Genova 2001 – Genova 2011
Elementi di bilancio e riflessione politica sul presente
Sviluppare la narrazione di quelle giornate solo in maniera generica ed edulcorata, ricordando solo la grandissima ed entusiastica partecipazione di massa senza ancora affrontare e provare a far emergere una sintesi politica di quell’esperienza collettiva, non crediamo serva a far crescere un movimento di massa dal punto di vista di una interpretazione di classe della storia e ancora una volta releghi e ancori i movimenti a un ruolo di generica pressione democratica e di compatibilità politica.
Ma non solo, ancora una volta, senza provare a dare una struttura organica sia ai nostri successi che ai nostri fallimenti, non saremo in grado di costruirci gli strumenti per una chiave interpretativa del presente e della fase attuale.
Genova 2001
Va detto chiaramente – e chi c’era ha provato questa sensazione anche da un punto di vista emozionale – che Genova 2001 è stata, da molti punti di vista, un successo strabiliante.
Per la quantità dei partecipanti, per la condivisione di una scadenza così rilevante, per la pluralità delle posizioni espresse e la capacità di coniugare una singola tematica in molte “lingue” e pratiche (da quella pacifista fino a quella più genuinamente anticapitalista) per la diversità dei temi affrontati, per la volontà presunta o reale di capire e dare dignità a posizioni politiche anche molto lontane.
Genova 2001 è anche stato, soprattutto per alcuni settori, il tentativo di un approccio “a tutto campo”, alla globalizzazione dell’economia capitalista, che tentasse di costruire un’unità dal basso tra le diverse espressioni politiche e sociali, per posizionare e far sedimentare ideologicamente la prima pietra di una rete di “movimenti” che, in grado di valorizzarne le specificità, potesse provare a disarticolare e far inceppare i meccanismi di riproduzione della piramidale struttura economica capitalista.
Questo in un corretto tentativo di discontinuità, provando a uscire dalla logica ripetitiva della pura risposta estetica – violenta o non violenta poco cambia – alle iniziative del nemico di classe del dopo Seattle; quel monotono teatrino, in cui ognuno si giocava il proprio ruolo a seconda del colore dell’abito (dal nero al rosa), che portò molti a definire“turismo politico” l’inseguire i vari appuntamenti del G8 per tutto il mondo.
C’erano poi anche mille spinte diverse, a nostro giudizio profondamente errate, da chi pensava a porre forme di contenimento allo strapotere delle multinazionali, a chi posizionava il proprio obiettivo sugli organismi di potere sovranazionale, c’era persino chi parlava dell’Europa come elemento “democratico” che potesse bilanciare la forza dell’“Impero del male Statunitense”, un insieme di spinte anche radicali nella loro espressione ma che, nel loro complesso, suggerivano l’aspirazione e davano indicazione di una possibile riformabilità del capitalismo ripulito dalla brutture più eccessive.
In una brevissima sintesi possiamo però tranquillamente dirci che la ricerca di quel confronto e l’esplicitazione dei contenuti di quell’approccio a cui prima facevamo riferimento, erano quello che teoricamente o anche solo semplicisticamente da Genova in molti si aspettavano uscisse.
Come però, nel contempo, deve essere anche aggiunto che il sentimento e la voglia di partecipazione assolutamente positiva che ha portato a Genova queste centinaia di migliaia di persone era probabilmente frutto solo di un’aspirazione a una trasformazione radicale cogliendo un’occasione per coniugare rabbia e contenuti piuttosto che un’analitica scelta razionale che permettesse la costruzione di un percorso che permettesse la concretizzazione dell’immaginario di una trasformazione radicale dell’esistente.
Da quest’ottica fondamentale, ma anche da altri punti di vista che proveremo a decifrare, possiamo però dire che Genova, come ha rappresentato un punto altissimo di aggregazione e speranza di trasformazione, è stata anche l’evidente rappresentazione di una debolezza strutturale – un gigante dai piedi d’argilla – trasformatosi in una voragine che si è ingoiata nel bene o nel male ogni espressione politica organizzata e che ha provocato una battuta d’arresto durata per lungo tempo e generalizzata a moltissimi settori d’iniziativa di massa.
Genova infatti ha tracimato e fagocitato, risputandole in diverse modalità di riflusso e senso d’impotenza, tutte le forme di autorappresentazione, la pianificazione di visibilità meramente mediatica, i giochi di potere interni al “movimento”, le visioni edulcorate della “guerra pacifica” allo stato anziché la denuncia di una fase al contrario durissima dello scontro politico in atto anche tra fazioni della stessa borghesia, la logica dell’uso della violenza “mediata, mediatica e concordata” come tentativo di incanalare e gestire le pratiche di piazza ai fini di un processo di istituzionalizzazione dei movimenti.
Genova 2001 ha anche contribuito a demolire i partiti della sinistra, allora parlamentare, proiettati in una logica di avvicinamento/condizionamento/scioglimento nei movimenti, destrutturandone così il ruolo a tal punto da renderli sempre più marginali e senza alcun peso specifico dopo l’abiura di Bertinotti sulle “ideologie del ‘900” dichiarate tout-court obsolete.
