviluppo d’intere aree geoeconomiche più o meno correlato allo sviluppo capitalistico stesso. Questo sottosviluppo può essere un rapporto tra diversi modi di produzione, tra diverse fasi di uno stesso modo di produzione (in questo caso quello capitalistico), ma anche tra diversi livelli all’interno di una stessa fase.

L’imperialismo, esportando capitali nel tentativo di evitare le crisi di sovrapproduzione e di trovare al tempo stesso una composizione organica del capitale ad un tasso di profitto più alto, riconfigura il rapporto tra le diverse parti del mondo. La relazione che si viene a instaurare tra regioni con diverso grado di sviluppo è quella sintetizzata dal termine di sviluppo ineguale, nel quale le regioni meno sviluppate assicurano a quelle egemoniche prima risorse naturali a basso prezzo (per garantire almeno per un certo periodo un compromesso tra capitale e lavoro nei punti alti dello sviluppo ed esorcizzare il rischio di una rivoluzione laddove il capitalismo sia più sviluppato) e poi forza lavoro a basso costo (ciò però col tempo porta a rompere il compromesso di cui sopra e a scardinare le avanguardie del proletariato).

La contesa imperialistica (più potenze imperialistiche si contendendono le regioni verso cui esportare capitali) accelera la concorrenza ed il conflitto tra capitali e promuove la concentrazione e la centralizzazione dei capitali stessi. Poiché la geografia politica è funzione della distribuzione spaziale del capitale, questo processo la altera portando regioni diverse ad integrarsi e regioni unitarie a dividersi internamente. Ciò è avvenuto ad es. quando, con la fine dell’Urss, da un lato si sono accelerate le unificazioni tedesca ed europea, dall’altro si sono disgregate (oltre all’Urss) la Federazione jugoslava, la Cecoslovacchia e si sono rafforzate spinte federaliste (se non secessioniste) in Italia, Spagna e Regno Unito.

Il processo di unificazione europea, a causa delle dinamiche capitalistiche, è fragile e perciò stesso violento: l’integrazione monetaria ad es., impedendo quegli aggiustamenti del cambio che permettono alle regioni più deboli di alleviare gli effetti della competizione intercapitalistica, senza essere compensata da altri processi contemporanei d’integrazione (allineamento dei diversi tassi di inflazione, politiche fiscali redistributive, mobilità del lavoro pari a quella del capitale), non fa che divaricare le differenze già esistenti tra regioni che si vanno unificando (secondo processi di causazione cumulativa descritti pure in ambito borghese da Myrdal e da applicazioni del moltiplicatore di Keynes) e creare una gerarchia di sfruttamento tra di esse.

Un simile processo si è realizzato in Italia una prima volta con l’unificazione generando quello che più o meno propriamente viene chiamato “colonialismo interno”: lo stesso Antonio Gramsci scriveva che la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento e che tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all’Italia del Nord che, a sua volta, funziona come una immensa città. Tuttavia una estremizzazione di questa prospettiva non ci aiuta a comprendere la complessità del fenomeno così come si è storicamente sviluppato.

Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini, in uno studio degli anni ’70 (“Stato e sottosviluppo”) evidenziarono come questo problema sia stato affrontato dallo Stato italiano verso la metà del secolo scorso nei termini di un tentativo di pianificazione all’interno del modo di produzione capitalistico. La pianificazione statale (che ad un certo punto la Sinistra politica e sociale ha dovuto difendere) era funzionale alla complementarità spesso denunciata tra sviluppo e sottosviluppo.

I processi successivi caratterizzati dalla nascita di distretti industriali anche a Sud e da modelli di sviluppo dal basso nel quale i privati intervengono al posto dello Stato e dove si parla di programmazione negoziata e di concertazione hanno promosso nuove gabbie salariali, senza attivare processi di perequazione ed anzi privando le regioni più deboli di qualsiasi protezione nei confronti delle crisi che si sono succedute.

Sintetizzando, è stato notato da Luciano Vasapollo che i vari periodi dello sviluppo economico italiano hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale con aumento della disoccupazione e della marginalità sociale che ha colpito in particolar modo le aree più deboli della penisola (innanzitutto il Meridione).

