La decisione di seguire la via dei tedeschi e dei francesi e di costruire anche in Italia un treno ad alta velocità è stata presa più di trentacinque anni fa. In particolare, credo di aver sentito parlare di Corridoio 5 – la connessione ad alta velocità dall’Austria, più tardi dall’Ucraina, che allora era Unione sovietica, al Portogallo, attraverso la Valle padana e le Alpi – in una comunicazione alla città di Torino, a metà degli anni ’70, al Carignano, dall’allora senatore democristiano Umberto Agnelli. Nella stessa occasione, o in circostanze simili, venne comunicato che la Volkswagen era in gravi difficoltà; che si apriva la possibilità di vendere milioni di auto in più in Europa per le aziende concorrenti; che la Fiat certo avrebbe conquistato una parte della nuova fetta di mercato. Il Corridoio 5 era una ulteriore possibilità di espansione, per la vendita di materiale ferroviario e per il miglioramento del servizio.
Poi, come si sa, le cose, viste da Torino, non sono andate per il verso giusto. La Volkswagen superò le sue difficoltà; la Fiat è affondata nelle sue. Il treno ad alta velocità è stato realizzato da Napoli a Torino, scardinando la rete ferroviaria italiana, anziché migliorarla. Il Corridoio 5 è ancora lì, ben lontano dalla realizzazione, ad ingombrare lo spazio politico del paese.
L’alta velocità e la rete.
Il sistema dei trasporti, su gomma, su ferro, per aria, è una rete complessiva. Non se ne può prendere un pezzo e ingigantirlo perché su quello si guadagna, lasciando che il resto si arrangi, senza peggiorare il sistema complessivo. La velocità di una rete, per chi la usa, è quella media, dal suo punto di partenza al suo punto di arrivo, non la velocità massima, raggiunta in un tratto, per percorrere il quale può essere costretto ad allungare di molto il percorso, perché non ha alternative. Le cose peggiorano se il tratto veloce costa molto di più, perché se su quel tratto il gestore ci guadagna di più lo fa a spese dell’utente.
Non sono mancate in Italia discussioni complessive e interventi di ottimo livello sulla rete, in particolare su quella ferroviaria, e sui suoi limiti. Per il trasporto passeggeri e per il trasporto merci. Si può citare un professionista della logistica come Sergio Bologna; ma anche la discussione, diciamo così, ufficiale, che, all’inizio, ha affrontato il problema nel suo complesso. Una traccia delle discussioni di allora la si può trovare sul sito di “Una città” – www.unacitta.info – nell’intervista ad Alessandra Zendron, che ha svolto in passato funzioni importanti in materia.
L’Italia ha una orografia complicata ed è estremamente policentrica. Le città sono molte; e molte non son in pianura. Perciò non si può pensare di avere una percentuale di trasporto su ferro, per le persone, ed ancora di più per le merci, analoga a quella tedesca o francese. Per le merci, nelle aree industriali, col just in time, nelle emergenze, i pezzi da un’azienda all’altra viaggiano per forza su gomma. Ma più di quello che si fa adesso si potrebbe fare. Il sistema dei treni intercity, che congiungevano le città, consentendo scambi tra le varie direttrici, era particolarmente adatto a costruire una rete policentrica, ed è affondato per i ritardi, non perché fosse sbagliato.
