1.le linee essenziali dell’accordo su Mirafiori
Il nucleo centrale attorno a cui si organizza l’accordo di Mirafiori è la sostanziale eliminazione della iniziativa contrattuale del sindacato. Infatti, tutte le clausole dell’accordo sono “blindate”. Viene soppresso il diritto delle organizzazioni sindacali firmatarie di indire scioperi per modificarle, ma anche il diritto soggettivo dei lavoratori di scioperare contro di esse. Le organizzazioni sindacali sarebbero punite con la cancellazione dei loro diritti (trattenute sindacali, permessi per i rappresentanti sindacali); i lavoratori sarebbero passibili di provvedimenti disciplinari fino al licenziamento. E’ quello che è contenuto nella cosiddetta “clausola di responsabilità” indicata all’inizio dell’accordo. Su una serie di problemi non trattati direttamente (come l’inquadramento) l’accordo rimanda, non al contratto di categoria (da cui la Fiat è uscita), ma al futuro contratto dell’auto; è presumibile che la “clausola di responsabilità” venga estesa a tutte le norme contrattuali.
In tal modo, viene soppressa la funzione-base del sindacato: che è quella di giungere, anche attraverso il conflitto, a una negoziazione migliorativa delle condizioni di lavoro, modificando le norme esistenti.E’ un’affermazione senza attenuazioni o qualificazioni del comando unilaterale dell’azienda, che si riflette nello stesso linguaggio dell’accordo, e anche – in modo più preciso – nella definizione delle funzioni delle Commissioni Paritetiche. Queste infatti sono numerose, e dovrebbero essere il luogo di negoziazione surrogatorio dell’impossibilità dell’itinerario “tradizionale” di conflitto-negoziazione. Ma, a parte il fatto che esse sono spesso chiamate ad affrontare problemi di “violazione sindacale” dell’accordo (e non di violazioni da parte aziendale), viene su ogni tema ribadita la regola che, se non si raggiunge un accordo entro un certo termine di tempo, l’azienda procederà unilateralmente ad attuare le sue decisioni. La “Commissione Paritetica di Conciliazione” è l’architrave di questa forma mistificata di “partecipazione”, e la definizione dei suoi compiti sintetizza questa logica.
Le regole sulla rappresentanza sindacale sono il logico corollario di questa impostazione. Esse non solo circoscrivono i diritti sindacali alle organizzazioni firmatarie dell’accordo (l’aspetto su cui molti commenti si sono soffermati), ma stabiliscono che i rappresentanti sindacali aziendali saranno nominati dalle organizzazioni firmatarie – in misura paritetica – anziché essere eletti dai lavoratori. Ogni rapporto di rappresentanza dei lavoratori è cancellato. Ha quindi ragione Adriano Serafino quando scrive sul Manifesto che “non è solo la Fiom ad essere esclusa”: l’accordo colpisce il ruolo di rappresentanza e l’autonomia contrattuale di tutte le organizzazioni sindacali.
E’ a partire da questo impianto di fondo che vengono definite le norme relative alla condizione di lavoro. Le richiamo sommariamente:
– su orario e turni di lavoro, si propongono tre possibilità (il tradizionale orario di 8 ore su 5 giorni, ma su 3 turni; un orario di 8 ore, sempre su 3 turni, che copra 6 giorni, con “riposi scalati”; il famigerato orario di 10 ore su 4 giorni. Si “sperimenterà”, si discuterà in commissione paritetica, ma la decisione ultima spetterà all’azienda.
– La pausa di mensa a fine turno, che viene riconfermata nell’ultimo accordo di Pomigliano, qui viene proposta in termini “sperimentali” (FIM e UILM non potevano sputtanarsi troppo, dopo i risultati del loro tanto conclamato questionario, che mostravano l’ostilità dei lavoratori a questa ipotesi). Bontà sua, l’azienda concede che, se l’orario sarà di 10 ore, la mensa sarà a metà turno.
– Le pause sul lavoro in linea vengono (naturalmente!) ridotte da 40 a 30 minuti.
– questo si lega alla imposizione autoritaria del metodo Ergo/Uas nella determinazione dei tempi. L’accordo afferma che tale metodo (introdotto da poco, e solo in alcune situazioni della Fiat) “tiene conto di tutto”, dei problemi ergonomici come di quelli dei ritmi sostenibili, così come di una corretta collocazione dei lavoratori (compresi quelli con “idoneità specifiche” – termine politically correct per “inidonei”); quindi, che c’è da discutere o contestare? al massimo, se ne può discutere in Commissione paritetica (fermo restando che, poi,la Fiat va per la sua strada).
