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Comunisti dentro il conatus

L’editoriale di Contropiano del 6 maggio scritto dal compagno Mauro Casadio ha l’indubbio merito di mettere al centro del dibattito tra i comunisti e, più in generale, nella sinistra anticapitalista del nostro paese, i due poli della nostra azione politica: l’oggettività del processo reale in atto e la soggettività delle forze antagoniste (effettive o meno).

Quando, nella seconda metà del Seicento, Spinoza scrive l’Ethica, more geometrico demonstrata, definisce il concetto di conatus come forza o impeto, sforzo e tendenza volto a perseverare o a conservare il proprio essere. Tendenza: vuol dire necessità e non accidentalità da indagarsi con rigore, appunto, euclideo. La riflessione del marxismo sulla Realtà non è estranea a questa prospettiva. L’Essere, che è materia, è, per questa ragione, assoggettato alle leggi materiali che lo governano: il clinamen degli atomi (che tanto piaceva a Marx) con il loro movimento causale e casuale ma anche le azioni umane insistono dentro la caduta tendenziale del saggio medio di profitto che regola la vita dei sistemi capitalistici. È anche il caso del confronto (pure aspro) tra epistemologia determinista e filosofia della scienza critica in Gramsci e Bordiga.
Ebbene: come rilevava Spinoza, gli uomini sono sì consapevoli delle proprie azioni e dei propri appetiti, ma, allo stesso tempo, sono ignari delle cause dalle quali sono determinati verso quelle azioni e quei desideri. Avere contezza, cioè scienza, di tali cause è la premessa ineludibile di una corretta valutazione di ciò che è in proprio dominio: di ciò che, quindi, può essere un’azione adeguata. Adeguata alle effettive possibilità d’intervento nella Realtà che rimane, comunque, un severo contesto di necessità. Ecco che, allora, la libertà non è la spiritualistica possibilità di un essere assoluto, slegato cioè dai vincoli materiali, dalle determinazioni; la libertà è data tanto dalla capacità di cogliere intellettualmente qual è il proprio margine di manovra, quanto dall’abilità di saper intervenire nell’interstizio giusto.
Altro che diminuitio sui; solo così è efficace un’azione, una scelta, una posizione politica individuale e collettiva: questa è la sua potenza. Potenza che consente, così, ad Althusser di spiegare la gramsciana definizione di moderno principe per Lenin: nel nesso causale della necessità del processo storico, Principe è chi riesce
a domare la machiavellica fortuna e a infondere nuovo senso alla storia. I marxisti non parlano mai al vento (scriveva Althusser); eppure nonostante queste aspettative – come dicevano gli stessi dirigenti bolscevichi – la rivoluzione del ‘17 è più osannata che studiata e, dunque, compresa.
Lenin, da questo punto di vista (e non solo), è paradigmatico. Estremismo malattia infantile del comunismo è spesso citato o utilizzato per forzature ermeneutiche volte a legittimare  scelte tattiche ma prive di strategia rivoluzionaria; bisogna leggerlo questo testo, però, prima di narcotizzarlo come giustificatorio di azioni ammantate di moderazione tattica ma il cui  nocciolo è l’opportunismo (Lenin lo scrive nel 1920 dopo la rivoluzione e in preparazione del secondo congresso della terza internazionale). Non vi sono solo indicazioni contro l’estremismo, chiarisce anche (una volta per tutte?) gli obiettivi dei comunisti e, quindi, ne qualifica il senso e il contesto delle singole azioni. Infatti: cosa fa sì che un’azione sia sintomo di una patologia estremista agli occhi del rivoluzionario che ha fatto la scelta più estremista
(nel senso sano del termine) nella storia dell’umanità? In sintesi: non agire adeguatamente, non avere cioè compreso il proprio margine effettivo d’azione e avere, dunque, rovesciato la propria potenza ad agire in una vera diminuitio sui. Come quando, sul piano politico, una concezione pseudo rivoluzionaria della lotta determina l’abbandono di una qualunque  forma di battaglia parlamentare perché sottovaluta l’influenza che il pensiero borghese ha sulle masse lavoratrici. Questo, quindi, il fallimento certo cui vanno incontro le azioni che spiritualisticamente credono di poter fecondare unilateralmente e di partorire la realtà, dimenticando di esserne, a loro volta, il parto. Proprio per evitare o arginare quest’influenza non bisogna separarsi dalle masse lavoratrici e lavorare perché la battaglia sindacale diventi
momento cosciente della lotta contro il capitalismo e per la transizione socialista.
Oggi questo patrimonio teorico è ancora utile per continuare la riflessione di Mauro Casadio. I nodi che, alla fine, vengono al pettine, come scrive Casadio, sono le condizioni e le contraddizioni oggettive perche materiali dell’essere, cioè della Realtà nel suo farsi storico. Il conatus dentro il quale siamo ha un verso e una direzione: tocca a noi saperlo intendere e, alla prima smagliatura, domarlo per invertire l’invertito corso del mondo. Liberiamoci dal nefasto (per i comunisti e per le classi lavoratrici) bertinottismo (che oggi con Vendola si ripresenta sotto forma di farsa perché in un contesto ampiamente peggiorato) secondo cui non bisogna più porsi l’obiettivo della presa del potere. Certo: se vogliamo rimanere in schiavitù intellettuale e (quindi) politica non ce ne dobbiamo preoccupare; se vogliamo pure che il modo di produzione capitalistico sia la nostra gabbia d’acciaio possiamo continuare a organizzare il ceto politico dietro un generico quanto inappropriato fronte antiberlusconiano (evocare oggi i fronti popolari, infatti, e scomodare la Resistenza contro il nazifascismo è, non solo offensivo verso la Resistenza, la memoria e le vite dei partigiani, ma anche un errore storico e teorico) e anche lasciare che il mondo del lavoro sotto ricatto si arrabatti.
Sicuramente nessun sincero comunista vuole questo, ma chiariamo a noi stessi che domare il conatus, avviare cioè il percorso della transizione, non è compito di un potere qualsiasi ma di un potere dove i rapporti di forza reali, materiali, che lì dentro si esprimono, siano a vantaggio dei comunisti e dei lavoratori. Il recente sciopero del 6 maggio, con il suo strascico di contraddizioni interne alla CGIL, c’impone di confrontarci con la realtà effettuale – e non più solo evocata – di un nuovo patto sociale. L’oggettiva composizione di classe nel nostro paese e la necessità (altrettanto oggettiva) della sua ricomposizione ci parlano dell’urgenza, sul piano sindacale, di una confederalità forte. È, dunque, questo il nostro margine d’azione e il nostro compito: comprendere che la Realtà ci offre, ora più di prima, enormi margini che non riusciamo a cogliere perché soggettivamente non all’altezza. Siamo davanti all’inesistenza istituzionale di un adeguato fronte politico, alla restaurazione interna alla CGIL e, come scrive sempre Casadio, alla debolezza del sindacalismo conflittuale e indipendente ma, se riusciamo a leggere il dato e insistiamo su indipendenza e conflitto della classe e autonomia ed egemonia dei comunisti, compiamo, forse, il primo passo di un’azione adeguata.

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