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Una fantasia orientale: la rivoluzione in Israele-Palestina

 

 

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

 

 

Dateline: Tel Aviv, un giorno o l’altro, alla fine del 2011, o… più avanti…

Global Research, 13 settembre 2011

 

Le strade di Tel Aviv sono inondate da dimostranti che stanno sventolando la bandiera della Palestina, le sue insegne sovrastano un mare indistinto di altre bandiere, alcune di queste con la stella di Davide.

Al culmine di mesi di proteste di massa, anche qui, come in altre città israeliane e in tutta la Striscia di Gaza e nella Cisgiordania da tanto tempo sotto occupazione, Israeliani, sia arabi che ebrei, uniscono le loro mani con i rifugiati Palestinesi liberati dai campi, per festeggiare la nascita della nuova Palestina.

Tutti gli abitanti della Palestina storica si stanno preparando per un referendum popolare, attraverso cui saranno loro a decidere con il voto se optare per un singolo Stato, che garantisca pari diritti di cittadinanza a tutti, indipendentemente dalla religione o dalla appartenenza etnica, o per due Stati separati e sullo stesso piano di dignità.

Un governo provvisorio, composto da attivisti per il movimento della pace, da membri di organizzazioni per i diritti umani e da esponenti politici palestinesi, tra cui Marwan Barghouti liberato, ha assunto la responsabilità di organizzare il referendum, mentre una commissione di esperti del diritto ha iniziato a studiare i parametri di una Costituzione – sia per la soluzione ad un unico Stato che per un nuovo Stato palestinese – una Costituzione di una tal natura che lo Stato di Israele non ha conosciuto mai.

La legge marziale, imposta di volta in volta dal 1948, è stata definitivamente revocata, e i check-point, le barriere di controllo e tutti gli altri ostacoli che avevano ridotto a brandelli il territorio della Palestina in tanti Bantustan sono stati rimossi.

I primi bulldozer hanno iniziato a smantellare il muro odiato, il confine con Gaza è stato aperto da entrambe le parti, all’ Egitto e al resto della Palestina.

È stata insediata una “Commissione della Verità”, sul modello dell’esperienza sudafricana, per porre le basi per la riconciliazione tra Israeliani e Arabi. La Commissione ha due dipartimenti, uno che esaminerà tutti i documenti riguardanti l’espulsione dei Palestinesi durante la Nakba, e il secondo che passerà in rassegna le violazioni dei diritti umani da quel momento ad oggi.

Gli ex leader del passato regime hanno lasciato il paese, molti, come l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno fatto ritorno alla loro terra d’origine, gli Stati Uniti. Altri, come la Tzipi Livni, Ehud Barak, Avigdor Lieberman, e Shimon Peres, se ne sono andati in grande segretezza, vale a dire hanno raggiunto luoghi più sicuri, per evitare di essere bollati con mandati di cattura internazionali. Numerosi sono gli ambasciatori israeliani all’estero che hanno presentato le loro dimissioni, ugualmente alla ricerca di rifugio politico da qualche parte, in qualche modo.

 

Come è accaduto

Tutto è cominciato con le ribellioni arabe che hanno colpito il Nord Africa all’inizio del dicembre 2010 in Tunisia, Egitto, e poi Yemen, Bahrein, e via così.

Fin dall’inizio, è stata la questione della giustizia sociale che ha scatenato gli sconvolgimenti. L’auto-immolazione di Mohammad Bouazizi in Tunisia è stato un atto di protesta contro l’ingiustizia sociale ed economica a cui lui e la sua famiglia erano stati sottoposti. Dopo la fuga dello sgraziato dittatore Ben Ali e della sua odiata moglie Leila Trabelsi in Arabia Saudita, la scintilla della rivoluzione si è trasferita come fiaccola olimpica all’Egitto.

Oltre un milione di Egiziani, dimostrando nella Piazza Tahrir e in tutto il paese, hanno costretto Hosni Mubarak ad abbandonare, per poi trascinarlo davanti a un tribunale a rispondere della morte di oltre 800 manifestanti.

