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Per una teoria del conflitto: la nuova edizione del Capitale di Marx

Tanto spesso, in questi ultimi anni, abbiamo affermato di essere di fronte a una nuova fase storica, nella quale le contraddizioni sistemiche sono in rapido sviluppo e in costante accrescimento: crisi del modo di produzione capitalistico, costante innalzamento della tensione bellica, genocidio del popolo palestinese, crisi ambientale, violenza sistemica (dallo sfruttamento di classe senza quartiere alla violenza di genere).

Davanti a questi processi, nei quali svolge un ruolo regressivo, un Occidente in crisi di egemonia cerca disperatamente di rilanciarsi a livello ideologico, rappresentando sé stesso come la civiltà più avanzata, un armonico «giardino» posto sotto assedio da parte della «giungla» (la barbarie, le autocrazie, i popoli passivi e arretrati).

In questo contesto, e proprio per la necessità di dare sostanza ad un’ipotesi di fuoriuscita da questa crisi così grave e profonda e di combattere efficacemente le armi ideologiche dell’avversario, assumono una rinnovata centralità teorica e politica lo studio e l’elaborazione del marxismo, ossia di una visione del mondo ancora capace di spiegare i processi in atto e indicare una prospettiva alternativa di società.

Giunge dunque particolarmente opportuna la nuova edizione del testo fondativo, del pilastro fondamentale del marxismo, il primo libro de Il Capitale di Karl Marx, curata per Einaudi (nella prestigiosa collana I millenni) da Roberto Fineschi, che ha coordinato una squadra di traduttori composta da, oltre a sé stesso, anche da Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’.

Questa edizione è frutto del lavoro aperto da decenni intorno ai testi marxiani nell’ambito del progetto della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx e di Engels, la MEGA2 di cui Fineschi, studioso e compagno con cui abbiamo il piacere di collaborare da anni, è uno dei protagonisti.

Sulla fisionomia e sulle acquisizioni di questo lavoro filologico, che sta consentendo di portare alla luce nuovi testi e soprattutto di chiarire alcuni snodi fondamentali della riflessione di Marx, rimandiamo ai lavori di Roberto e intanto all’intervento di Francesco Ravelli, più sotto pubblicato, alla presentazione del Capitale tenuta il 21 novembre presso il circolo OST Barriera a Torino.

Quella che ci preme qui sottolineare è la portata politica di questo lavoro di recupero e approfondimento dei fondamenti del marxismo, che è appunto operazione necessariamente anche politica, elemento della lotta di classe nel campo della teoria, sul piano delle idee. Si tratta infatti di cogliere in Marx non un «classico», un pensatore certo di indubbio spessore ma tutto sommato relegabile tra gli scaffali polverosi di una libreria d’antiquariato o classificabile in una dossografica storia della filosofia moderna, quanto piuttosto un teorico attuale, la cui analisi pone le basi per la comprensione del mondo in cui viviamo, a partire da quel modo di produzione capitalistico, ancora oggi dominante, di cui egli ha saputo cogliere la trama profonda di movimento, il nucleo strutturale.

Il pensiero di Marx (e di Engels) è l’atto fondativo di una concezione del mondo che, per la sua stessa natura, non si può chiudere nei loro scritti, ma la cui elaborazione è stata proseguita nella storia del marxismo e del movimento comunista, e deve riprendere e proseguire oggi nella teoria e nella pratica rivoluzionaria.

Si tratta di una concezione «forte», fondata sul punto di vista della totalità, strutturalmente contrapposta alla logica borghese, liberale, postmoderna che da un lato rimane imprigionata nel «mito del dato» trascurando il carattere storico della realtà, dall’altro vede il mondo come un «labirinto» in ultima istanza incomprensibile nel suo complesso, tanto meno sostanzialmente modificabile.