Soprattutto nelle zone di pianura e tra i centri maggiori, costruire una ferrovia veloce, che svolgesse le funzioni di un’autostrada rispetto alla viabilità ordinaria, aveva ed ha senso. Anziché costringere le merci e i passeggeri ad attraversare tutte le città, si guadagna tempo, energia e soldi connettendo i centri a una ferrovia veloce e/o ad alta capacità che raccolga merci e passeggeri e li smisti verso i centri maggiori. Esiste anche la dimostrazione della convenienza; è il teorema dell’autostrada, di von Neumann. Naturalmente, non tutte le configurazioni geografiche, demografiche, urbanistiche si prestano a costruire autostrade, o ferrovie che ne svolgano la funzione. Ci sono aree urbane molto dense da attraversare – si pensi alle controversie, alle spese, alla scomodità e reciproca incomunicabilità delle stazioni di Firenze. A Rifredi ti scaricano nel nulla, senza connessioni con il centro, né su gomma né su rotaia – se non hai molta fortuna con la connessione per Santa Maria Novella. E preferisco non pensare all’attraversamento in galleria, di cui si parla, con quello che c’è di costruito sopra. A Milano, salvo alcuni pochi treni passanti, sei sempre a correre in metropolitana da una stazione all’altra. Per non parlare dei disastri ambientali del tunnel sotto l’Appennino.
Quello che è accaduto è che la realizzazione dell’opera in sé, del Tav (delle gallerie, delle massicciate, del materiale rotabile, degli impianti elettrici, delle stazioni) – appalti e subappalti su cui le imprese del settore guadagnano – ha prevalso sul fine di migliorare il servizio.
Il primato dell’opera
Non accade solo per il Treno ad alta velocità. Quando per una catastrofe, per una emergenza, per l’esistenza o la creazione di una strozzatura, una grande opera viene decisa e si prospetta l’arrivo di molti soldi, le lobbies, che in Italia non sono ufficiali e regolate e perciò sono più potenti che negli Stati Uniti, si precipitano ad impadronirsi delle leve di comando, a organizzare cordate, scrivere leggi e regolamenti, determinare tutte le caratteristiche pratiche del progetto o dei progetti. Si pensi al calcolo dei pedaggi autostradali e al prezzo delle concessioni; al terremoto dell’Irpinia e alla determinazione dei confini del sisma; al terremoto dell’Aquila; al ponte di Messina. Una volta che la bolla clientelare si è creata è impossibile sgonfiarla, con mezzi ordinari. L’Ente per il ponte di Messina esiste, consuma soldi, fa gli espropri, scava, progetta; anche se i soldi europei non ci sono più, se tutti sanno che il project financing vuol dire finanziamento pubblico, se il ponte non si farà mai, se forse non è tecnicamente fattibile. Ci sono cordate specializzate nel consumare tutti i soldi di un’opera senza realizzarla. Tanto tempo fa Ada Collidà scrisse un pezzo per spiegare che la massima concentrazione di frodi nel Mezzogiorno si realizzava nelle opere inutili o impossibili: per esempio le fognature nei paesi senza acqua corrente. Se non c’è l’acqua non può esserci fogna; ma se il bando nazionale prevede la possibilità per i comuni di farsi finanziare le fogne, i comuni faranno le fogne. Naturalmente solo un pazzo metterebbe del buon cemento in un buco sotto terra dove i liquami non passeranno mai, perché, in primis, non c’è il liquido. E gli appaltatori non sono pazzi. Nessuno si accorgerà che la fogna crolla perché nessuno la usa; nessuno la connette agli scarichi delle case, che non ci sono; nessuno la fa sboccare in un depuratore, perché non c’è nulla da depurare. C’è solo un buco sottoterra, con dei tubi fatti di sabbia e poco più, pagata molto più del giusto, dallo Stato.