Nello Yemen, l’uomo forte Ali Abdullah Saleh ha fatto resistenza alle pressioni della strada, così come alle offerte di generosa mediazione del Consiglio per la Cooperazione fra gli Stati Arabi del Golfo (GCC), finché è stato indotto ad uscire di scena per salute sofferente e per pressioni politiche. La spietata repressione di Muammar Gheddafi contro civili che dimostravano ha fornito il pretesto per una risoluzione delle Nazioni Unite di dubbia legalità, che a sua volta è stata sfruttata per scatenare una guerra della NATO contro la Libia. Solo dopo mesi di prolungata distruzione massiccia di Tripoli, che tanto sangue ha fatto scorrere attraverso i bombardamenti aerei, un compromesso è stato raggiunto, permettendo al leader libico una via di uscita.

In Siria, il regime di Assad ha colpito con estrema brutalità la sua gente, uccidendo oltre 2.000 persone, resistendo comunque a tutti i tentativi di mediazione dall’esterno, fino a quando una fazione pragmatica all’interno della minoranza alawita, sfruttando l’isolamento che un embargo petrolifero dell’Unione Europea aveva imposto alla Siria, si è mossa contro il clan Assad, e lo ha deposto, creando così le condizioni per una transizione verso una qualche forma di governo rappresentativo.

E l’ondata di ribellione araba non si è fermata qui.

I manifestanti in Bahrein hanno inscenato proteste senza precedenti. La ribellione, presentata nei media internazionali come una sfida puramente settaria lanciata dalla maggioranza sciita repressa contro la minoranza dominante sunnita, invocava riforme economiche, politiche e sociali di grande respiro. Alcune forze di opposizione perseguivano una monarchia costituzionale, altre esigevano tout court l’abolizione della monarchia.

La famiglia reale del Bahrein, sovrastata politicamente e militarmente, ha dovuto chiamare a rinforzo gli Stati confinanti membri del Consiglio per la Cooperazione fra gli Stati Arabi del Golfo, che sono arrivati in suo soccorso il 14 marzo 2011. In una grottesca parodia di “unità araba”, i soldati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti si sono mossi per proteggere posizioni strategiche, liberando la polizia del Bahrein dal compito di affrontare i manifestanti.

La dinastia saudita ha prevenuto la sollevazione sociale nell’Arabia Saudita, annunciando che avrebbe messo subito sul piatto100 miliardi di dollari per elevare gli standard di vita del popolo.

Oman e Kuwait non sono stati immuni dall’ondata di proteste radicali, né lo sono stati gli Emirati Arabi Uniti.

Nei casi degli sceiccati del Golfo, sono stati i rappresentanti delle diseredate comunità etniche e religiose ad esigere la fine della discriminazione e un’adeguata rappresentanza politica in nuove istituzioni dello Stato, che dovrebbero rimpiazzare le strutture arcaiche, oligarchiche, attraverso cui gli sceicchi petrolieri avevano governato i loro feudi, in totale disprezzo dei più elementari diritti umani.

Dato l’enorme patrimonio economico in gioco nei diversi piccoli, ma immensamente ricchi di petrolio, emirati e sceiccati, non vi è stata alcuna esitazione da parte dei loro alleati occidentali e consumatori di petrolio a venire in loro aiuto. Ma la dinamica sociale, psicologica e politica che si era scatenata, non si sarebbe arresa alle misure tradizionali di repressione. Condizioni di guerra civile hanno minacciato molti degli sceiccati, costringendo a cambiamenti forzati nello status quo politico: le riforme profonde hanno ridefinito alcune delle monarchie assolute in entità costituzionali secondo i modelli spagnolo o scandinavo. Sebbene lontani dal raggiungere la perfezione, i cambiamenti forzati attraverso il potere della strada sono riusciti a sostituire alcune delle antiquate strutture medievali aristocratiche con decenti “pseudo-democrazie”, con sistemi solo a mezza strada democratici, dove la gente comunque ha la possibilità di cominciare a pensare a se stessa non come comunità di sottoposti ma di cittadini.

I monarchi della Giordania e del Marocco, più giovani e dalle concezioni più moderne, sono riusciti ad evitare il conflitto sociale in campo aperto con l’introduzione di riforme, che hanno ridotto il potere della monarchia e progressivamente esteso le prerogative del parlamento. Anche se ben lontane dal costituire un fondamentale cambiamento politico, le misure cosmetiche hanno contribuito a mantenere saldo il controllo sociale.