Nella concezione marxiana del mondo, invece, si coglie la tensione verso la conoscenza del mondo sociale nella sua totalità, composta di parti in relazione l’una con l’altra; la traduzione in prassi di questa teoria si concretizza quindi nell’obiettivo di modificare il mondo in senso rivoluzionario, non soltanto in uno dei suoi settori, ma con una vera e propria sostituzione di un modo di produzione, di una formazione economico-sociale, di una visione del mondo con un’altra, quella socialista.

Senza teoria rivoluzionaria, come ci insegna Lenin, non è possibile azione politica rivoluzionaria. Oggi più che mai, in un capitalismo e in un Occidente crepuscolare, la battaglia sulla teoria, sulla «ideologia» intesa proprio, gramscianamente, come concezione del mondo, è un aspetto cruciale della più ampia lotta di classe, divenuta ormai lotta per la ripresa di un processo razionale di sviluppo umano.

Redazione

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Di seguito pubblichiamo la relazione di Francesco Ravelli alla presentazione della nuova edizione critica del Capitale di Marx tenutasi il 21 novembre a Torino presso la biblioteca popolare «Nicola Zamboni» del circolo OST Barriera. All’iniziativa era presente anche Roberto Fineschi, curatore e traduttore del capolavoro marxiano.

Alla recente edizione del primo libro del Capitale di Marx curata da Roberto Fineschi per la collana I millenni dell’editore Einaudi si prospetta il compito di segnare in modo finalmente articolato la lettura in italiano del grande pensatore e rivoluzionario. Militanti e studiosi si trovano fra le mani un volume di oltre 1300 pagine che racchiude la più alta esposizione critica della modernità, termine con il quale va inteso il processo di sviluppo storico del modo di produzione capitalistico.

Come dovrebbe essere noto, il primo libro è l’unico scritto integralmente da Marx e mira ad analizzare la produzione del capitale, ovvero comprendere come, attraverso il funzionamento economico, si costituisce la moderna società borghese divisa in classi. Fineschi e gli altri tre traduttori (Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’) partono dalle acquisizioni dell’edizione storico-critica in particolare dalla seconda sezione, voll. V-X, della monumentale e non ancora conclusa MEGA² e traducono la quarta edizione tedesca (1890), frutto del lavoro di Engels che mise insieme gli appunti di Marx e le sue postille alle edizioni precedenti.

Fondamentali sono le circa 140 pagine di apparati, che danno conto delle significative varianti delle prime tre edizioni tedesche (1867, 1872-73, 1883) e della traduzione francese uscita a fascicoli (1872-75). Basti pensare alla distinzione rigorosa tra valore e valore di scambio: se nella prima edizione tedesca i due termini sono usati ambiguamente, a partire dalla seconda Marx usa valore per la sostanza di valore e valore di scambio per la forma fenomenica di esso; la distinzione tra lavoro e processo produttivo nel quinto capitolo della seconda edizione tedesca, fondamentale anche in merito alla teoria del plusvalore, alla differenza fra capitale costante e capitale variabile, a quella fra tecnica e tecnologia.

Dopodiché, volgendo lo sguardo alla versione francese, vanno sottolineate l’innovativa presenza della categoria di «lavoratore complessivo» e alcune rilevanti modifiche riguardanti la teoria dell’accumulazione.

Insomma, questa bella edizione ci costringe a stare dentro il cantiere di Marx, a muoverci insieme a lui lungo un’elaborazione concettuale fatta di tentativi e ripensamenti, ipotesi e verifiche. Il testo contiene tutti i materiali che Marx ha scritto a partire dal 1863 con l’idea esplicita di redigere ciò che sarebbe diventato il suo opus magnum: oltre ovviamente all’edizione a stampa del primo libro del Capitale del 1890 (con le già evocate varianti rispetto alle altre curate da lui o da Engels, esclusa l’inglese), troviamo ciò che resta del Manoscritto 1863-65, ovvero il cosiddetto sesto capitolo inedito sui Risultati del processo di produzione immediato e alcune pagine e note sparse; la riproduzione integrale del primo capitolo sulla merce, del 1867, e della sua appendice sulla forma di valore, che risultano radicalmente diversi dalla versione definitiva; e poi, ancora, la ricostruzione critica del manoscritto redazionale che Marx scrisse tra il 1871 e il 1872 in vista sia della seconda edizione tedesca e successivamente di quella francese; si tratta del testo a cui Marx lavora per ristrutturare il primo capitolo, nel quale nasce il famoso paragrafo sul feticismo.