– Sugli straordinari, l’accordo concede 120 ore annue pro capite “senza preventivo accordo sindacale”, che potranno arrivare a 200: in questo caso, per gentile concessione, “previo accordo sindacale”.
– Infine, sull’assenteismo, si sancisce che – con alcune ovvie (ed estreme) eccezioni – l’azienda possa non pagare i primi due giorni di malattia (nella fase “sperimentale” il non pagamento riguarderà solo il primo giorno) per i lavoratori che si mettano in malattia per periodi brevi a ridosso o a cavallo di festività o ferie.
2. il referendum: i suoi risultati e le varie interpretazioni
Come ormai tutti sanno, il referendum a Mirafiori-carrozzerie si è concluso con il 54% di “sì” e il 46% di “no” – un risultato che ha clamorosamente smentito le speranze di “plebiscito” espresse dai suoi promotori e dai sostenitori dell’accordo.
Vedendo in termini disaggregati i risultati, possiamo notare:
?hanno prevalso in modo abbastanza netto, anche se non schiacciante, i “no” nei seggi “operai” del montaggio (l’officina più numerosa) e della lastroferratura;
?hanno prevalso i “sì” nei seggi operai della verniciatura, nel seggio “misto” del turno di notte, e (in misura schiacciante) nel seggio degli impiegati.
In proposito, va fatta una precisazione. In genere, si è detto che – complessivamente – i “sì” hanno vinto grazie agli impiegati; ma che, anche tra gli operai, hanno vinto i “sì”, sia pure per uno scarto minimo di 9 voti. Questo non è vero: nel seggio del turno di notte votava anche una (pur ridotta) percentuale di impiegati, per cui è probabile che (presupponendo che questi abbiano votato come gli altri impiegati) complessivamente tra gli operai abbiano vinto i “no”,
A partire da questo, vorrei fare alcune osservazioni.
Anzitutto, nella constatazione (vera) che il “sì” ha vinto grazie agli impiegati, sono emersi elementi di “operaismo volgare” – come se gli impiegati fossero, “per natura”, servi del padrone. E’ bene, in proposito, ricordare quale tipo di impiegati sia stato chiamato al voto. Non era la “massa” degli impiegati tuttora occupati in Fiat: impiegati tecnici, amministrativi, commerciali, concentrati nelle “palazzine”. A votare erano gli “impiegati di officina” delle carrozzerie: che, per una buona metà, sono capi intermedi, per il resto sono figure – amministrative e tecniche – legate in modo stretto ai primi. Resta del tutto aperto come gli impiegati Fiat avrebbero risposto a un analogo referendum che investisse direttamente le loro condizioni – con ciò non implico che questi si sarebbero ribellati (probabilmente no…), ma guai se “li escludessimo” dai lavoratori Fiat a cui ci rivolgiamo: sono una porzione sempre più ampia di lavoratori, che subiscono anch’essi – in modi diversi – le conseguenze, anche in termini di condizione di lavoro oltre che di stabilità dell’impiego, delle strategie aziendali, e che sviluppano mille fermenti di critica all’azienda, anche se spesso non tradotti in termini di coscienza di classe e di lotta organizzata. Guai se una strategia di risposta alle politiche aziendali non li prendesse in considerazione! E questo vale anche per quella piccola porzione di impiegati che, nel voto sul referendum, ha espresso posizioni di supina obbedienza a Marchionne: anch’essi subiranno (inclusi i capi!) le conseguenze pesanti della strategia di Marchionne, anch’essi quindi sono “potenziali interlocutori” di una strategia sindacale di opposizione.
Un’altra osservazione riguarda i commenti complessivi sul voto. Leggendo alcuni di questi, sembrerebbe che abbia vinto il “no”…. Esemplare, in proposito, una nota sul Bollettino on-line di Punto Rosso dove si dice, letteralmente, che il “no” ha vinto, e se ne traggono ideologizzanti e deliranti consioderazioni sulla “classe in sé e per sè” e su “bentornato vecchio Marx!”. A parte questo caso estremo, c’è una tendenza abbastanza diffusa al trionfalismo, che dimentica che il problema, di fronte a cui ci troviamo praticamente, è che la classe operaia della Fiat “si è divisa in due”. E allora la questione non è di “cantare vittoria”, ma di come agire per ricuperare quelli che hanno votato “sì”: operazione che è del tutto possibile – tutti hanno letto o visto interviste di chi votava “sì” ma era ancora più incazzato di chi votava “no” – ma che è tutta da costruire e organizzare. (E questa considerazione – come vedremo meglio più oltre – vale anche per come muoversi nei rapporti interni al sindacato).