 

Panico a Tel Aviv

 

È stato in Israele che sono emerse le risposte più allarmate per la “Primavera Araba”. L’establishment israeliano è stato colto completamente alla sprovvista dalla rivoluzione egiziana. Le formidabili agenzie di intelligence, a partire dal Mossad, sono venute meno nel prevedere l’improvviso slancio rivoluzionario, non perché non fossero consapevoli dello sviluppo delle tendenze di opposizione negli ultimi dieci anni, ma a causa della loro convinzione ideologica che gli Egiziani (che sono solo Arabi, dopo tutto!) non avrebbero costituito mai, non avrebbero potuto mai lanciare una sfida credibile al governo di Mubarak.

Rafforzando i loro pregiudizi, il loro impegno politico si era rivolto in favore del regime di Mubarak, che aveva fornito ad Israele un partner arabo affidabile nella lotta contro la causa palestinese, sia attraverso pressioni politiche su Fatah o addirittura mediante misure repressive contro Hamas.

Secondo Wikileaks, Mubarak non solo aveva passivamente tollerato nel 2008 la guerra di Israele contro Gaza, ma ne aveva sollecitato l’aggressione.

Ora Mubarak, il pilastro della stabilità di Israele nel mondo arabo, è stato rovesciato. E non finisce qui.

Israele teme che, se l’Egitto fa marcia indietro e non riconosce più gli accordi di pace di Camp David del 1978-79, la Giordania potrebbe seguirne l’esempio, abrogando il trattato di pace con Israele del 1994. E questo non è paranoia!

Come la rivoluzione egiziana ha prevalso e i manifestanti in Libia hanno sfidato il regime di Muammar Gheddafi, i dimostranti hanno riempito le strade di Amman, chiedendo un nuovo governo e l’introduzione di effettive riforme, al di là dei cambiamenti proposti dal re Abdallah II.

L’élite israeliana veniva fulminata. Le prime dichiarazioni rilasciate da parte del governo facevano eco a quelle degli Arabi detronizzati, evocando il fantasma dei fondamentalisti Fratelli Musulmani, estremisti pronti a prendere il potere.

D’altro canto, Tel Aviv implorava clemenza: si pregava il nuovo governo egiziano, qualunque esso fosse, di non rompere i precedenti trattati con Israele e, soprattutto, di non entrare in un rapporto di contrapposizione antagonista.

Le sollecite dichiarazioni dal Cairo da parte di dirigenti razionali e maturi nell’ambito dell’Alto Consiglio militare egiziano, con le assicurazioni che tutti gli obblighi internazionali sarebbero stati rispettati, fornivano sollievo ai nervosi politicanti di Tel Aviv. E le assicurazioni che le consegne di gas naturale, temporaneamente sospese, sarebbero riprese, allontanavano ancor più i timori di Israele.

Ma poi, nel mese di febbraio 2011, per la prima volta in 30 anni, l’Egitto consentiva all’Iran di inviare due navi da guerra attraverso il Canale di Suez, una mossa che infiammava i timori paranoici di Tel Aviv, che il nuovo regime del Cairo avrebbe potuto allearsi con l’Iran, acerrimo nemico di Israele.

Più in generale, gli Israeliani erano terrorizzati che gli Egiziani potessero abbandonare l’impegno di Mubarak rispetto alle clausole non scritte a Camp David in materia di sicurezza a Gaza. Soprattutto, temevano che la nuova leadership egiziana avrebbe instaurato rapporti con la fazione di Fatah e con Hamas su un piano di parità, e aprire la frontiera di Gaza. I leader israeliani temevano che, se avessero dovuto lanciare una nuova guerra contro i Palestinesi a Gaza o in Cisgiordania, l’Egitto, questa volta, non si sarebbe seduto in disparte a guardare.

 

La rivolta arriva in Israele-Palestina

 

Mentre i politici israeliani si stavano mangiando le unghie presi dall’ansia per una tale terribile eventualità, nessuno di loro metteva in conto la possibilità che un tale sviluppo, come stava spazzando il mondo arabo, poteva inghiottire anche Israele. Così come il Mossad, dalla fama di onnisciente servizio di intelligence israeliano, era stato colto completamente di sorpresa dalle rivolte in Tunisia ed Egitto, anche i dirigenti di Israele avevano sottovalutato o ignorato i segni di un crescente processo di simile fermentazione nella stessa Israele / Palestina.

In tutte le migliaia di editoriali di stampa sulla rivoluzione araba, ci sono stati pochi giornalisti eccezionali che hanno contemplato la possibilità che questo processo poteva spazzare anche la Palestina. Ciò deriva dal tacito presupposto non solo negli ambienti giornalistici, ma anche fra semplici cittadini della regione, che Israele è Israele, cioè uno Stato ebraico, e quindi, qualsiasi cosa che si definisca una rivoluzione araba non aveva la possibilità di avvenire qui.