Il volume è arricchito dalla riproduzione di sedici opere pittoriche, di linguaggio per lo più realista, che rappresentano i tanti volti dello sfruttamento otto-novecentesco, fra cui Gli spaccapietre di Courbet, Le mondine di Morbelli, Gli scaricatori di carbone di Monet, i Lavoratori che tornano a casa di Munch, un particolare degli scioperanti di Adler, e altri.

Molto utili, inoltre, sono le pagine dedicate alle note di traduzione, che danno conto dei criteri utilizzati. Illuminanti a mio parere le spiegazioni relative alle scelte di resa, ad esempio, di Arbeiter, che in tedesco significa sia lavoratore sia operaio di fabbrica; di Darstellung, esposizione; Vorstellung, rappresentazione; repräsentieren, essere rappresentante; erscheinen, manifestarsi; Erscheinung, fenomeno; scheinen, parere; Schein, parvenza; Entäusserung, alienazione nel senso di spogliarsi della propria forma originaria (il participio passato entäussert, nella metamorfosi della merce, è usato in riferimento al denaro, che è la merce spogliatasi della propria originaria forma corporea; il denaro è la forma spoglia della merce alienata).

Questo per inquadrare molto brevemente l’edizione, nella cui introduzione il curatore ricorda anche perché non esiste un’edizione definitiva del Capitale (o «di ultima mano») e le ragioni che lo hanno spinto ad adottare come base testuale l’edizione del 1890. Per la nostra iniziativa a me è venuto in mente di provare a dire cosa le edizioni e gli studi curati da Roberto Fineschi1 hanno dato al mio tentativo di comprensione della teoria di Marx.

Che Il capitale sia un contributo decisivo, e quindi degno di particolare attenzione, è riconosciuto da tutti, pure dagli apologeti della classe dominante, evidentemente a corto di altri riferimenti teorici all’altezza della situazione attuale. Lo dimostrano i numerosi articoli usciti sui quotidiani a commento della nuova edizione, che bene o male hanno fatto riferimento alla fecondità analitica del libro in relazione alla globalizzazione dei mercati, alla centralizzazione e concentrazione dei capitali, alla periodicità delle crisi finanziarie e industriali, alla mercificazione di ogni aspetto della vita sociale e individuale, al progresso tecnologico, alla funzione dell’esercito industriale di riserva, alla precarietà e flessibilità sistemica del lavoro, etc.

A mio avviso non vi è solo il riconoscimento di Marx classico del pensiero, alla Bobbio, ritengo invece che vi sia proprio un uso capitalistico di Marx, la cui condizione di possibilità storicamente determinata, almeno qui in Italia e in Europa, è la lotta di classe al contrario: quella, per farla breve, dei capitalisti (nelle sue varie forme di dominio) contro il movimento operario, contro i salariati, i subalterni, i dominati. Il capitale serve anche alla classe dominante!

Ma veniamo al rapporto che noi comunisti dobbiamo intrattenere con Das Kapital; va da sé che per noi non può essere solamente un classico fra gli altri, e tuttavia, se pensiamo al livello di astrazione molto alto a cui si situa l’analisi che contiene, non possiamo nemmeno considerarlo come un immediato strumento di prassi politica volto alla fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico.

Qui Roberto ci è veramente d’aiuto. La specificità del modo di produzione capitalistico è la costituzione storica di un rapporto sociale ben preciso, costituzione che implica la liberazione da ogni servitù con contemporanea netta separazione tra possesso dei mezzi produttivi e possesso di semplice capacità di lavorare.

