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Contro l’arroganza del denaro, contro le pretese dei governi

Questa pressione, tuttavia, non è specificamente rivolta contro l’Italia, bensì contro l’insieme dei paesi europei, individuati da buona parte degli investitori istituzionali (fondi comuni di investimento, grandi banche, fondi sovrani, grandi compagnie di assicurazione) come il ventre molle del complesso dei sistemi-paese. Gli investitori istituzionali muovono la maggioranza dei singoli segmenti di capitale, i quali, dopo la crisi del 2008, che ha sbarrato loro l’ipoteca del futuro come principale via di remunerazione (questi erano e sono i cosiddetti “derivati”: null’altro che investimenti sulla crescita degli anni a venire, sotto forma di mutui, contratti di assicurazione, ecc.), adesso si aggirano famelici, con l’acqua alla gola, per spuntare immediatamente di più ovunque possibile. Il loro tentativo, certamente velleitario sul piano storico, è di ridisegnare in maniera più favorevole il rapporto tra il loro valore, come denaro concentrato, e il valore dei sistemi-paesi, come capacità produttiva. L’Europa entra nel mirino proprio perché si presenta con il piombo nelle ali di una pluralità di Stati rappresentati da una moneta unica. Uno Stato che non disponga liberamente della propria moneta combatte, per così dire, con almeno un braccio legato dietro la schiena; e, di converso, una moneta che rappresenta Stati diversi, quanto a capacità e mobilitazione produttiva, offre enormemente il fianco alle pretese del denaro concentrato. L’Italia, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, ma domani anche la Francia e dopodomani anche la Germania, viene aggredita oggi perché la sua condizione strutturale di alto debito e la necessità di rifinanziarlo la portano periodicamente a contatto immediato con le pressioni del denaro.

Ma negli ultimi mesi, e in maniera accelerata nelle ultime settimane, si è scaricata sul nostro paese anche una seconda pressione: quella delle istituzioni europee, a partire dalla Banca centrale e dalle cancellerie di Francia e Germania. L’obiettivo dei loro diktat non è dello stesso segno di quello dei mercati, poiché non si propongono di indebolire il sistema-Italia, sul piano dei valori di mercato. Si tratta, piuttosto, di un “richiamo” a rientrare rapidamente nei ranghi del “sistema-Europa”, sulla base di una strategia di contenimento della pressione dei mercati incentrata sulla diminuzione dei debiti sovrani, e perciò sulla minore necessità di ricorrere all’emissione di titoli e al finanziamento degli investitori istituzionali. Insomma, è come se lo stato maggiore di un esercito coalizzato, non fidandosi della tenuta delle truppe di alcuni alleati, intervenga direttamente a dare disposizioni sulle modalità dello schieramento e finanche a cambiare i comandanti.

Il Partito democratico si è dichiarato immediatamente d’accordo con queste “sollecitazioni” europee, e la gran parte del quadro politico, bloccati i tentativi di resistenza di Berlusconi e Tremonti, e le loro inconsistenti ambizioni di negoziare la strategia alla pari con Francia e Germania, si avvia a varare un esecutivo più allineato proprio con Bce, Francia e Germania. Ma è davvero inevitabile che, per resistere alla pressione dei mercati, si debba fare come dicono i comandanti in capo dell’Europa? Io credo che, come sinistra di alternativa, dobbiamo saper rispondere con precisione a questo interrogativo, che c’è anche nella testa dei lavoratori; e dobbiamo dire che un’altra strada è davvero possibile, chiarendo però in partenza, a noi stessi, ma anche a tutti gli altri, che essa presuppone una modifica importante dei rapporti di forza tra le classi sociali. La strategia europea di contenimento dei mercati si muove infatti sul presupposto che l’assetto sociale debba restare inalterato, ovvero che debbano rimanere così come sono adesso i concreti rapporti di potere e le percentuali di ricchezza di cui dispongono, da un lato, le classi possidenti e, dall’altro, le classi popolari. La strategia che invece dovremmo saper proporre noi all’insieme delle classi popolari italiane, ma anche europee, non può che incentrarsi sulla rottura del tabù del debito. Si può, infatti, non pagare il debito: per esempio, modificando la scadenza dei bond, in particolare quelli contrattati all’estero, e congelandola per un anno o due; si può, inoltre, convertire una parte dei depositi in debito forzoso, e cioè trasformarlo per legge in buoni del tesoro a un tasso di rendimento significativamente più basso di quello oggi presente sul mercato. E se poi a queste misure si aggiungono alcune regole di trasparenza nelle transazioni di borsa, a partire dal divieto della vendita allo scoperto, misure che peraltro esistono già in molti paesi del mondo, si avrebbe una situazione che penalizzerebbe certamente i possessori del denaro, ma metterebbe assolutamente in sicurezza lo Stato, aprendo a una nuova stagione di investimenti pubblici a sostegno dell’occupazione e per uno sviluppo ecocompatibile, a misura di essere umano. Se poi arriviamo anche ad una imposta sugli alti patrimoni, diventa davvero possibile una ben diversa gestione di questa fase politica ed economica.

Si dirà: ma congelando il debito si opera un default, un fallimento sostanziale. Dal punto di vista dei creditori, cioè di quelli che detengono il debito italiano, le cose sarebbero effettivamente così. Ma è successo tante volte nella storia e non c’è neppure una particolare immoralità a farlo di nuovo, perché la crescita abnorme del denaro sul piano quantitativo ha già prodotto un taglio reale del suo valore effettivo. In fondo, non si penalizzerebbe nessuno, ma si svelerebbe semplicemente una finzione, riportando il denaro al valore che può realmente avere rispetto al lavoro e ai macchinari. E la nonnina di Voghera o di Canicattì, che pure possiede qualche decina di migliaia di euro in BOT, perderebbe ben poco perché, a fronte della impossibilità di una riconversione immediata del proprio danaro, avrebbe servizi pubblici e una previdenza e una assistenza più reali ed efficaci.

Ma come potrebbe camminare una strategia di questo tipo? Con la pratica degli incontri tra i partiti e con un dibattito tutto dentro il ceto politico? o piuttosto diventando materia di discussione nella società intesa in senso ampio? Io penso ad una discussione nelle piazze, costruita attraverso i cortei e soprattutto i sit in, con uno stazionamento di popolo che metta visibilmente in campo un’altra impostazione e un’altra forza. Sono giornate decisive queste: le classi proprietarie stanno costruendo il loro nuovo governo; occorre rispondere con una presenza costante nelle principali città, raccogliendo attorno alle “tende dell’indignazione” tutto il conflitto che ancora c’è sul lavoro, sui beni comuni, sui servizi, sull’ambiente, e riannodandolo ad una strategia generale che metta gli uomini e le donne al primo posto e faccia fare un passo indietro all’arroganza del denaro e dei governi.

da “Liberazione”

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