Ma, in realtà, Israele/Palestina è araba …

Il primo passo significativo verso la rivoluzione in Israele-Palestina è stato mosso quando i rappresentanti della Gioventù palestinese da Gaza e dalla Cisgiordania si sono incontrati al Cairo il 3 marzo, con l’intenzione di sollecitare i leader di Fatah e Hamas a superare le loro ostilità e, nell’interesse di organizzare i Palestinesi per la creazione di uno Stato sovrano, a serrare i ranghi. Dopo gli incontri del Cairo, i giovani di Ramallah hanno organizzato una dimostrazione per l’unità palestinese, esibendo tutti la bandiera della Palestina. Il 15 marzo, i loro coetanei a Gaza hanno messo in atto una protesta simile, chiedendo ai leader di Fatah e Hamas di superare le loro insignificanti e a volte meschine differenze, e di delineare una strategia seria per uno Stato palestinese. Si stima che decine di migliaia di persone abbiano marciato attraverso la Striscia con cartelli su cui stava scritto “Fine delle divisioni!”

Nel mese di aprile, il leader di Hamas Haniyeh ha rivolto un invito ad Abbas a visitare Gaza per colloqui. Nel corso delle loro discussioni, i leader di Hamas e Fatah hanno letto una scritta sul muro: “o superare le divergenze politiche, e creare un fronte unito per uno Stato palestinese, o, come per Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania, venire contestati dalle masse palestinesi, e, come Ben Ali, Mubarak, Saleh, ecc., essere costretti a rinunciare al potere.”

Infatti, dopo la caduta di Mubarak, c’erano state in Cisgiordania molte dimostrazioni sicuramente di dimensioni più ridotte, ma che lanciavano slogan del tipo: “Mubarak oggi, Abbas domani!”

A Gaza, un sondaggio di metà marzo dimostrava che due terzi degli intervistati appoggiavano manifestazioni per il cambio di regime.

Le manifestazioni palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono state determinanti nel dare la sveglia alla leadership palestinese, sempre in preda alle divisioni, con l’ammonizione che, nella attuale congiuntura rivoluzionaria, questi dirigenti non potevano permettersi di sedersi ed aspettare.

Alla fine di aprile avevano trovato un accordo in 5 punti, che comprendeva un governo di unità ad interim, elezioni entro un anno, l’unione delle forze di sicurezza, e la liberazione dei prigionieri. Abu Mazen è sembrato prendere il toro per le corna il 18 luglio, quando ha annunciato che avrebbe presentato la dichiarazione di uno Stato palestinese al Consiglio di sicurezza dell’ONU, e, nel caso probabile di un veto degli Stati Uniti, avrebbe trasferito la questione all’Assemblea Generale.

Il progetto era quello di scatenare manifestazioni sul tema “Palestina 194”, per reclamare la presentazione della Palestina come lo Stato n.194 al momento della riunione generale delle Nazioni Unite.

E infatti, subito, il 20 settembre, nei Territori Occupati sono esplose dimostrazioni – perfino anche all’interno di Israele.

Il movimento di protesta in Israele, che aveva visto il suo inizio nel mese di luglio, era partito come un movimento per alloggi a prezzi accessibili, per migliori condizioni di vita, – insomma, per una “giustizia sociale” – comunque, i suoi leader esplicitamente evitavano di collegare questo processo al sostegno politico in favore della nascita di uno Stato palestinese.

Molti tra i giovani israeliani avevano temuto che allargando la protesta ad abbracciare la nascita di uno Stato palestinese, avrebbe alienato i partecipanti più conservatori. Ma avevano dovuto rendersi conto del fatto che ogni invocazione di “giustizia sociale” sarebbe risultata una beffa se non veniva compreso il problema della Palestina.

Mentre le dimostrazioni si sviluppavano, e tendopoli popolavano l’intero paese, partecipavano alle manifestazioni in numero crescente anche Arabi israeliani.

Alla fine di luglio, gli appelli per la giustizia sociale avevano lasciato il posto alla domanda di cambiamento di regime in Israele, quando i manifestanti esibivano cartelli con: “Bibi, vai a casa!” e “Vattene!” (in arabo) – tutti diretti contro Benjamin Netanyahu.