Il modello di sviluppo neoliberista, già prima della crisi, ha poi trasformato il Meridione nel laboratorio dell’economia marginale e sommersa, del lavoro nero e sottopagato funzionale al più generale processo di globalizzazione dell’economia. Se comunque tale processo in passato era attenuato dalla mobilità del fattore lavoro da Sud a Nord e dalla redistribuzione fiscale in senso inverso, l’unificazione europea ha lacerato questo processo di parziale redistribuzione ed ha spinto alle riforme costituzionali nel senso del federalismo (non solo fiscale).

A questo proposito, un tratto comune di tutte le politiche di attacco frontale al mondo del lavoro degli ultimi decenni è forse quello della sua frammentazione. A fronte della riunificazione delle lotte negli anni ’60 e ’70 (frutto anche del processo di ricomposizione politica dei salariati e dei subalterni), la ristrutturazione transnazionale del capitale ha prodotto un lungo processo di scomposizione politica, spaziale, giuridica, contrattuale e finanche “etnico-razziale” della classe lavoratrice. La divisione della classe nemica in un pulviscolo distribuito sul territorio, la deconcentrazione delle masse lavoratrici, l’ampliamento su scala globale dell’operatività aziendale, le delocalizzazioni, il trasferimento di capitali e macchine come processi effettivi o dispositivi disciplinanti, in poche parole il processo di mondializzazione, hanno fatto arretrare i salariati su posizioni di mera difesa dell’esistente (nei momenti di maggiore tenuta delle lotte) quando non di vera e propria retroguardia. La “ragione” neoliberista, peraltro, in questo processo di de-concentrazione della forza-lavoro e di frammentazione della stessa, ha saputo costruire un vero e proprio modello comportamentale performativo delle coscienze dei singoli: essere imprenditori di sé stessi ha rafforzato anche sul piano ideologico e, vorremo dire, antropologico, le ragioni del capitale, dell’individualismo e della concorrenza spietata tra uomini, capitali, merci, spazi, territori, stati, regioni, città/metropoli. La trasformazione della forma-Stato, influenzata anche dal processo di unificazione europea, ha depotenziato il Parlamento, conferito sempre più potere all’esecutivo e sfere crescenti della decisione pubblica sono state trasferite a nuove entità “autonome”, che operano con principi ordinamentali di natura per lo più privatistica ove la modalità operativa e decisionale (governance) è fondata su criteri tecnocratici che neutralizzano la decisione politica (in realtà presa a monte) e limitano il campo del decidibile entro le logiche della concorrenza. I criteri tipici del privato informano le riforme della Pubblica Amministrazione e del suo agire. La cosa pubblica (ai vari livelli intermedi e apicali) è gestita tendenzialmente come un’azienda.

Le metropoli, nel contesto globale della competizione, assumono un ruolo centrale nella attrazione dei capitali, degli investimenti esteri, della forza-lavoro qualificata o a basso costo, a copertura dei vari segmenti di lavoro che contribuiscono a creare la ricchezza del polo socio-economico. Non è un caso che le realtà locali di una certa dimensione e concentrazione di capitali assumano un ruolo di player su scala internazionale ed entrino in competizione con altre realtà metropolitane. La nuova riorganizzazione degli stati, compreso il nostro Paese, tende a favorire la “specialità” di aree votate all’attrazione di capitali (defiscalizzazioni, incentivi, infrastrutture, agevolazioni nell’erogazione dei servizi, nella previsioni di speciali soluzioni contrattuali [deteriori: si pensi agli esempi dei contratti d’area o, più recentemente, all’esperienza dell’Expo milanese ove addirittura è stato introdotto il lavoro gratuito a tutti gli effetti]).

La rinnovata rilevanza dei territori e delle loro espressioni istituzionali e politiche comporta la pretesa del rafforzamento di istanze di maggiore autonomia delle aree più ricche. La Lega da decenni si è fatta portavoce istituzionale di tali istanze e, da ultimo, le ha alimentate con le esperienze dei referendum del Veneto e della Lombardia. Il lavoro di lungo corso svolto dalla Lega, tuttavia, non incide soltanto nei principali gangli istituzionali locali, ma ha ben scavato anche nelle coscienze della classe lavoratrice settentrionale (da lungo tempo, oramai, la Lega è il “partito degli operai” del Nord, anche prima dello sfondamento nelle vecchie “regioni rosse”).

