Menu

Vertice di Durban, obiettivo: non decidere nulla

Come ogni anno ormai da 17, con una ritualità ormai, se mai ne ha avuto, svuotata di senso, si sta svolgendo in questi giorni a Durban, in Sudafrica, la diciassettesima Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, detta più comunemente Conferenza delle Parti o COP17. L’avevamo lasciata un anno fa a Cancun, nel dicembre dello scorso anno, con un sostanziale nulla di fatto rispetto ai temi in discussione, o ancor meglio con una vittoria transitoria degli USA e dell’UE che con il non decidere nulla hanno di fatto ottenuto il risultato da loro sperato, come era già avvenuto nel 2009 a Copenaghen.

Infatti l’accordo uscito da Cancun lo scorso anno è stato decisamente al ribasso, sostanzialmente non decidendo nulla di concreto e vincolante, anzi determinando una situazione di maggior dominio del Modo di Produzione Capitalista nel tentativo di uscire dalla sua crisi. Nelle sue 32 pagine infatti, l’accordo di Cancun, sostanzialmente faceva una generica dichiarazione secondo cui il protocollo di Kyoto doveva continuare dopo la sua scadenza del 2012. Si indicava la necessità di “azioni urgenti” per evitare l’innalzamento delle temperature di due gradi, ma senza individuare obiettivi precisi e vincolanti delle riduzione di gas serra. Il testo si limitava ad esortare i paesi ad “aumentare le proprie ambizioni” e si chiedeva agli scienziati (quali scienziati?) di verificare se si doveva abbassare l’obiettivo sulle temperature ad 1,5 gradi. Si parlava della necessità di impegnare subito 30 miliardi di dollari per il periodo 2010-2013 e successivamente di mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno, fino al 2020, in favore dei paesi in via di sviluppo che sarebbero serviti per aiutarli ad ottenere tecnologie di energia pulita per tagliare le proprie emissioni di gas serra. Questo attraverso un nuovo organismo internazionale chiamato Green Climate Fund. Necessità e non certezza, mobilitare e non stanziare, ma sopratutto senza precisare da dove si sarebbero reperiti quei fondi e chi li avrebbe gestiti.

Insomma il capitalismo mondiale aveva imposto con ancora maggiore forza la continuazione della sussunzione della natura e l’esclusione dei paesi in via di sviluppo da qualunque decisione.

Quest’anno i temi in discussione sono sostanzialmente gli stessi dello scorso anno: il futuro del Protocollo di Kyoto, impegni vincolanti rispetto ai cambiamenti climatici e alle emissioni di CO2, impegni finanziari del “Green Climate Fund” e sul come reperire questi fondi e sul come gestirli.

Già oggi la temperatura media della Terra è aumentata ci circa 1 grado negli ultimi 50 anni, e si prevede che salirà ancora di 2/3 gradi nei prossimi 50, le emissioni di CO2 mondiale è passata da circa 3 tonnellate pro capite a circa 5 tonnellate negli ultimi 50 anni (in Italia da 2 tonnellate a 8 tonnellate), toccando gli attuali 390 parti per milione e si prevede che arriverà a 450 prima del 2020, dovrebbe restare sotto i 350 per limitare l’aumento della temperatura sotto i 2 gradi. Il consumo di energia procapite a livello mondiale è passato da poco più di 1.000 kg di petrolio equivalente a 2.000 in 40 anni, c’è stata una perdita di superficie forestale negli ultimi 20 anni di circa 130 milioni di ettari, siamo nella fase di picco mondiale dell’estrazione del petrolio.

Il decennio appena trascorso, dice l’Organizzazione Meteorologica Mondiale dell’ONU e stato il più caldo dal 1850, con un valore massimo tra maggio 2010 e maggio 2011, nel periodo gennaio-ottobre 2011 la temperatura media è stata di circa 0,5 gradi superiore rispetto ai 14 gradi di media nel periodo 1961-1990, collocando il 2011 al decimo posto tra gli anni più caldi da un secolo e mezzo in qua.

Gli effetti dei cambiamenti climatici riguardano soprattutto i cosiddetti paesi in via di sviluppo, modificando ad esempio la produzione di alimenti. Si prevede che i soli effetti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura, sia del punto di vista della produzione ma anche da quello dell’aumento dei prezzi degli alimenti, potrebbero far crescere, entro il 2050, del 20% il numero dei malnutriti. I disastri naturali dovuti ai cambiamenti climatici, soprattutto siccità, uragani e alluvioni, solo nel 2010 hanno colpito circa 300 milioni di persone soprattutto nei paesi più poveri e nel decennio scorso hanno prodotto oltre 700 mila morti.