Ma non diciamo questo per riaprire antiche polemiche o per una ben magra consolazione per il disciogliersi, sotto i riflettori dello scontro di classe, delle errate teorie sull’“Impero”, ma perché Genova 2001 è ancor oggi un buco nero mai da nessuno affrontato ed esplicitato in un processo critico-autocritico – e in questo caso è un nessuno che vale per tutti e tutte – per coprire le proprie responsabilità politiche, il proprio fallimento e per qualcuno i propri egemonismi, vanificati e spazzati via non solo dai colpi della repressione ma dall’inconsistenza di una proposta politica incapace di dare gambe reali ad un immaginario capace di rivoluzionare le condizioni di vita di milioni di uomini e donne in tutto l’occidente delle società a capitalismo avanzato come nei paesi colonizzati e conseguentemente più poveri.
Un dato oggettivo, evidente con il senno del poi, di incapacità concreta di fare realmente muro comune contro la repressione e contemporaneamente, dal punto di vista progettuale, di esprimere una proposta collettiva nella diversità delle articolazioni che andasse al di la dello slogan “democraticistico” “un altro mondo è possibile”.
Crediamo che l’enorme movimento di massa che ha attraversato gli incontri, i forum e le strade di Genova nel 2001, sia naufragato, al di là ripetiamo per i livelli di terrorismo repressivo e di violenza inaudita da parte dello stato, proprio per una sua genetica genericità di prospettive.
Esaltando un movimento e una coscienza puramente critica non siamo stati collettivamente in grado (ma probabilmente non era nelle cose) di valorizzarlo nella sua interezza, spingendo per una sua uscita dalla genericità, e caricandolo invece di una valenza concretamente anticapitalista basata su una coscienza di classe e del ruolo da rivestire in quanto tale, praticando oggettivamente, al di là dei limiti soggettivi, un percorso di trasformazione radicale dell’esistente.
In queste poche parole forse è riassunto il limite di Genova 2001
Il che non vuole oscurare questo momento di positiva follia di massa, passateci l’espressione, che vedeva centinaia di migliaia di volenterose molecole che si agitavano una a fianco all’altra senza ancora la capacità di decidere del proprio futuro e senza forse voler vedere che il famoso altro mondo possibile si può ottenere solo demolendo l’esistente e che la borghesia non permetterà che ciò accada in modo pacifico.
E allora crediamo che in queste riflessioni ci siano gli elementi per capire perché il dopo Genova sia stato un deserto di impotenza e confusione politica che, anziché rimettere insieme intelligenze e capacità di autorganizzazione nello sforzo di costruzione di un’identità capace di progettare strategie di lungo periodo come anche pratiche di radicamento di massa nel quale verificare giorno per giorno possibilità di percorsi allargati, ci si è riavvolti in una spirale di frammentazione politica da una parte, come nella ricerca di facile consenso a tutti i costi dall’altra, inseguendo anziché combattendo gli appalti al divertimentificio voluto dalla borghesia per pacificare nuove generazioni di possibili militanti politici.
Anzi il militante politico, con il suo carico di analisi e responsabilità di riflessione sul ruolo di un movimento di classe nel suo possibile evolversi in un auspicabile movimento rivoluzionario, si trasformava in attivista per una strana forma di autocensura che spaventasse il meno possibile.
Ci permettiamo questa critica trasparente perché nel 2001 abbiamo fatto parte di un entusiasmante progetto di costruzione di un’area anticapitalista – il Network per i Diritti Globali – che raccogliesse le strutture politiche più combattive, radicate e radicali, per provare ad esprimere una forma di intelligenza politica collettiva che potesse influire con maggiore concretezza di proposte politiche e organizzative nei processi di formazione di coscienza politica dei movimenti.
Anche questo grande progetto non ha superato il 22 di luglio del 2001 proprio perché si era costituito volontaristicamente un grande cartello di sigle senza un reale passaggio politico collettivo che indicasse l’esigenza di una salto di qualità nonostante che dal Piemonte fino alla Sicilia si fossero aggregate le sigle delle strutture politiche e sociali tra le più attive da punto di vista politico oltre che sindacale.
Questo per dire che nessuno è uscito rinforzato da quelle giornate anzi molti compagni di strada di quegli anni sono stati azzerati da quella esperienza.
Luglio 2011
Il problema dell’oggi, nel 2011, sta proprio nel non ripetere gli stessi errori o comunque non essere, ancora una volta, preda di facili condizionamenti smarrendo la propria identità e collocazione politica.
Ancora oggi troppo spesso la genericità delle proposte politiche sono proiettate a privilegiare forme più comunicative senza un ragionamento sui contenuti e senza lo sforzo massimo di ricerca del consenso su questi.
La valorizzazione delle genericità e del semplicismo nella denuncia diventa l’espressione della ricerca di un più facile consenso e pare essere per molti la strada per definire una propria identità.
Molte volte sembra ovvio affermare che la rincorsa del facile consenso sulla banalità della quotidianità delle contraddizioni giovanili non sia uno strumento valido per trasformare il presente perché l’immaginario che ne esce è qualcosa che annulla e distrugge politicamente chi lo persegue. Nei fatti invece uno fetta dei movimenti si rigenera solo su tematiche (dall’antiberlusconismo in primis) che non possono altro che offrire occasioni, sponde e interazioni istituzionali e non certo la costruzione di percorsi oggettivamente antagonisti.
Dire questo non vuol dire avvitarsi in un identitarismo senza prospettive ma, al contrario, porsi all’interno di ogni ambito di massa e in questi provare a rappresentare un riferimento per chi pensa sia necessario andare oltre la singola vertenza o lotta che nasca a partire da bisogni materiali.
Tutto ciò in una fase in cui la crisi strutturale del sistema capitalistico amplia fortemente i conflitti, creando le condizioni oggettive per processi ricompositivi da un punto di vista di classe e costringendo militanti e realtà a cimentarsi su prospettive più complessive.
Se accettiamo lo scontro su questo terreno, nostra responsabilità collettiva è lavorare affinché all’interno tanto degli ambiti di massa, quanto delle singole lotte che si diffondono nei territori, si possano costruire ragionamenti, identità allargate e proposte politiche che riescano a generalizzare il conflitto evidenziando l’inconciliabilità degli interessi di classe uscendo così dalla genericità della semplice rivendicazione e denuncia.
Ciò che vogliamo dire è che non è più sufficiente (se lo è mai stato) la semplice rivendicazione ad esempio di un salario più dignitoso, se questa giusta battaglia non è inserita in una prospettiva più complessiva che permetta un salto di qualità in termini di coscienza anticapitalista e di autorganizzazione da riprodurre in tutti i luoghi del conflitto.
Certamente la strada è in salita e la lotta di classe la conduce anche il padronato che si ricompatta in nome della difesa della condizione esistente in un contesto di saturazione dei mercati e di finanziarizzazione dell’economia, nella quale la macelleria sociale (l’ultima finanziaria ne è l’esempio più lampante) diventa l’unico strumento possibile per garantire la propria sopravvivenza.
Questo pone oggi all’ordine del giorno la riproposizione dell’ opzione comunista quale alternativa a una società capitalista non riformabile, evidenziando ancora la necessità dell’attenzione sulla centralità della contraddizione primaria capitale / lavoro come nodo da sciogliere per un processo di trasformazione societaria.
Da questo punto di vista, senza voler in questo documento analizzare nello specifico il ruolo dell’economia italiana e della suddivisione del lavoro ad essa attribuita nel contesto mondiale, il settore della logistica e della circolazione delle merci prodotte, che assume sempre più peso, è oggi attraversato da numerosi conflitti e vertenze che stanno mettendo in discussione gli assetti di comando stratificatisi negli anni.
Citiamo questo esempio di conflitto quale esempio particolare in cui si sta cercando di coniugare prospettiva politica e innalzamento del livello di coscienza di classe alle giuste rivendicazioni per dare risposte concrete ai bisogni primari dei/delle lavoratori/trici, per la gran parte immigrati, diretti protagonisti.
La combattività della classe, in questo settore come in altri, ricomincia a esprimersi nelle forme dovute e torna ad essere riferimento per il superamento della frammentazione che da anni la stessa sinistra istituzionale e il sindacalismo concertativo ha aiutato a creare in cambio di una posizione rilevante nella gestione del potere.
Ma oggi l’Italia è anche attraversata da movimenti che osteggiano con forza la devastazione dei territori, la privatizzazione delle risorse e dello stato sociale, come elementi integrati in una possibile rottura anticapitalista.
E’ questi forse sono l’unica eredità politica lasciataci da Genova 2001.
Movimenti ampi e partecipati, basati su una reale resistenza popolare, come ad esempio il movimento No Tav, che a partire dai singoli territori riescono a mettere in discussione assetti economici e di profitto più generali.
Crediamo sia di fondamentale importanza valorizzare queste lotte, soprattutto per la loro valenza anticapitalista, quali tasselli di un movimento di resistenza diffuso.
Oggi la fase ci pone quindi nuove sfide e proprio il superamento dei limiti di Genova 2001 ci deve far capire l’importanza di saperle cogliere.
Il superamento della genericità parlando al contempo un linguaggio di massa, la capacità di costruire e diffondere autorganizzazione, il superamento delle specificità e del rischio di arroccamenti di identitarismo, la capacità di porre ogni singola lotta e vertenza su un piano di prospettiva di classe, saranno i terreni sui quale nella quotidianità dovremo imparare a misurarci.
I compagni e le compagne del Centro Sociale Autogestito Vittoria
Milano www.csavittoria.org vittoria@ecn.org
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