Tutto ciò con l’effetto aggravante della crisi economica ha di nuovo generato processi caotici di divaricazione tra Nord e Sud Italia e, ovviamente, anche su scala europea. Infatti, essendosi l’UE formata su basi competitive, tutto è stato affidato ai meccanismi di mercato e l’adozione della moneta unica, affidata ad una Banca centrale non soggetta al potere politico (con la conseguente l’impossibilità di usare le tradizionali leve della politica economica da parte dei governi dei paesi membri), ha favorito la divergenza economica tra questi ultimi, accentuando i divari economici già sussistenti prima della nascita stessa dell’euro. Si riproduce su scala continentale il tradizionale dualismo tra Nord e Sud dell’Italia: emerge una nuova questione meridionale che travalica i confini italiani e incide sui destini dell’intera Europa.

Tra paesi centrali e paesi periferici all’interno del processo di unificazione europea si riproduce una sorta di “ciclo di Frenkel” (una variante postkeynesiana delle dinamiche imperialistiche e di sviluppo ineguale che culminano con delle crisi finanziarie disciplinanti) con trasferimenti di capitali tra regioni più ricche e regioni più povere che tengono queste ultime legate al cappio del debito e ne condizionano le politiche economiche, approfittando delle bolle finanziarie e immobiliari derivanti da tali trasferimenti, disarticolando il mercato e le forze del lavoro, imponendo processi di austerità e più complessivamente neoliberisti.

Questo processo si collega, secondo Emiliano Brancaccio, al concetto marxiano di centralizzazione dei capitali per il quale accanto alla contrapposizione competitiva tra capitali e come effetto di quest’ultima vi è un processo di concentrazione di capitali già formati mediante liquidazioni, acquisizioni, fusioni. Tale processo può essere stimolato dalle autorità di politica economica le quali, fissando condizioni di solvibilità più restrittive per i capitali in conflitto, aggravano la posizione dei capitali più deboli e accelerano il processo stesso di centralizzazione. Si sono così create le condizioni per una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dell’Europa periferica e i capitali più forti dell’Europa nord-continentale. A questa resa dei conti tra capitali l’architettura politica europea sacrifica tutto il resto della società, riducendo gli spazi democratici, attaccando lo Stato sociale e le norme regolanti il mercato del lavoro e mettendo i lavoratori europei in diretta competizione tra loro. La posta dunque non è semplicemente nazionale, ma attiene all’Europa.

Dal punto di vista del capitale, rafforzare il federalismo vuol dire completare, anche sul piano istituzionale, quella frammentazione completa del nemico di classe, perfezionando la messa in concorrenza dei regimi del lavoro salariato, dei sistemi sociali e fiscali. In questo panorama si irrobustisce l’asimmetria di potere contrattuale e conflittuale tra il lavoro e il capitale. La retorica del «noi produciamo, restino qui i soldi, per istruzione, sanità, stato sociale…» se al capitale serve per poter gestire in modo più agevole e non conflittuale la spesa pubblica a sostegno dei propri interessi, finisce per attecchire anche nel corpo dei salariati settentrionali, sotto forma di domanda di stato sociale. Un welfare che, tuttavia, viene regionalizzato, localizzato, non più incentrato sulla figura del singolo cittadino bisognoso di maggiore protezione sociale, ma in base al luogo di residenza. Quella che è stata definita la “secessione dei ricchi”, che gioca sul mantra del “residuo fiscale” (più un grimaldello ideologico che un vero e proprio parametro oggettivo scientificamente verificabile), finirebbe per accentuare il processo di sviluppo regionale diseguale, mettendo in crisi lo stesso concetto “universalistico” di stato sociale (per quanto aggredito e malandato possa essere oggigiorno). Le tendenze diseguali e combinate della concentrazione e centralizzazione dei capitali al Nord e riproduzione di esercito salariale di riserva al Sud verrebbero esacerbate. Il decentramento differenziato finirebbe per ergere ulteriori muri materiali e simbolici all’interno della classe dei salariati e dei subalterni, messi in concorrenza tra di essi su base regionale, locale, al limite cittadina. Alla concorrenza materiale si aggiungerebbe l’ulteriore effetto in termini di perdita di coscienza della dimensione di classe del salario, non un mero reddito individualizzato, ma una grandezza sociale.