Se il lavoratore è separato dai mezzi di estrinsecazione di tale capacità insita nella sua corporeità (mente, muscoli, mani, ecc.), e tuttavia è lasciato libero di scegliere che cosa meglio gli aggrada (morire di fame o «guadagnarsi da vivere»), non può svilupparsi altro che la libera contrattazione tra capitale e forza lavoro – non subito, ma la grandezza di Marx è di aver individuato lo sfruttamento prescindendo dagli «attriti» storici precapitalistici ancora esistenti per un lungo periodo. Insomma, si è dovuta formare la massa del lavoro salariato: questo il movimento (storico) di instaurazione del rapporto sociale che è il capitale, secondo la definizione di Marx.

Soffermiamoci dunque sul significato di storia nel Capitale. L’idea fondamentale è di arrivare a concepire non tanto una generica concezione della storicità come descrizione del corso degli eventi, o di un periodo in particolare passato o presente, quanto di sviluppare, ed è ciò che fa Marx, un modello teorico di una determinata epoca storica, che strutturi le vicende in base a una logica essa stessa storica, ovvero che ha una storicità.

A partire da determinati presupposti posti dal modello teorico, questo si sviluppa per inglobamento e riproduzione dei suoi elementi intrinseci, non però in maniera meccanica o sempre uguale, bensì sotto la luce di una forza logica tendenziale, secondo cui le regole di funzionamento (del modo di produzione capitalistico) contrastano coi suoi presupposti, li minacciano. Potremmo forse parlare di autosuperamento dei presupposti del capitale, il cui codice genetico – la sua «missione storica», avrebbe detto il maestro di Roberto, Alessandro Mazzone2 – sarebbe quella di avere in sé, di portare con sé, la propria finitudine.

Tale complessa dinamica, per come a me appare, non dipende quindi da determinate congiunture storiche, ma, appunto, è un modello delle trasformazioni sociali, un modello inclusivo degli elementi particolari di una determinata fase del processo, elementi particolari di una logica storica generale. Come interrogare questo piano generale del discorso? Non è che Marx pensa una logica della storia al di fuori della storia? Roberto ci insegna che non è così: la logica della storia è storica, però non coincide con il corso storico cronologicamente determinato, diciamo che lo riflette, lo struttura dal punto di vista concettuale.

I fatti storici non esistono solo in sé, ma anche sussunti in una dimensione logica. I presupposti di questa trama sono ereditati dai modi di produzione precapitalistici, ma solo in un secondo momento, cioè quando il capitale ingloba superando pienamente le forme storiche passate, è possibile vedere la sua logica storica all’opera, che è una logica della contraddizione fra i presupposti della sua affermazione storica e i risultati delle leggi di sviluppo da cui si era originato.

Vi è allora indubbiamente una dialettica assai complessa fra logico e storico. Intanto però mi sembra molto importante aver fissato che comprendere la storicità significa capire le tendenze interne del capitale.

Una tale proposta ermeneutica ci impone di cominciare a leggere Il capitale dalla prima sezione su Merce e denaro. Sappiamo che non è scontato. Althusser raccomandava ai lettori di saltare tutta la prima sezione – nella quale (quarto paragrafo del primo capitolo) si inscrive il passaggio, da lui giudicato tanto difficile quanto inutile, sul Carattere di feticcio della merce e il suo arcano – e di cominciare la lettura dalla seconda sezione sulla Trasformazione del denaro in capitale. Althusser considerava l’analisi della forma valore, con la quale si apre Il capitale, solamente come una precisazione supplementare, da approfondire in un secondo momento3.

La prima sezione del Capitale non costituisce la descrizione di un modo di produzione autonomo e si riferisce alla superficie del modo di produzione capitalistico poiché solo a uno stadio più avanzato della teoria la forma merce può trovare la propria adeguata generalizzazione. Qui il problema è collegato al darsi, in Marx, di una latenza della forma merce che preme per la sua generalizzazione al di fuori del modo di produzione capitalistico.

Di certo il modo di produzione capitalistico è l’unico che trasforma il prodotto in forma merce come forma generalizzata della produzione, tuttavia sarebbe errato assumere che la circolazione semplice sia un modo di produzione.