Il 30 luglio, si mobilitavano ben più di una dozzina di città, compresa Nazareth, dove Ebrei e Arabi marciavano insieme. Ai primi di agosto, i manifestanti raggiungevano il quarto di milione. Nonostante la “crisi di sicurezza” orchestrata dal governo Netanyahu in seguito all’uccisione, il 18 agosto, di 8 Israeliani vicino a Eilat, e i bombardamenti di rappresaglia di Israele su Gaza, le proteste in Israele non cessavano.

A metà agosto, migliaia marciavano a Tel Aviv per protestare contro l’alto costo della vita. Significativamente, anche qui, la solidarietà arabo-ebraica era un tema delle manifestazioni: “Gli Ebrei e gli Arabi rifiutano di essere nemici”, cantavano i dimostranti.

Le tante promesse di Netanyahu, che una sua “commissione” avrebbe riesaminato le questioni sociali, non avrebbero potuto arginare la protesta, che si è allargata culminando il 3 settembre nelle manifestazioni che hanno visto quasi mezzo milione in piazza. In un paese di 7,7 milioni di cittadini, questo costituiva una presenza di enormi dimensioni. Si stava assistendo alle più grandi dimostrazioni mai tenute in Israele. I manifestanti parlavano dell’evento come una “seconda giornata di indipendenza”.

Nel momento che la questione di uno Stato palestinese veniva portata davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, i due processi, quello dello Stato e quello della “giustizia sociale”, diventavano un tutt’uno.

Le proteste degli Israeliani contro i tagli al diritto alla casa, all’assistenza sanitaria, e ad altre infrastrutture sociali erano attacchi indiretti contro la politica di Netanyahu in favore di insediamenti espansionisti. I coloni, estremisti di destra, stavano godendo di sussidi e di strutture abitative moderne, mentre gli studenti a Tel Aviv non riuscivano a trovare un posto dove vivere. Nel frattempo il governo continuava ad autorizzare nuovi insediamenti in territorio palestinese, Gerusalemme Est compresa.

Le due questioni non potevano più essere tenute separate. Come programmato da parte della leadership palestinese, il 20 settembre avevano inizio le manifestazioni in appoggio al voto delle Nazioni Unite in tutta la Cisgiordania e Gaza, che venivano integrate con continue manifestazioni di protesta in Israele.

Così, sebbene il voto del Consiglio di sicurezza, come previsto, veniva sabotato dal veto degli Stati Uniti – un gesto che strappava al presidente Obama i suoi ultimi brandelli di credibilità – l’Assemblea generale delle Nazioni Unite esprimeva un voto ad enorme maggioranza in favore della nascita di uno Stato palestinese. Nel frattempo, i manifestanti in Israele-Palestina rappresentavano una realtà in campo.

Era lo “tsunami diplomatico” che Barak aveva temuto. Il 13 marzo, aveva avvertito che la data del 20 settembre si avvicinava, “ci troviamo ad affrontare uno tsunami diplomatico, di cui la maggioranza dell’opinione pubblica non se ne rende conto”, con riferimento al “movimento internazionale che può riconoscere uno Stato palestinese entro i confini del 1967.”

A Barak si erano uniti altri leader israeliani e i loro equivalenti negli Stati Uniti in una grande campagna diplomatica per estorcere ai membri delle Nazioni Unite l’impegno di non votare per uno Stato palestinese, ma senza alcun risultato.

Gli Stati Uniti si erano spinti fino a dar luogo ad un’iniziativa diplomatica alla fine di agosto nei confronti di oltre 70 paesi, chiedendo la loro opposizione alla dichiarazione dello Stato palestinese, per motivi che questo sarebbe stato destabilizzante della regione e avrebbe ostacolato il progresso del (ormai defunto da tempo) “processo di pace”.

L’establishment israeliano si dimostrava impotente di fronte a tale fenomeno. Non era il voto delle Nazioni Unite che di per sé creava la differenza – poiché il suo valore era ampiamente simbolico, anche se moralmente potente – ma la convergenza delle agitazioni sociali all’interno di Israele con le dimostrazioni dei Palestinesi nei Territori Occupati. Le Forze di Sicurezza di Israele potevano non esitare ad aprire il fuoco sui Palestinesi come in passato, ma non potevano fare lo stesso con i cittadini israeliani.