L’orizzonte localistico rafforzerebbe l’idea e la prassi neocorporative, improntate ad una concezione organicistica dell’azienda dove scompaiono le contrapposizioni di interessi tra classi in conflitto tra di esse (e quindi tra i vettori dei loro interessi), per convergere in una dimensione di condivisione non conflittuale degli interessi… del capitale.

La disuguaglianza rafforzata delle regioni più ricche finirebbe per stratificare ulteriormente i vari segmenti della classe lavoratrice e il “welfare selettivo” su base regionale finirebbe per essere ancora più feroce nei confronti di quella parte di proletariato che non ha la cittadinanza, migrante (sia esso regolare che irregolare), nei cui confronti opera un potente dispositivo razzista che agisce sul piano dei rapporti di lavoro, ma anche su quello dei rapporti inerenti il vivere sociale, la società civile.

I rischi che si corrono con lo svuotamento totale della funzione programmatica della Carta costituzionale e con i suoi imperativi di perequazione sociale, si riprodurrebbero anche in una ipotesi di autonomia del Sud Italia, al di là delle coloriture di connotazione “autarchica”, ove a far esplodere ulteriormente le contraddizioni interverrebbero le carenze strutturali in tema di spesa pubblica e intervento dello Stato unitamente ad un tessuto imprenditoriale meno adeguato a competere sul piano internazionale.

Lo stesso Svimez registra che l’interdipendenza economica tra Sud e Centro-Nord evidenzia che un indebolimento del circuito di solidarietà (soprattutto tra lavoratori) o addirittura uno sganciamento (quale che sia la parte che si sgancia) sarebbero letali per l’economia dell’intero paese, dal momento che: «L’interdipendenza Nord-Sud è dimostrata da una serie di fattori che non sono contestabili: accanto ai trasferimenti netti di risorse pubbliche da Nord a Sud, vi sono corposi trasferimenti di risorse a vantaggio del Nord. Il Mezzogiorno è un primario mercato di sbocco dell’industria settentrionale; il risparmio meridionale è impiegato per finanziare investimenti meno rischiosi e più redditizi nel Centro-Nord; l’emigrazione di giovani meridionali in formazione o con elevate competenze già maturate alimenta l’accumulazione di capitale umano nelle Regioni settentrionali. Centro-Nord e Mezzogiorno crescono o arretrano insieme. La SVIMEZ ha calcolato che 20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle Regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi. Inoltre, la domanda interna per consumi e investimenti del Mezzogiorno attiva circa il 14% del PIL del Centro- Nord. Infine, i flussi di migrazione intellettuale, soprattutto laureati, provenienti dal Mezzogiorno determinano benefici netti per le regioni centro-settentrionali,generando una perdita secca in termini di spesa pubblica investita in istruzione e non recuperata stimata in circa 2 miliardi l’anno, che equivale a un risparmio di pari importo per le Regioni del Centro-Nord. Per di più, il valore dei consumi pubblici e privati annui attivati dall’emigrazione studentesca nelle regioni del Centro-Nord è di circa 3 miliardi, causando una perdita di pari importo per le regioni meridionali. A tutto ciò si aggiunge il processo di integrazione passiva che ha interessato il Mezzogiorno in campo finanziario, conseguente sia al forte aumento di banche di proprietà esterna all’area, sia di banche che hanno mantenuto la sede legale nel Mezzogiorno ma che sono entrate a far parte di gruppi bancari guidati da gruppi del Centro-Nord. Favorendo una tendenza in atto da tempo di impiegare la raccolta bancaria delle Regioni meridionali per finanziare investimenti maggiormente remunerativi e meno rischiosi nelle aree più produttive del Paese, invece di utilizzarla per dare credito al sistema produttivo locale».

 

Spunti per un programma di mobilitazione e lotta

Per contrastare i progetti secessionisti dei capitali più forti, è necessario costruire percorsi di unificazione della classe (occupati, disoccupati, inoccupati, immigrati o meno che siano, regolari o meno che siano), dai segmenti più marginali e/o precari a quelli più strutturati nel processo lavorativo; costruire un discorso pubblico sulla ricchezza sociale prodotta e su come essa debba essere ridistribuita in favore delle classi sociali dei salariati, dei subalterni e delle classi medie proletarizzate; rivendicare la dimensione sociale del salario, superando la sua territorializzazione e le conseguenti gabbie; rivendicare un intervento pubblico in termini di perequazione sociale e rifiuto della preminenza del privato; ripristinare il criterio del valore d’uso nella prassi della P.A. a discapito del valore di scambio.

Alcuni obiettivi e campi di azione potrebbero risultare unificanti anche se volti in prima istanza a ridurre lo squilibrio regionale. Questo perché un Sud mortificato potrebbe effettivamente svolgere solo il ruolo di vincolo alla crescita complessiva del paese o come serbatoio di una forza lavoro che fa il gioco al ribasso danneggiando anche la situazione dei lavoratori del Nord.

Volendo semplicemente accennare a questi obiettivi un primo tema potrebbe essere la lotta per le Nazionalizzazioni, tema che ha ripreso attenzione nel momento in cui a Genova (che non sta a Sud) si è verificata una tragedia dell’incuria. Le nazionalizzazioni potrebbero spingere il settore delle infrastrutture ad investire nel Sud dove nel corso di circa un decennio la spesa pubblica in conto capitale è diminuita dal 40 al 30% della spesa complessiva. Più che la Tav (che avvilisce intere comunità locali a Nord) andrebbe creata una rete di trasporti in particolar modo ferroviaria più efficiente proprio tra le regioni meridionali.

Un secondo tema sarebbe la questione ambientale (che abbraccia in modo equanime sia il Nord che il Sud), sia dal lato della produzione energetica che vede il Meridione naturalmente favorito per l’aumento della produzione delle energie rinnovabili (che sarebbero utili anche all’inquinatissimo Nord) sia dal lato della chiusura del ciclo (ri)produttivo, ovvero il tema dei rifiuti, con seri ragionamenti sulle sfide poste dall’economia circolare, economia sempre più vicina al parametro “zero rifiuti”.

Un terzo tema è la lotta per centri di produzione di sapere collocati al Sud (si pensi alle università e ai centri avanzati di ricerca tecnologica) visto che da questo punto di vista il divario rischia di essere fatale e soprattutto la mancanza di concorrenza virtuosa in questo campo può indebolire anche la qualità dell’offerta formativa e scientifica di chi nel divario regionale vorrebbe trovare conforto

Un quarto tema è la lotta per la gestione dei territori (che deve vedere come protagonista anche le forme della confederalità sociale e del sindacato metropolitano), gestione che ha aspetti ambientali, culturali e sociali. Immaginiamo se la tenuta geologica (pensiamo alla natura sismica e vulcanica di tutto l’Appennino) del territorio diventasse un volano economico ed occupazionale facendo della manutenzione urbana e territoriale un processo a ciclo continuo ed impegnando la società in tutti i suoi settori e le sue competenze.

Un quinto tema è l’apertura al Mediterraneo (sottolineata anche dai rapporti Svimez) quale orizzonte di scambi economici e culturali e punto di contatto con le ormai già emerse economie orientali (si pensi al progetto cinse della Nuova Via della Seta). Mentre le regioni meridionali hanno un rapporto privilegiato con l’Africa Settentrionale, le regioni adriatiche anche settentrionali (non volendo parlare del porto di Genova) hanno antiche relazioni con il Mediterraneo Orientale.

Bisogna comprendere che dovunque si vada, si va tutti insieme. Per esemplificarlo e per avere un maggiore impatto negoziale con il resto del paese nel portare avanti le ragioni della convergenza sarebbe augurabile un maggiore coordinamento politico tra le regioni meridionali così che in prospettiva futura il cosiddetto proletariato esterno possa entrare nella sua storia a pieno diritto.

Tuttavia perché tutti questi discorsi possano reggere la lotta principale è la lotta ai vincoli di bilancio e all’imperialismo europeo che li impone. La divisione strabica tra politica monetaria (gestita a livello europeo con uno stretto controllo tedesco) e politica fiscale (che è gestita a livello nazionale e che perciò diventa la guerra tra poveri che porta all’autonomia differenziata) non può più essere sostenuta. E la delega eventuale della politica fiscale a livello europeo porterebbe a conflitti ancora più paralizzanti. Perché si possano effettuare quegli investimenti sociali che il proletariato richiede (anche per non essere frammentato ulteriormente) la politica monetaria e fiscale devono essere gestite dal soggetto che vuole indirizzare in questo senso il cambiamento. Non c’è Italia che regga, non c’è Meridione che possa emanciparsi senza il progetto di solidarietà internazionale ed internazionalista dell’Alba Euro-mediterranea.

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