Nell’abbozzo a Per la critica dell’economia politica Marx definisce la circolazione semplice un «presupposto che presuppone», suggerendo proprio che la circolazione semplice non è un modo di produzione. Essa assume soltanto che vi sono prodotti da scambiare. Una produzione specificamente capitalistica della merce avviene a un livello successivo della teoria.

Fatto sta che l’inizio concettuale del Capitale è la merce come «cellula economica». La merce esprime il carattere universale del contenuto, ovvero il processo lavorativo puro, in astratto, senza forma sociale determinata, e la determinatezza formale che esso – il processo lavorativo – riveste nel modo di produzione capitalistico.

La merce è unità di contenuto materiale e forma sociale. La merce potenzialmente apre all’esposizione di tutta la teoria del Capitale. È «cellula economica» poiché possiede la totalità logico-concettuale del modo di produzione capitalistico. Il concetto di merce, indipendentemente da come questa venga prodotta, è posto nella forma del raddoppiamento in merce e denaro. Sarà quest’ultimo a ricondurre a unità il mondo della circolazione semplice.

La merce in quanto tale è un valore sia particolare sia astratto-universale, ma la manifestazione di questo suo lato astratto, proprio per la sua limitatezza particolare, alla merce da sé non riesce, quindi essa ha bisogno di una merce universale davanti a sé in cui riconoscersi. Nel concetto di merce c’è anche lo sviluppo di merce e denaro. Se nella forma D-M-D il denaro «si trasforma in capitale, diviene capitale ed è già capitale per determinazione sua propria»4, con D-M-D’ si ha «la formula universale del capitale come essa si manifesta in modo immediato nella sfera della circolazione»5.

Possiamo cavarcela dicendo che la merce è la forma sociale del prodotto destinata ad essere scambiata: essa è contemporaneamente valore di scambio e valore. Del resto il rapporto di scambio inteso come scelta e non come necessità materiale è il presupposto del modo di produzione capitalistico.

Dal punto di vista giuridico e politico, la società borghese è composta di cittadini liberi, però Marx ci insegna che al di sotto di questa mistificazione agiscono rapporti di dominio, in base ai quali il soggetto storico, alienato da sé stesso e dal prodotto del suo lavoro, trasferisce la sua presunta natura universale in un oggetto che lo domina. Incontriamo allora la reificazione e il feticismo della merce, categorie che non sono sovrapponibili alla teoria giovanile dell’alienazione.

Questa si basa sul concetto di «essenza di specie» (Gattungswesen) e rinvia l’interpretazione della «natura umana» a un’essenza universale, posta ab origine e da riconquistare al termine di un processo escatologico-finalistico che sin dall’inizio predetermina l’esito di salvazione finale.

Dentro la teoria del Capitale, invece, il soggetto che si aliena è la persona concepita come risultato di un processo storico determinato, vale a dire una soggettività storica prodotta dallo scambio di merci, non l’essere umano in generale, che storicamente non esiste mai. Considerare naturali qualità storiche determinate vuol dire cadere, soggettivamente, nella trappola del feticismo delle merci.

Che cosa significhi uomo e quale sia la natura del suo rapporto con gli altri sono caratteristiche determinantesi solo mediante lo strutturarsi delle specifiche condizioni del modo di produzione capitalistico. Nel mondo del capitale i soggetti coinvolti nello scambio sono attori sociali storicamente determinati che nelle cose non oggettivano la loro essenza umana, bensì il loro stesso rapporto sociale di scambianti.

L’idea astratta di individuo in generale, astorico e assoluto, è il risultato del processo materiale di alienazione e reificazione, nel senso che è proprio questa «persona» astratta il soggetto effettivo del processo di alienazione/reificazione. Confonderla con la natura umana in generale significa finire vittime del feticismo della merce, ovvero considerare fuori della storia una delle forme di soggettività (storicamente determinata) prodotta dalla circolazione delle merci.