Anche affrontare una rivolta palestinese di per sé sola avrebbe ora presentato problemi. Ai primi di agosto, il Tenente generale Benny Gantz riferiva ad una commissione della Knesset che “esiste la possibilità di un confronto nel mese di settembre”, e ribadiva che l’esercito non avrebbe permesso ai manifestanti di marciare contro gli insediamenti. Ma Amos Gilad, capo del Dipartimento politico del Ministero della Difesa aveva ammesso, “Non siamo bravi a trattare con… Gandhi.”

Ora quello che hanno dovuto affrontare è stato ben più di questo: una sollevazione generale dei cittadini israeliani a fianco dei Palestinesi, e tutti chiedevano giustizia per tutti.

 

Miti israeliani e cecità della stampa

 

La rivoluzione in Israele-Palestina aveva colto di sorpresa molti analisti e giornalisti, soprattutto perché avevano ignorato la realtà sociale, politica ed economica del paese, mentre erano sempre disposti a bersi le prevalenti assunzioni sulle condizioni di vita in Israele.

Avevano trascurato le caratteristiche comuni tra le condizioni di vita in Israele e la vita in quelle nazioni arabe che ora erano squassate dalla rivolta.

Una ipotesi sbagliata di questo tipo, ritenuta come universale, era che Israele fosse una democrazia, anzi l’unica democrazia nella regione.

I commenti del portavoce del primo ministro, Mark Regev, dopo le massicce proteste del 30 luglio erano del tutto risibili: affermava di pensare che i manifestanti “non chiedevano riforme democratiche, perché sanno che noi viviamo in una società democratica.”

Quale società democratica!? Pochi avevano sollevato la questione, come si può avere una democrazia quando non si possiede una Costituzione? Sicuramente una Costituzione è necessaria, più che avere elezioni periodiche, condotte tra una collezione di partiti che possono presentare differenze, ma di facciata, però che tutti accettano lo status quo.

Un’altra questione che non è stata sollevata in precedenza: come si può avere una democrazia, quando è in vigore la legge marziale?

Non siamo in presenza di una democrazia, ma di un’oligarchia che governa Israele, come i manifestanti a poco a poco sono arrivati a realizzare. Esaminando la struttura del potere economico e finanziario del paese, hanno denunciato l’esistenza di una ridotta élite, costituita da una decina di famiglie potenti che hanno tenuto sotto controllo la ricchezza della nazione.

Un altro fattore sociale che Israele aveva in comune con le dittature arabe era l’esistenza di una classe dirigente invecchiata e corrotta. Anche se non rappresentata da una dinastia, questa élite israeliana si è configurata in una dinastia collettiva guidata da figure come Shimon Peres e Ariel Sharon (anche se attualmente del tutto inabile), che hanno detenuto il potere per decenni.

E la corruzione era diffusa: visti gli scandali sessuali, come quello che ha colpito l’ex presidente Katsav, che è stato incarcerato per stupro, o la corruzione finanziaria, come nel caso di Ehud Olmert o del presidente Ezer Weizman, per non parlare dei rapporti sporchi di Ariel Sharon e dei suoi figli, l’élite israeliana non può dirsi diffrente dalle sue corrispondenti in Egitto o in Tunisia. E non parliamo delle accuse di abusi continui inflitti dalla moglie di Netanyahu, Sara, contro i domestici.

Così, la rivoluzione in Israele-Palestina non avrebbe dovuto sorprendere nessuno. Erano solo i paraocchi ideologici che impedivano all’opinione pubblica mondiale di vedere ciò che stava sviluppandosi in Israele-Palestina, come parte del processo della Primavera araba.

 

Fantasia o Realtà?

 

Da tanto tempo ho sempre sostenuto la tesi per cui, se deve avvenire un qualche progresso nelle relazioni arabo-israeliane, deve esplodere in Israele una crisi decisiva, una crisi dalle dimensioni morali, politiche ed esistenziali, che costringa l’élite e la popolazione in generale a ripensare a tutti i loro assunti di base, – di come Israele ha iniziato ad esistere, quale è stato il rapporto con il popolo palestinese fin dal 1948, come la sua ragion d’essere come nazione dovrebbe essere giustificabile per pretendere di avere legittimità.

La crisi è ormai a portata di mano, e deve essere accolta come un fenomeno, il più salubre – non importa cosa potrà emergere alla fine del processo.

 

Muriel Mirak-Weissbach collabora costantemente con Global Research.

