La Cgil fa propria la priorità della “crescita”, sulla quale si stanno orientando non solo le posizioni della Confindustria, ma tutta la politica economica dell’Unione Europea, del sistema bancario, del Fondo monetario internazionale. E’ una scelta profondamente sbagliata che, al di là delle cautele e delle attenuazioni di circostanza, accetta che la crisi possa essere affrontata con il rilancio dell’attuale modello di sviluppo. Tutti vogliono la crescita, ma la crescita di che? Quella dei salari, quella dei diritti sociali, quella dell’area dei beni comuni e dell’economia sottratta a una produzione di massa che distrugge tanto la salute delle persone quanto quelle del pianeta, oppure la crescita del Pil secca e brutale? Non si scappa da questo punto e assumere oggi la priorità della crescita significa inevitabilmente diventare subalterni alla strategia della competitività, della produttività, del profitto a tutti i costi che oggi anima gli indirizzi della Confindustria e dei principali governi europei.
Non è un caso che da questa scelta derivi sul piano sindacale il secco ridimensionamento del contratto nazionale. Per la prima volta il direttivo della Cgil auspica un contratto «meno prescrittivo e più inclusivo» che, tolto il sindacalese, vuol dire un contratto nazionale più leggero, che abbassi il livello delle tutele e dei diritti nella speranza di allargare l’area dei lavoratori compresi in esso.
Questo significa sposare una vecchia tesi, mai provata dai fatti. Quella dei vasi comunicanti dei diritti, per la quale si spera di estendere un po’ di tutele ai precari, ai disoccupati, al lavoro nero, abbassando la qualità e la quantità dei diritti medi per tutti. Questa teoria alimenta la campagna contro il “privilegio” di chi ha ancora la tutela dell’articolo 18 e che, non essendo licenziabile, non può essere sostituito da un giovane precario. La Cgil non ha mai sposato queste teorie, e non lo fa tuttora, ma il documento apre inevitabilmente ad esse dal momento che indebolisce complessivamente il ruolo e il peso del contratto nazionale. Di cui vengono ridotte la funzione salariale così come quella normativa, in particolare sugli orari e le flessibilità. Si apre così la via alla cosiddetta articolazione della contrattazione, che nei fatti significa dare spazio alle deroghe “contrattate” dalle Rsu, soprattutto quando sono sotto ricatto occupazionale.
La Cgil respinge le clausole di responsabilità, con cui Marchionne in Fiat attenta alle libertà costituzionali dei lavoratori. Tuttavia accetta l’idea che ci sia una “esigibilità dei contratti”. Parola terribile questa, che nel linguaggio delle imprese significa una sola cosa: una volta che qualcuno ha firmato, non puoi più discutere, né tantomeno rifiutare.
Si apre così la via, come ha denunciato nel suo intervento contrario al documento Maurizio Landini, alla generalizzazione del sistema delle deroghe.
Oltre alle evidenti obiezioni di merito, c’è anche una fortissima obiezione politica a questa scelta della maggioranza della Cgil. Anche questa è stata argomentata nel direttivo, in particolare da Gianni Rinaldini. Che ragione c’era, dopo uno sciopero che ha dato un importante segnale di combattività di massa, che ragione c’era di proporre questa svolta? E’ stato detto forse nelle piazze del 6 maggio che si scioperava per il ritorno alla concertazione e per il patto sociale? E’ chiaro che questa scelta, giustificata con il solito motivo che la Cgil non può non avere una proposta, si dà una torsione negativa a tutto il movimento di lotta che si è sviluppato in quest’ultimo anno, a partire da Pomigliano. E’ tutto da discutere che questo movimento si sia sviluppato per arrivare al contratto leggero e a un nuovo sistema di regole finalizzato alla produttività e alla crescita. A me sembra, al contrario, che l’anima vera e profonda di questo movimento, sia stato il no al modello proposto dalla Confindustria e dalla Fiat, il no alla flessibilità e alla produttività come vie principali per la crescita, il no insomma al modello Marchionne non solo nella fabbrica, ma nella scuola, nella cultura, in tutta la società. Ci sono stati arretramenti in questa battaglia, difficoltà, sconfitte dolorose come alla Bertone. Ma l’anima vera del movimento di lotta è stata questa. Quella che chiedeva una piattaforma di cambiamento sociale fondata sui diritti e le libertà e non un nuovo patto con la Confindustria.
Con questa accelerazione moderata la maggioranza della Cgil ha riassorbito tutte le sue articolazioni interne e ha messo di nuovo ai margini la maggioranza della Fiom e la minoranza congressuale, che hanno votato contro.
Bisogna allora prendere atto che, pur tra conflitti e contraddizioni, è in atto un processo che punta alla sostituzione di Berlusconi con una concertazione politica e sociale di stampo neocentrista. La maggioranza della Cgil, con il suo documento, entra in questo processo politico. E’ vero che le confusioni del governo, le rigidità e gli applausi agli omicidi dell’assemblea della Confindustria, non rendono vicinissimo un nuovo accordo. Verso di esso però marcia la maggioranza della Cgil. Ed è questa una direzione di marcia pericolosa e anche sbagliata nella prospettiva, perché non solo l’Italia, ma tutta l’Europa è colpita dalla crisi del modello di sviluppo, dalle catastrofi sociali che provocano le politiche liberiste di risanamento quali quelle che stanno massacrando la Grecia, dall’assenza di una vera strategia di cambiamento sociale.
La mossa della Cgil può forse servire a rimettere nei giochi della politica la principale confederazione italiana, ma non affronta minimamente i drammatici problemi sociali del mondo del lavoro, la caduta dei salari e dei diritti, l’aggressione alla libertà dei lavoratori che si sta scatenando.
Il voto del direttivo della Cgil è sul piano sindacale l’equivalente degli indirizzi politici del Partito Democratico. Non coincide in tutto con essi, ma la direzione di marcia è quella. Alla base di quella scelta sta l’idea che si possa sostituire Berlusconi rendendolo inutile anche per le imprese, con un nuovo patto con questa Confindustria, questo sistema di potere economico, questo modello di sviluppo. Un’idea che comporta inevitabilmente la normalizzazione dell’opposizione sociale.
Di fronte a questo passaggio tutte e tutti coloro che, nel sindacato e nei movimenti credono e pensano ad un’altra prospettiva, oggi hanno il dovere di ritrovarsi per contrastare queste scelte e per costruire una piattaforma alternativa ad esse.
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