Il Tav non è come le fogne nei paesi senz’acqua. Per cominciare, da Napoli a Torino esiste. Purtroppo! – viene da commentare, per il modo in cui si è realizzata. Ma è stata realizzata con la logica del massimo guadagno per gli appaltatori, senza pensare più ai fini. Ciascuno di noi vorrebbe passare meno tempo in treno, soprattutto nei viaggi che fa di frequente e per lavoro Ma nessun ente di coordinamento ha cercato di difendere la interconnessione tra alta e bassa velocità, la pluralità delle destinazioni, la flessibilità dei mezzi. Come è stato fato osservare a suo tempo da Guglielmo Ragozzino sul Manifesto, in Italia si produceva un treno veloce e flessibile, il Pendolino, che poteva affrontare le molte tratte ferroviarie della penisola che hanno curve a velocità maggiore degli altri treni, perché si inclinava. Col Pendolino si potevano connettere, risparmiando tempo e denaro, Piacenza e Torino passando da Alessandria ed Asti, sulla linea ordinaria. Si poteva risparmiare tempo sulla dorsale adriatica e su quella tirrenica, che con l’orario attuale sono sparite. Si è scelto di puntare sulla soluzione più rigida e costosa dello Etr 500, che non va col voltaggio delle linee ordinarie, ha bisogno di massicciate, binari, linee elettriche particolari, gallerie più larghe del solito, e del previsto, per evitare che l’effetto depressione per l’alta velocità strappi le lamiere – chi ha fatto le scuole tecniche si ricorderà del tubo di Pitot. Il Pendolino lo abbiamo venduto all’estero. Così abbiamo realizzato le tratte più costose del mondo, in pianura e senza gallerie, tra Torino e Milano – lo ha scritto Alessandro Penati su Repubblica del 9 gennaio 2010. Andiamo abbastanza velocemente tra Torino e Milano, finché si è in campagna. Poi, se si vuole proseguire, se si va a Bologna, si impiega poco meno di un’ora ad attraversare la città. Se quel treno lì non è passante, bisogna cambiare stazione e il tempo si allunga. Se si vuole andare a Venezia e Trieste, si piange. È molto peggio che ai tempi degli Intercity.
La Torino-Lione
È l’attuale motivo di conflitto. Di quello bisogna parlare, perché ciò che è fatto è fatto. Giova però guardare al problema particolare nel quadro generale per non rischiare di ridurre tutto a un caso di Nimb – Not in my backyard – o a uno scontro tra il Progresso (“ed anelando nuove industrie in corsa passa il vapore”) e i barbari montanari della val di Susa, feroci come quelli degli Appalachi di Un tranquillo week end di paura.
In effetti, è vero proprio il contrario. Poche opere hanno avuto critiche e recensioni universalistiche quanto la Torino-Lione, fin da quando era un’ipotesi, una prospettiva, più di un terzo di secolo fa. Angelo Tartaglia (ed altri suoi colleghi, docenti del Politecnico di Torino) è diventato vecchio, come me, che mi sono limitato a leggerlo, scrivendo ed illustrando a voce calcoli di costi, previsioni di traffico passeggeri e merci, confronti. Francesco Ramella (www.lavoce.info, che non è uno sconsiderato sito estremistico) ha scritto poco meno di dieci interventi con il calcolo dei costi, le previsioni di traffico passeggeri e merci, proposte tecniche più flessibili ed enormemente meno costose di modifiche della vecchia linea, in parte già realizzate, di uso di più locomotori, di stazioni di trasformazione, sul modello francese, che consentirebbero di portare più merci di quante ragionevolmente non se ne prevedano senza fare nuovi tunnel disastrosi per l’ambiente e pericolosi per gli abitanti.
Riassumendo molto e rimandando agli articoli originali, assai facili da trovare in rete, incluso un quadro riassuntivo di Tartaglia di pochi mesi fa, non si tratta solo di un problema ecologico, dello smarino, cioè dei detriti prodotti dallo scavo, che sarà un problema anche se le percentuali di amianto, che in zona c’è, fossero più basse di quanto non si tema. L’opera è sbagliata dal punto di vista economico, fin dall’origine. Non ci saranno abbastanza passeggeri e abbastanza merci per giustificare il nuovo, lunghissimo, tunnel. In particolare, per le merci, che sono la vera materia del contendere, perché nessuno sostiene più che ci saranno abbastanza passeggeri, bisogna ricordare che non si tratta di fornire un nuovo passaggio ai treni merci. Le merci arrivano a Torino su gomma. Si tratta di convincere i camionisti a mettere il Tir sul treno solo per attraversare le Alpi. Ma non sarà conveniente caricare, scaricare, pagare il pedaggio. Ci vorrà una legge che vieti ai Tir di attraversare il Frejus. La Svizzera ha fatto una legge analoga per obbligare i Tir a salire sul treno per attraversare il proprio territorio. L’Italia e la Francia potrebbero farne una analoga per vietare l’uso dell’autostrada al traffico a lunga percorrenza. Ma nessuno potrà vietare ai Tir di passare da Ventimiglia o dal Monte Bianco; o addirittura dal Brennero, se poi devono spostarsi molto a nord. Il fatto è che in una rete è insensato obbligare alla rotaia solo per giustificare un tunnel. Le merci dovrebbero arrivare a Susa già su ferro, se ci fossero soluzioni coordinate generali. Ma è questo che manca. Universalistici sono i No-Tav, non i sostenitori del Progresso.