Credo, comunque, che il primo aspetto che emerge dal voto sia il riferimento alle condizioni concrete di lavoro. Il “no” ha prevalso nelle situazioni in cui era visibile il peggioramento netto e immediato di tali condizioni (a quanto pare – ma io non sono più aggiornato in proposito – la cosa era meno pesante in verniciatura). Non credo che i “no” siano stati prevalentemente orientati/riferiti alle clausole “strettamente sindacali” dell’accordo. Resta però il fatto – al di là dei “davanamenti ideologici” su classe in sé e per sé – che nel “no” si esprime anche un elemento, sia pur embrionale, di coscienza di classe: il rifiuto del ricatto “se voti no, noi ce ne andiamo” – e questo è un elemento importante, su cui lavorare (è tutto da costruire/consolidare, anche tenendo conto delle caratteristiche peculiari della classe operaia di Mirafiori, in termini di età e di livello di politicizzazione).
Tutto questo trova un riscontro importante nel confronto tra il voto al referendum e il voto alle ultime elezioni per le RSU. Com’è stato più volte notato, nelle elezioni per le RSU del 2009, le organizzazioni che si sono opposte all’attuale accordo separato, cioè la FIOM e i COBAS, ottennerò circa il 30% dei voti; oggi il “no” è al 46%. La differenza è ancora maggiore se espressa in cifre assolute: data l’affluenza minore alle votazioni per le RSU, i voti per le RSU di FIOM e COBAS erano circa 1300, oggi i voti per il “no” sono 2325 – e in una condizione molto più difficile, “sottoposta a ricatto”.
Anche questo dato è spesso stato interpretato in modo puramente “trionfalistico”. Ma va visto in tutti i suoi aspetti. E, anzitutto, va detto che queste considerazioni non possono riferirsi solo alla FIOM – come se questa fosse l’unica espressione organizzata dell’opposizione operaia in fabbrica: c’è una tendenza congenita, in “certi ambienti”, anche di sinistra, a trascurare i COBAS: senza mitizzarli/ideologizzarli, essi sono una realtà di cui tenere conto.
Fatta questa premessa, è evidente che l’area di potenziale opposizione alla politica di Marchionne è molto più ampia della incidenza “elettorale” di FIOM e COBAS, tanto più se si pensa che essa può includere anche molti di quelli che, pur votando “sì”, sono oltremodo incazzati. Ma, al tempo stesso, il confronto tra i due risultati mostra che FIOM e COBAS non erano riuscite a intercettare tutta quest’area nelle elezioni per le RSU: segno, probabilmente, di una insufficiente presenza e iniziativa quotidiana sulla condizione e sul luogo di lavoro; segno che le RSU (diversamente dai vecchi “delegati”) non erano percepite come strumento efficace di difesa immediata della propria condizione.
Una postilla. – Quando la prima stesura di queste note era già terminata, mi sono giunti i risultati di un’interessante inchiesta (condotta da Umberto Marengo e Lorenzo Pregliasco per Termometro Politico), che ha interrogato 510 operai di Mirafiori su come avevano votato al referendum e perchè
(poveri operai che, oltre al ricatto, devono sorbirsi i questionari…). L’inchiesta è commentata su La voce dall’orrendo Tito Boeri – che però, al di là delle forzature ideologiche della sua interpretazione, ne mette in luce alcuni dati molto interessanti.
In primo luogo – e questo era abbastanza prevedibile – il voto è stato dominato dal “ricatto di Marchionne”: chi ha votato “sì” lo ha fatto in larga misura “subendo il ricatto”, chi ha votato “no” lo ha fatto anzitutto per respingere il ricatto. Di qui Boeri trae la conclusione che si è trattato di un voto prevalentemente “ideologico”, in cui i contenuti dell’accordo hanno pesato poco. Questo però non spiega il dato – su cui ci siamo soffermati – che i “no” hanno prevalso nelle aree in cui i contenuti dell’accordo si sarebbero fatti sentire più pesantemente (e l’inverso è valido per i “sì”).
Del resto, dalla stessa inchiesta, alla domanda su cos’è più importante per il futuro, viene al primo posto il miglioramento delle condizioni di lavoro, prima ancora del salario.