I paesi con maggiore produzione annua procapite (è questo il dato scientificamente significativo e non quello assoluto di ogni paese) di CO2 rimangono gli Stati Uniti e l’Australia con circa 20 tonnellate annue a persona, seguite dal Canada con circa 19, Arabia Saudita circa 15, il Giappone attorno ai 10. L’Unione Europea ha una media che si attesta sulle 8 tonnellate annue pro capite, con punte di alcuni paesi che superano le 10 tonnellate, l’Italia è nella media con 8,2. La Cina ne emette ogni anno circa 5 tonnellate pro capite, il Brasile 3 e l’India 1,2. Il Venezuela, il più alto dell’America Latina, circa 6 tonnellate pro capite, l’Algeria, il più alto del Nord Africa, circa 4, la Nigeria, il più alto dell’Africa (se si esclude il Sudafrica con 9) ne produce 0,6 tonnellate annue pro capite.

Questi sono i dati scientifici che danno il quadro della situazione ambientale del Pianeta e delle responsabilità attuali, e delle “responsabilità storiche” come giustamente sottolineano i paesi in via di sviluppo, della crisi climatica.

Chi vuole giustificare la non soluzione dei problemi ambientali, e primo fra tutti quello climatico, adducendo la motivazione della scarsità di risorse economiche dovute alla crisi o che quest’ultima è prioritaria e quindi il resto può passare in secondo piano, compreso l’infarto ecologico, sa bene che sta esponendo argomentazioni pretestuose.

All’attuale crisi economica si accompagna una drammatica crisi ecologica, rendendola imparagonabile a tutte le altre del passato.

La crisi economica e la crisi ecologica sono due facce della stessa medaglia, anzi forse la stessa faccia della stessa medaglia, perché una dipendente dall’altra. Una crisi ecologica dalla quale lo stesso sistema capitalista non potrà uscire, perché i mezzi a sua disposizione non lo prevedono, anzi più tenterà di uscire dalla crisi economica e più dovrà necessariamente aggravare la crisi ecologica.

La competizione globale tra i poli imperialisti USA e UE, e la competizione interna alla stessa Unione Europea, richiedono necessariamente l’annullamento di qualunque limite, compreso quello derivante da vincoli di tipo ambientale, soprattutto relativamente ad un intervento sulle emissioni di CO2 che metterebbe in discussione l’attuale modello di sviluppo economico. Una competizione che negli ultimi anni deve tenere conto anche dell’accelerazione nella crescita di paesi come Brasile, India, Cina, Sud Africa. Crescite che cominciano a destare preoccupazione ai competitori, vedendo questi paesi come dei possibili, se non già attuali, ulteriori.

La chiave di lettura dei fallimenti delle Conferenze degli anni passati, come il fallimento presumibile di quella di quest’anno, sta tutta in questo quadro.

La crisi di accumulazione capitalista, il vero motivo dell’attuale crisi economica, non ha via d’uscita, perché trova la sua ovvia difficoltà a riattivare un nuovo profittevole meccanismo di accumulazione, mettendo in seria discussione lo stesso modo di produzione capitalistico.

Chi auspica la diffusione dell’economia e della tecnologia “verde” come soluzione ai problemi ambientali lo fa di fatto, come nel caso del neo Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, auspicando la riattivazione, attraverso questa, dei processi di accumulazione capitalista. Lo ha sintetizzato molto bene un articolo di Massimo Gaggi sul Corriere della Sera di mercoledì scorso che, perorando questa causa, in un passaggio del suo articolo scrive: “…non resta che sperare nell’innovazione tecnologica e nella capacità delle industrie di trasformare le energie rinnovabili in un formidabile business”.

Non ci si illuda quindi che Durban possa attivare alcun effetto positivo su un possibile prolungamento del Protocollo di Kyoto, dopo la sua scadenza a dicembre 2012. Gli Usa non lo hanno mai sottoscritto, molti, quasi tutti, dei paesi che lo hanno fatto non lo hanno rispettato, ora praticamente non lo vuole più nessuno. Un protocollo che, anche con i suoi limiti e le sue storture, ha posto dei vincoli agli attuali modelli di sviluppo, cosa che ora nessuno dei paesi in competizione può più permettersi. Neanche l’Unione Europea che, anche se verbalmente lo auspica, è sicura e ben felice che questo non avverrà mai. Come non ci sarà nessun altro accordo vincolante rispetto ai cambiamenti climatici e alle emissioni di CO2.

E’ invece assolutamente prevedibile che gli accordi riguarderanno esclusivamente il “Green Climate Fund”, che sarà pagato dalla spesa pubblica dei paesi industrializzati, che sarà gestito dalla Banca Mondiale, che aumenterà il debito dei paesi in via di sviluppo e quelli della periferia produttiva interna all’UE, che sarà lo strumento degli affari delle imprese occidentali dei paesi forti, in quella che molti, sia a destra che a sinistra, anche nel nostro paese, indicano come la panacea della green economy.

Il vertice finirà il 9 dicembre e gli ultimi tre giorni saranno quelli decisivi, dove saranno presenti i capi di stato o i loro delegati governativi. Tre giorni di diplomazia inutile, per un vertice dove il non decidere nulla di reale sui cambiamenti climatici sarà il loro obiettivo.

*Commissione Ambiente della Rete dei Comunisti

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *