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Tav, Tir, forconi. Il governo d’unità nazionale di fronte al problema dell’uso della forza

Il procuratore capo Giancarlo Caselli ha provato a rappresentare l’operazione di polizia ai danni del movimento no-tav come una sorta di provvedimento neutro che non criminalizza la protesta. Al netto del gergo da magistrato, e della cura che storicamente Caselli adopera nell’uso di un linguaggio orecchiabile verso l’opinione pubblica di centrosinistra, ci sono dei segnali da cogliere in questo genere di operazione di marketing.

Il primo è tutto legato al contesto della lotta per la tav. E’ il consueto (stavolta vano) tentativo di spaccare, dopo una serie di provvedimenti giudiziari, un movimento e di impedire che la solidarietà nei confronti degli arrestati rafforzi la protesta contro un mostro di acciaio e cemento legittimato solo dai fatturati che può generare. E’ una premura, nell’uso del linguaggio da parte di Caselli, che è marketing giudiziario che deve andare, in ultima istanza, tutto a vantaggio delle cooperative del Pd e delle grandi ditte appaltatrici che temono l’impantanarsi del progetto. Quando si dice che la magistratura non è autonoma dalla mistica delle grandi opere e dei loro flussi di finanziamento: Caselli parla in termini diplomatici, non solo per salvaguardare l’autonomia del giuridico nella lotta politica (stavolta il Pdl non protesterà) ma per neutralizzare l’opinione pubblica, riducendo così il rischio di impresa nella tentata attivazione di 22 miliardi. Il secondo segnale, nel linguaggio di Caselli, è tutto rivolto al contesto nazionale dell’ordine pubblico. Che è tutt’altro che pacifico con rischi di pericolosa precipitazione per la tenuta del governo di unità nazionale.
Si tratta di un tipo di governo che in questo paese abbiamo già visto: il governo Andreotti ‘76-79 con il decisivo appoggio esterno del Pci e con Napolitano capo delegazione del partito guidato da Berlinguer per i rapporti con l’esecutivo. A differenza di allora, al netto quindi di Napolitano, il governo di unità nazionale ha però solo l’appoggio della propaganda dei media generalisti e il voto in parlamento. Manca cioè di quell’appoggio infrastrutturale, organizzazione dei partiti come dei sindacati e del mondo delle associazioni, in grado di fare tessuto connettivo con la società governando le frizioni più gravi con quei settori sociali strategicamente condannati dalle politiche di una grande coalizione. In poche parole, non c’è nessuno sul campo, dove si esercitano i conflitti più acuti, a difendere il governo e a prendere le sue parti. Sul campo ci sono solo i giornalisti e le volanti. Di fronte ad un’assenza così grave di consenso diffuso, ed organizzato, nei confronti di un governo che carica a testa bassa settori interi di società non bastano quindi i sondaggi e la spettacolarizzazione degli indici di gradimento del presidente del consiglio.
Manca, come allora, un Luciano Lama che si immola sulla piazza, una Cgil che fa una svolta dell’Eur, abbandonando progressivamente la difesa del salario, per prendersi in carico la difesa del capitalismo in Italia. La Camusso che ruggisce contro gli autotrasportatori a giorni alternati è solo un eco lontanissimo ai caselli autostradali occupati, nelle pagine dei giornali e figuriamoci sui social network. L’ordine pubblico in questi casi, come Caselli sa, non può essere gestito con gli squilli di tromba ordinati dal questore prima delle cariche. Non c’è consenso verso il governo, non c’è strutturazione della società civile che gli sia favorevole, c’è una società frammentata che però può coalizzarsi contro l’esecutivo in caso di repressione spettacolare. Non a caso fino ad adesso sia in Sicilia che verso gli autotrasportatori si è proceduto con una certa cautela. Persino gli incidenti tra polizia e pescatori davanti a Montecitorio, per quanto non siano mancate le manganellate contro persone che erano a mani nude, rientrano dal punto di vista del Viminale entro la logica della gestione cautelare delle proteste.
Perché problema vero è che il combinato dei decreti Monti, e di enormi problemi sociali che si sono sedimentati nel corso degli ultimi anni, non provoca tanto la protesta delle “corporazioni” (fa veramente presto il capitalismo a rappresentare come medievale ogni categoria che gli si oppone con il lessico delle “corporazioni” e dei “privilegi”) ma la reazione di qualsiasi componente organizzata nella società o comunque semplicemente dotata di un‘opinione sul mondo. E si tratta di una reazione frutto di una sovrapposizione, come abbiamo visto in Sicilia, tra aggregati sociali e politici molto diversi. L’utopia delle “riforme” del liberismo, importata in Italia per via europea e con zelo coloniale, vorrebbe una società formata da imprese che “concorrono” e da individui che si adattano positivamente. Giusto Herbert Spencer nell’ottocento poteva pensare esistenza e funzionalità sociale di una simile empatia tra mercato, norma e società. Dietro i decreti Monti, che scompongono reddito e forme di vita, c’è un genere di reazione anche scoordinata, di settori di società anche diversi tra loro, che se permane può portare ad una ingovernabilità di fatto. Senza strutture sociali d’appoggio convinto al governo , come durante l’unità nazionale degli anni settanta, la società può avvitarsi in una dinamica centrifuga ingovernabile nonostante i moniti di Napolitano. E con l’ingovernabilità elevata non si fanno profitti. Come sanno le aziende in crisi a causa del blocco dei trasporti. Quindi, come sanno Caselli e la ministro Cancellieri, è il caso di frasi e comportamenti misurati per non alimentare il mostro. Perché l’eventuale ingovernabilità di un paese, una volta scatenata, non la si neutralizza con i sondaggi e neanche con uno spettacolo a settimana di una catastrofe come quello della Costa Concordia. Nel frattempo però alla ministro degli interni è arrivata una telefonata dall’Ue, riportata dalle agenzie. L’Ue, come si nota, parla direttamente al ministro degli interni e non al presidente del consiglio. Chiede il ripristino immediato dell’ordine in materia di trasporti. Vedremo se prevarrà la prudenza dei Caselli e delle Cancellieri o la necessità di mettersi sull’attenti in nome dell’ “Europa”. In quel caso il neoliberismo italiano non avrebbe altre soluzioni che ripescare le politiche del vecchio liberalismo politico dei governi Rudinì e Pelloux: prima contenere, anche ferocemente, le masse poi si vedrà. Nel caso, appunto, auguri: l’Italia dell’inizio del XXI secolo non è comunque quella della fine del XIX. Ma queste sono cose che il linguaggio ufficiale della politica italiana non conosce. E’ troppo intento a disseminare concetti di “liberale” e “liberalizzazioni” come il classico inquinatore indifferente all’impatto dei propri prodotti. Ma se il tempo volge al brutto stabile, e le condizioni ci sono, anche il mainstream politico e mediale potrebbe accorgersi che non sono più i tempi né del giovane né del vecchio Benedetto Croce. E un risveglio che prevede che il mantra delle “liberalizzazioni” sia ridotto al rango di rito inefficace potrebbe rivelarsi particolarmente traumatico, per chi crede a questo genere di magia nera.

* Senza Soste 

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