Com’era anche prevedibile, sui “sì” hanno pesato le condizioni familiari: “avere figli e/o coniuge che non lavora o ha lavoro precario è uno dei fattori che ha maggiormente influito sul voto”.
Ma gli elementi più interessanti riguardano il rapporto con i sindacati.
In termine di iscrizione al sindacato, il “sì” prevale leggermente tra i non iscritti; tra gli iscritti ai sindacati firmatari dell’accordo, la prevalenza del “sì” è più netta, ma arriva solo al 64%, mentre il “no” supera l’80% tra gli iscritti a FIOM o Cobas: un segnale importante che l’accordo separato ha logorato il rapporto tra sindacati firmatari e propri iscritti, mentre ha rafforzato il rapporto dei lavoratori con i sindacati che si sono opposti. Questo dato trova un riscontro quasi clamoroso nelle risposte riguardanti la fiducia nei sindacati: “due terzi degli iscritti alla FIOM o ai sindacati di base esprimono fiducia nei sindacati, contro il 36% fra gli iscritti ai sindacati firmatari e il 40% fra i non iscritti”. Dunque, gli iscritti ai sindacati firmatari hanno ancor meno fiducia nei sindacati di chi non è iscritto!
Questi dati confermano che la netta opposizione all’accordo ha rafforzato ed esteso il rapporto della FIOM (e delle altre organizzazioni che si sono opposte) con i lavoratori.
3. le reazioni ai risultati del referendum
Partiamo (rapidamente) dalle reazioni di chi aveva firmato l’accordo e promosso il referendum. In sostanza, sono state reazioni di “compiacimento a denti stretti”, come a dire, con un sospiro di sollievo “ce l’abbiamo fatta!” (malgrado varie previsioni trionfalistiche della vigilia). In alcuni settori (pensiamo a settori della FIM) c’è stata qualche “presa d’atto” dei risultati inferiori alle aspettative, riaprendo una possibilità di discorso sulle regole della rappresentanza (aperture poi parzialmente frustrata dalla risposta arrogante di CISL e UIL sulle proposte CGIL in merito – ma su questo torneremo dopo). Per il momento, tra questi “compiacimenti a denti stretti”, quello da registrare è quello di Marchionne, che – sulla base dei risultati del referendum – ha confermato i piani produttivi per Mirafiori. Ma anche su questo torneremo.
Veniamo al PD. Non vale la pena di entrare in dettaglio su tutte le posizioni espresse prima del referendum; il cui comune denominatore erano i “distinguo”: rispetto a Marchionne, rispetto alle posizioni sindacali, rispetto alle altre posizioni espresse all’interno del PD stesso. Viene ancora una volta la nostalgia per il vecchio PCI: che avrebbe espresso una posizione di fondo, “schierandosi”, a cui poi avrebbe magari aggiunto dei “distinguo” per mantenere aperti sviluppi tattici successivi.
Alla fine, è possibile intravvedere un “minimo comun denominatore unitario”, soprattutto dopo il referendum: si accettano i contenuti dell’accordo relativi alle condizioni di lavoro (con ciò mostrando la “distanza”, non solo dalla concreta condizione operaia, ma da tutta l’esperienza contrattuale del sindacato in proposito), si prende atto dei risultati del referendum (chi anche con entusiasmo, tipo Fassino e Chiamparino, visto che si erano espressi subito per il “sì”, chi – con un sospiro di sollievo – come “dato di fatto”) e si invita conseguentemente Marchionne a rispettare gli impegni, infine però si chiede che la FIOM non venga esclusa (cioè che possa partecipare alla gloriosa gestione dell’accordo-capestro).
Ma, al di là di questi aspetti, resta un dato di fondo: l’accettazione di una “logica della globalizzazione”, che imporrebbe le condizioni-base dell’accordo; accettazione che in realtà significa scegliere tra una delle possibili risposte ai problemi della globalizzazione, e cioè la più arretrata e reazionaria: come mostra Lettieri, nel suo articolo sul Manifesto, la logica liberista dei vertici dell’Unione Europea, piuttosto che la logica “tedesca”, di difesa – pur limitata e “corporativa” – di una parte degli interessi dei lavoratori, in quanto funzionale a un diverso “modello di risposta” alla globalizzazione. Nella dialettica politica che, al di là del caso Fiat, si sviluppa sula globalizzazione, il PD si colloca dunque a destra.
