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Il silenzio della Diaz

La sentenza della Cassazione sulla Diaz costringe tutti a riflettere, a fine corsa, su cosa è successo e il significato di ogni singolo avvenimento, depistaggio, ritardo, silenzio, complicità.

Lo dobbiamo alle vittime, ossia ai nostri sfortunati compagni di lotta. Lo dobbiamo a noi stessi, se davvero vogliamo cambiare radicalmente l’esistente, perché senza capire chi abbiamo davanti non riusciremo a cambiare mai nulla.

C’è la conferma che in Italia esiste un apparato di polizia che considera “normale” la tortura, ne fa uso tutti i giorni nelle questure e di quando in quando ritiene di poterne far uso “esemplare” nella repressione dei movimenti. Siano questi pacifici e di piazza, come quelli attuali, o molto più combattivi e determinati, come quelli di un lontano passato. È un elemento di continuità diretta con il fascismo. Non sarà mai ricordato abbastanza che a dirigere le “scuole di polizia” della Repubblica nata dalla Resistenza venne chiamato Guido Leto, direttore dell’Ovra – la polizia politica del fascimo – che era rimasto al suo posto fino alla caduta di Mussolini.

Non è una sopravvivenza, è un elemento costitutivo dello Stato del dopoguerra. Non fa parte della Costituzione scritta, ma di quella materiale. È un elemento voluto e mantenuto da tutti i partiti politici che sono stati al governo, Fatto proprio dagli eredi del Pci, fino al partito in via di estinzione guidato da Bersani. O timorosamente ignorato dai Bertinotti di turno.

È un tumore maligno incistato nei gangli della vita civile e che ne impedisce per principio lo sviluppo, ne mina la salute, ne cancella il futuro. È il corrispettivo esatto di un sistema economico senza più sbocchi, degradato e violento, che taglia il proprio stesso corpo sociale per sopravvivere e nel farlo si accorcia la vita. Non ha più nemmeno, insomma, la teratologica “grandezza” che durante il fascismo aveva provato a farsi come “bisturi” risanatore. Da bisturi a tumore, questa è l’evoluzione.

 

C’è la conferma che una parte della magistratura prende sul serio il compito istituzionale che gli è stato affidato dalla Costituzione scritta. E per questo viene osteggiata e inciampata a ogni passo dal resto dell’amministrazione centrale, sia della giustizia che degli interni, sia dai governi – tutti – che dai partiti.

L’esistenza di questa parte di magistratura è il frutto di lunghe stagioni di protagonismo sociale, che avevano imposto una lettura autentica e fedele del dettato costituzionale. Bisogna essere realisti: senza una ripresa vigorosa, oceanica, sfrontata, dell’opposizione sociale, questa sopravvivenza di giudici imparziali verrà superata. Insabbiata.

Dalle profondità degli scantinati delle questure si può già sentire il ruggito che chiede vendetta per una condanna fin troppo mite, ma definitiva, che fa dei principali dirigenti della polizia italiana dei normali pregiudicati che non possono ricoprire funzioni pubbliche. E che dovranno perciò lasciare i propri incarichi. Parliamo di Giovanni Luperi, ora a capo dei servizi segreti. Di Francesco Gratteri, ora a capo dell’Anticrimine. Di Gilberto Caldarozzi, ora a capo del Sercizio centrale operativo. E persino di quello Spartaco Mortola a capo della Polfer di Torino, che pure in questa posizione tutto sommato marginale è riuscito a organizzare un bis di Genova 2001 nella stazione di Porta Nuova, contro i manifestanti No Tav che se ne tornavano a casa dopo una manifestazione senza tensioni. Avremmo voluto parlare anche di Gianni De Gennaro, attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega per i servizi segreti, stralciato e poi assolto nel processo, e che rappresenta icasticamente quel tumore anticostituzionale elevato a istituzione. Nessuno si interroga infatti su come sia tollerabile, in un paese di normale cultura liberale, che un ex dirigente dei servizi segreti ricopra il ruolo di “controllore politico” – civile, dunque – di un corpo militare così delicato.

 

Questa sentenza, dunque, riconosce le resposabilità individuali di uomini che facevano parte e poi hanno diretto – anche in virtù dei “meriti” conseguiti a Genova 2001 – gli apparati più violenti dello Stato. Quegli uomini usciranno dai loro uffici ma verranno sostituiti da altri identici a loro. Saranno pubblicamente “interdetti”, ma privatamente ringraziati, beneficati, onorati.

Ma anche una sentenza come questa non riesce a illuminare il “buco nero” di Genova sul piano politico. Resta tuttora immune a qualsiasi verifica della storia la “cabina di regia” e gli imput alla mano pesante inviati agli apparati coercitivi per dissuadere i movimenti di protesta dal disturbare i manovratori. Non lo ha voluto fare il Parlamento dal 2001 fino ad oggi, evidenziando una complicità bipartisan tra politica e apparati repressivi che rimane l’eredità più inquietante e occultata della democrazia sospesa a Genova nel 2001 e tuttora non “rientrata in servizio”.

Questa sentenza non può infatti sanzionare né eliminare quella “cultura dell’ordine” che costituisce il tumore palese dentro una democrazia. E che questo governo piovuto dal nulla, che sta stravolgendo il modello sociale consentito dalla Costituzione scritta, non ha alcun interesse a “riformare”.

Anzi.

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