Un cenno alla storia del progetto e alla situazione della Valle di Susa può aiutare a capire come, anche in questo caso, il primato dell’opera sul fine abbia determinato tutto.
In principio, sull’onda del Tav da Lione a Parigi, e del tunnel sotto la Manica – il Chunnel – l’enfasi fu sull’alta velocità e sui passeggeri. Nessuno sosteneva che avesse senso spostare i Tir a 300 all’ora sotto le Alpi, caricandoli a Susa o a Orbassano e scaricandoli a Modane o a Lione. Risultò però chiaro che di passeggeri non ce ne sarebbero mai stati abbastanza. Allora la lobby pro-Tav spostò il tiro sulla linea ad alta capacità, trasporto merci potenziato. Ci furono ipotesi di linea ad alta capacità, sostenute anche dalla allora Presidente della Provincia di Torino Merceds Bresso, poi Presidente della Regione Piemonte, con un tracciato diverso, senza passare per la valle di Susa, ma utilizzando l’interporto di Orbassano. La mediazione approdò ad una linea ad alta capacità e ad alta velocità, che passasse per la valle di Susa, per sboccare a Modane, ma passasse da Orbassano, per utilizzare l’interporto. Peccato che, mentre in una discussione tra lobbies basta una e per sommare le funzioni, nella pratica fare una massicciata e delle rotaie, una rete elettrica, delle stazioni, che vadano bene sia per treni molto pesanti e lunghi, sia per treni molto veloci, è molto costoso e, forse, poco durevole.
Ma non si corre il rischio di dimenticare l’inquinamento degli scarichi? Non staremo peccando di economicismo? Non bisogna, prima di tutto, togliere i Tir dalla strada? Forse, ma non a prezzo di inondarla di detriti per più di un decennio.
Intanto, sta partendo il raddoppio del traforo autostradale del Frejus, che è assurdo se si crede al trasferimento dei Tir su ferro. Ma anche il traforo autostradale è un’opera.
Ogni lobby è una lobby. Quella del traforo autostradale bada alla sua di opera. Che gli importa del Brennero, della camionale di Savona, del traffico complessivo, che non si moltiplica perché si moltiplicano i tunnel?
Il movimento
Abbiamo parlato poco, troppo poco, di chi abita la valle; dell’entusiasmo, dei problemi, delle tragedie, qualche volta, del movimento.
Di ciò che è successo sono stato un testimone esterno, interessato, coinvolto, ma mai veramente partecipe. Spero di riuscire a trovare la giusta distanza per raccontarlo.
La valle di Susa non è una bella valle. Troppo usata e abusata, troppo costruita, molto danneggiata dalle Olimpiadi invernali, a cui nessuno si è opposto efficacemente, né in valle né in città. I giochi a Torino hanno portato debiti irrimediabili, ma anche spettacolo, turismo, impianti, difficili ma non proprio impossibili da riutilizzare. In valle hanno reso alcune località letteralmente infrequentabili e con una eredità di ruggine degna di una dismissione industriale. L’abbandono del Sestriere da parte della famiglia allora regnante ha fatto il resto. I critici hanno buon gioco a ironizzare sulla ecologia a corrente alternata di molti.