Passiamo ora alla posizione della CGIL, che ha registrato alcune vistose oscillazioni, pur mantenendo una sostanziale opposizione alla strategia di Marchionne (cosa che non va dimenticata – alla faccia dei “processi alle intenzioni”) e quindi contrapponendosi, su questo terreno, agli altri due sindacati confederali.
Il segnale più vistoso delle oscillazioni è consistito nell’ipotesi di “firma tecnica” dell’accordo, nel caso di una vittoria del “sì” al referendum, espressa pubblicamente da Susanna Camusso in interviste ai giornali. Un’ipotesi che era sbagliata ella sostanza: non perchè sia improponibile in generale, ma perchè è proponibile solo in caso di accordi “brutti” nel senso che sono insufficienti, ma che lasciano margini e possibilità di modifica/miglioramento futuro; questo era invece un accordo che conteneva, built-in nelle sue norme, l’impossibilità di modificarlo. Ma, al di là di questo, una cosa era se l’ipotesi di “firma tecnica” fosse stata prospettata in una riunione interna con la FIOM; un’altra è averla anticipata pubblicamente. E’ come se un sindacalista, anziché dire alla sua delegazione trattative “chiediamo 100 ma se ci danno 50 secondo me dobbiamo firmare lo stesso”, lo anticipi pubblicamente; in quel caso la controparte regola al ribasso la propria disponibilità iniziale, e tu poi devi firmare a 10 o 20. E’ come se un generale abbia l’”idea tattica” di far passare le truppe nemiche per poi accerchiarle da dietro, e lo annunci pubblicamente! Inoltre, tutto ciò avrebbe inciso negativamente nel rapporto con i lavoratori, dando spazio all’idea che “in fondo, sono tutti uguali…” e che le distinzioni sono solo formali.
Dopodichè, però, la CGIL mi pare abbia assunto correttamente i risultati del referendum, ottenuti grazie alla posizione ferma della FIOM: assumendo una linea non equivoca di ricorso a tutte le possibilità giuridiche di impugnazione dell’accordo e la proposta di riapertura della trattativa, e aprendo la possibilità di un confronto unitario sulle regole della rappresentanza a partire da una piattaforma non equivoca.
E la FIOM? Non so se abbia scelto i modi giusti per “capitalizzare” un risultato che è in larga misura dovuto alla linea chiara e senza oscillazioni che essa ha mantenuto di fronte a Marchionne.
Il suo atteggiamento, nel dibattito interno alla CGIL, ha contribuito ad alimentare le tendenze a “contrapporre CGIL a FIOM”, che costituiscono uno degli elementi della “strategia avversaria”.
(Non a caso, la motivazione pretestuosa con cui la CISL rifiuta il confronto sulla proposta CGIL sulla rappresentanza è che questa è solo un espediente per ridurre le contraddizioni interne).
Intendiamoci: la CGIL attuale non è “all’altezza dei compiti” che richiederebbe la situazione. Non credo che ci siano – al suo interno – settori che accettino il “modello Bonanni” di relazioni industriali; ma ci sono settori che, riuscendo a fare accordi unitari, più o meno decenti a seconda dei casi (in alcuni prevale una logica diversa dal “modello Bonanni”, in altri “ci si scava una nicchia” senza scontrarsi col modello), sperano di andare avanti senza affrontare i nodi della contraddizione.
(E, in proposito, è paradossale che la mozione congressuale “di sinistra” si sia, in sostanza, caratterizzata per una richiesta di maggiore autonomia delle categorie…). Questo riflette una “deriva” più generale degli ultimi due decenni: quella di navigare (più o meno bene) nei margini consentiti dal quadro esistente, rinunciando a priori a una prospettiva di modificarlo. E, con “quadro esistente”, non parlo ovviamente della “società capitalista”, ma dell’assetto di relazioni industriali e di politiche economiche generali prevalente. E’ una “deriva” che spesso viene attribuita semplicisticamente alla “concertazione” in quanto tale, ma che invece ha radici più profonde: se vogliamo, questo è un riflesso profondo di una crisi politico-culturale della sinistra che ha investito anche la CGIL – non riducibile alla mancanza, dopo la dissoluzione del PCI, di un “partito di sponda”.