Se il denaro è il lato oggettivo di tale sistema, la persona astratta è quello soggettivo. Marx nel Capitale supera sia l’antropologismo che aveva abbracciato in gioventù (uomo come ente naturale generico) sia tutta la filosofia essenzialista e feticistica.

Un’ultima osservazione che vorrei fare riguarda la distinzione fra forme del modo di produzione capitalistico e figure storiche ad esso collegate. Quando Marx, nei capitoli undici, dodici e tredici, tratta di cooperazione, manifattura, macchine e grande industria, sembrerebbe che stia semplicemente descrivendo i rapporti vigenti nell’Inghilterra del XIX secolo, una specie di affresco sociologico del processo lavorativo capitalistico.

Roberto ci dice invece che in quei luoghi del Capitale Marx non sta solo parlando di figure storiche del capitalismo inglese, ma sta sviluppando una teoria delle forme del processo lavorativo nel modo di produzione capitalistico, cioè delle modalità attraverso le quali si realizza il processo lavorativo. 

Manifattura e grande industria sono esemplificazioni storiche di modalità formali, quali la cooperazione, la riduzione del soggetto a elemento parziale del sistema produttivo, la subordinazione del lavoratore, la sua appendicizzazione, per giungere sino all’estromissione dal processo.

Occorre dunque considerare cooperazione, manifattura e grande industria come «figure» storiche in cui quelle «forme» specifiche del produrre in modo capitalistico sono apparse; solo così il ridimensionamento della significatività storica di alcune figure non comporta la scomparsa anche delle forme in quanto tali. Riduzione a parte del sistema, subordinazione e carattere cooperativo sono tuttora aspetti centrali del processo di valorizzazione del capitale.

Le figure storiche di cui esso si serve non sono più soltanto gli operai di fabbrica polarizzati in una classe sociale, ma tutte quelle figure il cui modo di lavorare è ancora diretto dal capitale nelle forme della cooperazione, della parzialità, della subordinazione, etc.

L’alta teoria di Marx è riferita a dinamiche epocali e ha una forte tenuta anche sugli sviluppi degli ultimi decenni del capitalismo, della sua ristrutturazione e delle sue nuove forme di dominio. Insomma, le categorie elaborate da Marx, ben lungi dall’essere estranee all’oggi, ci indicano linee di tendenza che operano su larga scala.

Il «lavoratore complessivo» cooperativo, parcellizzato e subordinato all’automazione, impegnato in un qualunque lavoro, davanti a un computer o su un camion a portare pacchi, rispetta le determinazioni formali individuate da Marx e storicamente raffigurate dall’operaio di fabbrica.

Rimane sempre il punto dell’autocontraddizione del capitale, che da un lato espelle il lavoro vivo dal processo produttivo (produzione di plusvalore relativo, aumento della produttività, riduzione del tempo di lavoro necessario indispensabile alla valorizzazione) e dall’altro continua ad averne necessità per il semplice fatto che il plusvalore è il pluslavoro oltre il tempo di lavoro necessario del lavoratore.

Qui mi fermo, sperando di essere almeno un piccolo buon scolaro di Marx e di Roberto.

1 Ricordiamo, per quanto riguarda i testi, che nel 2011 era già uscita, a sua cura, l’edizione del primo libro del Capitale in due tomi per La città del sole, con una traduzione completamente nuova dei primi sette capitoli. Fra i suoi più recenti studi, tutti imprescindibili, ricordiamo: La logica del capitale. Ripartire da Marx, IISF Press, Napoli 2021²; Marx, Scholé, Brescia 2021; Marx e Hegel. Fondamenti per una rilettura, La scuola di Pitagora, Napoli 2024².

2 Cfr. il saggio La temporalità specifica del modo di produzione capitalistico ovvero «la missione storica del capitale», in Marx e i suoi critici, QuattroVenti, Urbino 1987.

3 Cfr. l’Avertissement aux lecteurs du Livre I du Capital premesso all’edizione Garnier-Flammarion, Paris 1969.

4 K. Marx, Il capitale, edizione Einaudi, Torino 2024, p. 150.

5 Ivi, p. 158.

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