Ma i danni nuovi sarebbero veramente gravi. L’opposizione al Tav è stata uno straordinario episodio di mobilitazione dal basso di tutta una popolazione, di democrazia partecipata, che ha coinvolto sindaci e associazioni, ed è costata la perdita della maggioranza in Regione a un centrosinistra cieco ed assente, schierato col Tav a prescindere, per il Progresso, per non isolare Torino, perché non ci avevano mai pensato abbastanza. E si è ricongiunta a un ecologismo radicale di minoranza – contro gli elettrodotti, contro il Tav, contro la distruzione di un modo di vita – che aveva rasentato l’ecoterrorismo e aveva i suoi martiri e le sue battaglie. A Torino molti ricordano chi erano Sole e Baleno, Soledad Rosas ed Edoardo “Baleno” Massari, che avevano rispettivamente 22 e 34 anni quando si impiccarono in carcere dopo essere stati condannati per associazione a delinquere a fini di terrorismo – ecologico.
La manifestazione per la morte di Sole e Baleno è una delle più brutte che io ricordi, delle molte a cui ho partecipato. Molti bei gruppi anarchici di mezza Italia, molti centri sociali noti, di Torino e di Milano, civili e non violenti, ma anche molte bombe carta, spranghe di ferro lunghe tre metri, incendi di cassonetti, fumo, rumore. E, alla fine, la distruzione a sassate da parte di un gruppo di ragazzi organizzati, di fatto separati dal corteo, che di suo tanto tenero non era, delle vetrate del nuovo Palazzo di giustizia, fatto apposta tutto di vetro, perché lo Stato democratico è trasparente. A parte i danni, non fu un bel simbolo. Partecipai, vidi, mi sembrò un disastro, a dir poco.
Sole e Baleno meritavano di più e di meglio. Non li ho conosciuti. Non so cosa avrebbero pensato loro di quella manifestazione. Ma due ragazzi che si ammazzano in carcere, mentre sono sotto la potestà e il controllo della polizia carceraria della Repubblica, meritano il lutto e la protesta anche di chi non la pensa esattamente come loro; di chi condivide il fine ma non i mezzi, che possono essere un discrimine più del fine.
Oggi ci sono i pacifisti, quelli che partecipano, condividono, vedono le famiglie, i bambini, i sindaci, ma anche i gruppi organizzati che passano dalla montagna per arrivare al cantiere, ma sono preceduti da lanci di lacrimogeni, manganellate, cariche, ben prima che se ne capisca la necessità. (Enzo Ferrara ha scritto la cronaca della sua partecipazione all’ultima manifestazione importante su “Lo straniero” del luglio 2011.)
Ci sono anche i ragazzi totalmente identificati con la lotta al Tav, che hanno magari cambiato residenza per avere la casa lì e non altrove. Prima che lo scontro scappi, come sempre, di mano, sarebbe ora di rendersi conto tutti dell’assurdità di questo treno. Non tagliamo gli asili e le pensioni; tagliamo il Tav e il ponte di Messina.
* Francesco Ciafaloni (1937), dopo la laurea in ingegneria elettronica nel 1961, ha ottenuto il Master in ingegneria del petrolio all’Università del Texas. Ha lavorato presso l’editore Boringhieri e, dal 1970 al 1984, è stato redattore per la casa editrice Einaudi. Ha scritto l’editoriale del primo numero della rivista «Inchiesta», con la quale ha continuato la collaborazione nel corso degli anni. Si occupa da vent’anni dei problema dei migranti. Tra le sue pubblicazioni: Kant e i pastori. Il mondo e il paese (Linea d’ombra, 1991), I diritti degli altri (Minimum fax,1998), Il destino della classe operaia (Edizioni dell’Asino, 2011).
da Ambiente Italia
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