Dunque, sul terreno confederale ci sono rischi di “deriva ulteriore”. Ma l’unica via è quella di porre precisi “paletti” in proposito, in termini di contenuto e di procedure, e non quella di “contrapposizioni a priori”, basate su “processi alle intenzioni”, che danno spago alle manovre di divisione su cui conta l’avversario (si veda ad esempio il modo in cui CISL e soci hanno “rispedito al mittente” la proposta CGIL sulla rappresentanza). E non è una via, ma è una pura “scorciatoia simbolica”, la proposta di sciopero generale che alcuni presentano come lo “sviluppo logico” dei risultati del referendum: sciopero generale contro chi? Per ottenere quali risultati? (Non mi riferisco qui ovviamente allo sciopero del 28 gennaio, che è giusto e doveroso, anche se “difficile”, e ha una tematica precisa). Il problema resta quello – di non facile soluzione – di costruire, in modo articolato, nei luoghi di lavoro la forza capace di impedire il disegno di omologazione/subordinazione del sindacato. Su questo torneremo.
4. la strategia di Marchionne
La recente intervista fatta a Marchionne da Ezio Mauro su Repubblica permette di vedere in tutti i suoi aspetti la strategia del capo della Fiat (e – tra parentesi – è un modello di professionalità giornalistica, in cui l’intervistatore, senza esporre opinioni proprie, fa le “domande giuste” per far emergere le posizioni dell’intervistato, offrendo così uno strumento informativo utile ai suoi interlocutori, amici o avversari che siano).
Non ripercorrerò qui tutte le risposte di Marchionne. L’elemento centrale che emerge è la sua intenzione di generalizzare il “modello Pomigliano-Mirafiori” tutti gli stabilimenti Fiat. La sua generalizzazione permetterebbe mirabolanti risultati, non solo sul piano produttivo, ma su quello della condizione dei lavoratori: possibilità di partecipazione agli utili, e di arrivare a salari “di livello tedesco”.
Questa strategia sembra basarsi su un grande bluff produttivo e di mercato – come hanno mostrato, nei loro articoli sul Manifesto, Guido Viale (sul piano più complessivo) e Tonino Lettieri (su un piano più immediato e specifico). Non v’è alcuna base attendibile negli obiettivi produttivi che il fantomatico “piano industriale” di Marchionne pone per Fiat-Chrysler: né sul piano delle tendenze generali del mercato, né su quello delle quote (pesantemente declinanti) che Fiat occupa sul mercato attuale, né – infine – su quello degli investimenti effettivamente decisi da Fiat (le cifre sbandierate da Marchionne, come nota Massimo Mucchetti citato da Viale, non compaiono nei bilanci).
Ma, anche se prendiamo per buoni gli obiettivi sbandierati da Marchionne, “i conti non tornano” per la produzione italiana, come mostra Lettieri. Partendo dalle produzioni “incomprimibili” (perchè
già in atto, perchè riguardano mercati su cui la Fiat “tira”, o perchè corrispondono a investimenti effettivamente in atto), lo “spazio produttivo” che resta all’Italia è nettamente inferiore alle cifre ipotizzate da Marchionne (e non entro nel merito dello “spazio di mercato” tipo il SUV che verrebbe assegnato a Mirafiori). (In proposito, una curiosità. Oltre la metà di questi SUV dovrebbe essere destinata al mercato nord-americano: quindi, il motore arriverà dagli USA, il completamento della vettura avverrà a Torino, e poi più della metà delle vetture torneranno negli USA. Ma, al di là di questo – come mi ha fatto notare Andrea Ginzburg – il modello Chrysler di SUV che verrà prodotto a Torino è al top della classifica delle vetture più inquinanti prodotte negli USA: facendo la produzione finale a Torino, sarà più facile godere degli incentivi anti-inquinamento dell’amministrazione Obama – salvo poi riproporre negli USA le stesse vetture inquinanti).
Alla fin fine, sembra di intravvedere in Marchionne un certo “stile berlusconiano” (non mi riferisco ovviamente ai costumi sessuali: Marchionne è un tipico “calvinista di destra”): gli obiettivi produttivi che prospetta, la prospettiva che fa balenare di partecipazione agli utili e di “salari tedeschi” ricordano le promesse berlusconiane di “un milione di posti di lavoro” (o di far scomparire la spazzatura napoletana in una settimana) ed altre amenità. (E il suo rifiuto di “mettere sul tavolo negoziale” un concreto piano industriale complessivo, suffragato da cifre e date, ricorda il rifiuto berlusconiano di rispondere ai giudici….).
Al di là delle battute, c’è dietro questo “stile” una logica diversa da quella di un imprenditore industriale e radicato in una nazione (anche se “multinazionale”): c’è una logica finanziaria, in cui gli effetti sulle quotazioni di borsa contano più che le quote di mercato (finchè dura…), e in cui le localizzazioni sono indifferenti, non dico a una “centralità italiana” (così come la Volkswagen mantiene a suo modo una “centralità tedesca”) ma a considerazioni centrate su una logica di produzione.
Dopodichè, la strategia di Marchionne sta comunque riscuotendo alcuni risultati politici, al di là del servile consenso immediatamente riscosso da CISL e UIL. I vertici di Confindustria e di Federmeccanica, al di là dei dissensi espressi inizialmente dalla loro “base imprenditoriale”, accettano il nuovo modello di relazioni industriali da lui proposto. Certo, c’è una resistenza di FIM e UILM (non del FISMIC!) alla cancellazione di un impianto contrattuale a due livelli (nazionale ed aziendale), ma – dato che il contratto nazionale separato da esse firmato offre amplissimi spazi alle “deroghe” – potrebbe anche ridursi a una questione puramente formale. E, sul terreno politico, la sintonia con la linea di Sacconi è un elemento “forte” che può ben andare al di là delle sorti personali di Berlusconi (l’atteggiamento di Veltroni, per quel che vale, può indicare qualcosa in proposito). Per ora, il governo aiuta la Fiat, oltre che con l’appoggio politico-sindacale, finanziando a go go la sua Cassa Integrazione in deroga; più in là, potrebbero arrivare aiuti più sostanziosi.
Questo non elimina il problema di come Marchionne riuscirà a generalizzare il suo “modello” negli altri stabilimenti Fiat. E’ anche possibile che, in alcuni, si abbia una sua applicazione “soft” (si fa per dire…): alternando periodi ritmi/turni massacranti con periodi di CIG, si può “spalmarne il peso” in modo che sia meno insostenibile, e – soprattutto – rendere difficile l’organizzazione del conflitto sindacale. Ma ci sono pure in Italia stabilimenti in cui la Fiat sta producendo davvero, e cioè ha bisogno di produrre (pensiamo a Melfi). Qui la situazione si farà più complicata..
5. i problemi che ora deve affrontare il sindacato
La FIOM (e con essa i sindacati di base che si sono opposti all’accordo) ha lavorato bene: la sua posizione difronte all’accordo-diktat ha fruttato, non solo in termini di voto, ma – come mostrano i dati dell’inchiesta prima citata – in termini più profondi di rapporto con i lavoratori. Ha lavorato bene anche, e soprattutto, sul terreno dell’opinione pubblica (lo riconosce anche Marchionne – che, un po’ berlusconiano anche in questo, attribuisce alla “capacità di campagna mediatica” il risultato ottenuto dalla FIOM nel referendum). E’ un aspetto importante (ricordate l’insistenza di Mao sull’importanza di “preparare l’opinione pubblica”?) ed è servito a riportare alla ribalta la classe operaia e i suoi problemi. La FIOM sta continuando ad agire su questo terreno, e fa bene. Ma il “preparare l’opinione pubblica”, pur importantissimo, serve in termini “preliminari”, per costruire condizioni più favorevoli per lo scontro reale. Quindi, a partire da questo, la FIOM (e la CGIL più in generale) deve affrontare problemi di grande portata, in condizioni di estrema difficoltà. Proviamo a riassumerli:
?anzitutto, si tratta di combattere contro la generalizzazione agli altri stabilimenti Fiat (e all’intero impianto contrattuale della categoria) del “modello Marchionne”;
?in secondo luogo, si tratta di difendere gli spazi di rappresentanza elettiva per tutte le organizzazioni sindacali;
?ma, soprattutto, si tratta di ricostruire le condizioni per una effettiva contrattazione, sia negli stabilimenti dove sono formalmente “passate” le nuove regole, sia in quelli dove non sono (ancora?) passate.
Quest’ultimo è il terreno decisivo, e si articola in molteplici temi, quali: un salario la cui dinamica non si basi puramente sugli aumenti dovuti ai turni e agli straordinari (gli “aumenti” sbandierati in modo mistificato da Marchionne), ma su parametri controllabili di produttività e qualità; una negoziazione seria sul problema della collocazione degli inidonei nella nuova organizzazione produttiva; e, soprattutto, la ricostruzione di un controllo sulle condizioni di lavoro.
Ricostruzione: perchè questa capacità di controllo si era già largamente persa ben prima degli accordi imposti da Marchionne. E qui è opportuno un breve sguardo retrospettivo.