 

L’autrice può essere contattata a mirak.weissbach@googlemail.com e www.mirak-weissbach.de

 

Biografia: Muriel Mirak-Weissbach è una cittadina statunitense di origine armena, cresciuta nel New England. Ha frequentato scuole pubbliche locali in Massachusetts prima di studiare al Wellesley College, dove ha conseguito un “Bachelor of Arts”, un diploma di laurea in letteratura inglese nel 1965. Al college, ha sviluppato un intenso interesse per la lingua e la letteratura italiana, e ha vinto una borsa di studio “Fulbright” per l’Italia nel 1966.

La borsa di studio era per un anno, ma Muriel ha finito per restare in Italia per 15 anni, affascinata dalla lingua, dalla gente italiana, e dal suo ricco patrimonio culturale. Nel 1971, ha preso una laurea in letteratura inglese presso l’Università di Milano, ed ha intrapreso la carriera di insegnante presso quell’università e alla Università Bocconi di Milano. Lavorare e studiare in Italia alla fine degli anni ‘60 e nei primi anni ‘70 l’hanno portata a contatto con i fermenti politici che stavano interessando le università. Ha preso parte attiva agli sforzi internazionali verso riforme economiche e sociali, e, nel 1980, ha abbandonato la vita accademica per concentrarsi sulla politica.

Negli anni successivi, in qualità di giornalista, ha focalizzato i suoi interessi principalmente sugli sviluppi politici, economici e culturali nel mondo arabo e islamico. Ha visitato molti paesi della regione, ed ha presentato relazioni sulla politica di sviluppo economico e sul dialogo culturale a conferenze e seminari in Giordania, Egitto, Iraq, Sudan, Turchia, Turkmenistan, Kazakistan, Pakistan, Malesia, Yemen, e Repubblica Islamica di Iran.

Dopo la guerra del 1991 contro l’Iraq, ha guidato un movimento di aiuti umanitari (il Comitato “Save the Children” – Salviamo i bambini, in Iraq), che ha interessato la collaborazione con le figure politiche più importanti in Iraq, Giordania, Palestina, e Nazioni Unite nei successivi dieci anni.

Ha collaborato con un settimanale statunitense per molti anni e ha pubblicato centinaia di articoli anche in altre riviste politiche e culturali, su temi relativi alla politica di sviluppo, al dialogo tra Cristianesimo e Islam, e agli eventi politici nel mondo arabo e islamico. Nel corso degli ultimi anni, ha scritto articoli sul programma nucleare iraniano e diffuso interviste su questo tema con funzionari iraniani, sul conflitto israelo-palestinese, e sulle relazioni armeno-turche.

Dal 2007, è diventata collaboratrice regolare alla pubblicazione on-line www.globalresearch.ca, così come ad una rivista tedesca, “Arab Forum”.

L’incanto di tutta una vita per le lingue e la letteratura, in particolare per la poetica italiana, in combinazione con la sua ammirazione per la cultura araba, l’ha condotta ad analizzare il contributo della civiltà islamica (in Andalusia) al Rinascimento italiano, e nelle opere di Dante Alighieri, il suo poeta preferito. Ha completato il lavoro sugli effetti della poesia persiana in Germania, soprattutto attraverso le traduzioni di Friedrich Rückert, ha catalizzato l’impulso per le attività culturali insieme a una cerchia di appassionati di poesia (Dichterpflänzchen) volto a promuovere un dialogo tra culture diverse. Altri studi storico-filologici comprendono attività sulla decifrazione dell’antico persiano cuneiforme e di geroglifici egizi, così come gli studi teorici sull’origine e la natura del linguaggio.

Alla fine del 2009, ha pubblicato un libro in Germania, intitolatoThrough the Wall of Fire, Armenia – Iraq – Palestine: From Wrath to Reconciliation,- Attraverso il Muro del Fuoco, Armenia – Iraq – Palestina: dall’ira della riconciliazione, (edizioni Fischer, ISBN 978-3-89950-498-9), una riflessione sulla storia della sua famiglia, e su come questa storia abbia condizionato e forgiato il suo lavoro umanitario e politico in Iraq e in Palestina.

Attualmente, Mirak-Weissbach sta collaborando con diverse organizzazioni politiche e culturali in Germania, ed è impegnata nel dialogo che mira alla riconciliazione tra i popoli un tempo in conflitto. Primi fra tutti il dialogo arabo-israeliano e il dialogo tra Turchi, Armeni, Curdi, e Tedeschi.

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