Agli inizi degli anni ’90, l’”accordo costitutivo” dello stabilimento Fiat di Melfi, firmato unitariamente dai tre maggiori sindacati metalmeccanici, sanciva – tra le altre cose – due condizioni estremamente pesanti:
?sul piano dei ritmi di lavoro, il passaggio dal tradizionale TMC al cosiddetto “TMC/2”, che comportava un’intensificazione dei ritmi del 20-25% in media;
?sul piano dei turni di lavoro, l’accettazione di un sistema di 18 turni su 6 giorni.
Ci sono singolari simmetrie tra quanto avvenne allora e quanto è avvenuto oggi. Anche allora, l’accordo fu in qualche modo giustificato come “caso eccezionale e non ripetibile”, volto a impedire che la Fiat facesse il nuovo investimento all’estero (oltre a questo, fu giustificato – nei discorsi informali e non ufficiali – perchè era la condizione per sbloccare le trattative sul CCNL dei metalmeccanici). Sta di fatto che quell’accordo aprì una breccia che non si è più richiusa – oltre a contribuire a determinare condizioni di lavoro che, a Melfi, hanno prodotto circa 2000 inidonei e oltre 200 casi di ernia del disco (in una popolazione lavorativa molto giovane rispetto alla media Fiat).
Nel corso degli anni, gli operai di Melfi hanno progressivamente lottato contro queste condizioni – fino alla grande ribellione contro il sistema di turni (sostenuta dalla FIOM) che ha portato a una loro, sia pur temporanea, modifica e riduzione. Ma – al di là di questo – si è avviata una fase in cui, in tutto il sistema Fiat, si è progressivamente allentato il controllo sulle condizioni di lavoro, già parzialmente indebolito dalla sconfitta dell’80. Non a caso, ciò si è collegato (con un nesso di “causalità reciproca”) all’indebolimento della rappresentatività dei delegati in riferimento alla concreta condizione di lavoro e al progressivo sfilacciamento del tessuto unitario del sindacato in fabbrica.
Il fatto che la stessa FIOM, a Pomigliano come a Mirafiori, abbia dovuto dichiararsi disponibile a considerare le condizioni di ritmi e di turni proposte dalla Fiat (rifiutando solo le lesioni dei diritti di sciopero e di rappresentanza elettiva) riflette il livello di debolezza a cui si era arrivati nei rapporti reali sul luogo di lavoro. (E gli stessi ultimi, deludenti risultati della FIOM nelle ultime elezioni per le RSU di Mirafiori riflettono questa situazione).
Oggi, quindi, ci si trova in qualche modo a “ripartire da zero”, e in condizioni di particolare difficoltà:
?non c’è quel minimo “tessuto unitario comune” derivante da una comune volontà di contrattare, magari su posizioni diverse, più moderate o più radicali, che c’è stato in altri periodi (anche di relativa divisione sindacale);
?inoltre, la possibilità di ricostruire dal basso un rapporto quotidiano e organizzato con i lavoratori si scontra, a Pomigliano e a Mirafiori, con la condizione di Cassa Integrazione
che coinvolge tutti i lavoratori (anche se alcuni in modo intermittente).
E, tuttavia, questa è la strada obbligata: ricostruire un rapporto capillare con i lavoratori, dentro la fabbrica (quando è in funzione) e fuori, attivare un tessuto di informazione costante verso e da i lavoratori, ponendo al centro i problemi della condizione concreta di lavoro e di come dev’essere regolata e retribuita.
Naturalmente, non è questo l’unico lavoro da fare: tutte le vie per garantire l’esistenza di una rappresentanza universale ed elettiva dei lavoratori vanno percorse, cercando le soluzioni unitarie che sono indispensabili per questo scopo (a condizione di non ledere il diritto di sciopero dei lavoratori e i diritti di iniziativa contrattuale dei sindacati).
Mi fermo qui: non spetta a chi è “esterno” (alla fabbrica come all’organizzazione sindacale) formulare proposte specifiche – se mai, le può fare come proposte di lavoro nell’ambito dell’organizzazione sindacale. Vorrei però segnalare, per un’argomentazione che non si limita alle “generalità” di questo samizbar, lo scritto di Gianni Marchetto, Reset, ovvero: a capo 12…, che molti di voi avranno già ricevuto (se non siete nella sua sterminata mailing list dovreste preoccuparvi: siete proprio degli emarginati….), o che potranno richiedere a marchetto.gianni@gmail.com
* dalla newsletter di www.controlacrisi.org
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