Cercando di districarsi nella girandola di informazioni che noi comuni mortali ritroviamo nei vari organi di stampa, un primo punto sembra incontroverso: i nemici da sempre dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ritengono di avere l’opportunità di portare a casa un ricco bottino. Nonostante questo rivelano un’incontenibile avidità che sembrerebbe non farli accontentare neppure di risultati fino a pochi mesi fa assolutamente impensabili. Ma andiamo ad esaminare nel dettaglio le tre fattispecie sulle quali ruotano le più disparate ipotesi di «manutenzione» (= depotenziamento) dell’art. 18.
Su questo anche i più agguerriti falchi sono disposti a concedere la sopravvivenza della reintegrazione nel posto di lavoro, così come prevista dall’attuale articolo 18. Non si illuda l’ingenuo lettore che si tratti di una generosa concessione: in tutti i Paesi del mondo i comportamenti discriminatori sono sanzionati pesantemente e per quanto riguarda, nello specifico, il licenziamento disciplinare, va detto che in concreto i casi in cui un giudice abbia potuto accertare la natura discriminatoria del recesso sono rarissimi. L’onere di dimostrare l’intento discriminatorio incombe infatti sul lavoratore, che in un atto individuale non può neppure fare ricorso ai dati statistici, utilizzabili invece nelle sole discriminazioni collettive. Bisogna quindi aver la piena consapevolezza che questa «concessione» altro non è che uno specchietto per le allodole.
Licenziamento disciplinare
Con questo termine si intendono quei licenziamenti che i tecnici definiscono per giustificato motivo soggettivo e/o per giusta causa, riconducibili a presunti inadempimenti contrattuali o comportamenti illeciti del lavoratore.
Attualmente il giudice, ove ritenga che i fatti addebitati siano inesistenti, ovvero che il licenziamento sia una sanzione non proporzionata all’infrazione, nelle aziende con più di 15 dipendenti ordina la reintegrazione, mentre in quelle con meno di 16 condanna ad un’indennità non superiore alle 6 mensilità.
Due sono le soluzioni «manutentive» che ad oggi risultano prospettate, in caso di accertamento della illegittimità del licenziamento: 1) che sia il giudice a decidere se applicare la reintegrazione o disporre un risarcimento solo economico; 2) che vi sia solo il risarcimento economico. Sulla prima la mia personale opinione, per quanto poco conti, è che non vi sono ragioni collegabili alla crisi economica in atto per una modifica dell’attuale normativa. Ma è la seconda soluzione che desta gravissime preoccupazioni, perché foriera di abusi sfacciati. Per un datore di lavoro, infatti, che si volesse liberare di un dipendente per le più svariate ragioni (ad esempio perché si assenta troppo dal lavoro per sottoporsi a cicli di chemioterapia) basterebbe contestare allo stesso di aver guardato male il caporeparto, licenziarlo per motivi disciplinari (palesemente illegittimi) e investire un piccolo capitale per liberarsi del dipendente «improduttivo»
Licenziamento per motivi economici ed organizzativi
Si chiede con forza una maggiore flessibilità in uscita per queste causali, prospettando falsamente l’attuale impossibilità dell’imprenditore di ridurre il proprio personale in presenza di un calo di ordini, di una contrazione del fatturato e, in genere, per mancanza di lavoro dovuta alla crisi economica. I politici che continuano a sbandierarci questa drammatica situazione gettano solo del fumo negli occhi, in quanto questi licenziamenti già comunemente avvengono nella vigenza dell’art. 18, applicabile, giova ripeterlo, solo ai licenziamenti ingiustificati.
La novità che si vorrebbe introdurre, da parte di alcuni, è quella dell’automatica applicazione di una sanzione economica, in sostituzione della reintegrazione: soluzione che avrebbe il vantaggio – per il datore di lavoro – di poter preventivare in linea di massima i costi della riduzione di personale, senza il rischio che le lungaggini di un processo gonfino in maniera esorbitante il costo di una scelta sbagliata.
Essa, tuttavia, inevitabilmente comporta un’equiparazione tra i licenziamenti giustificati e quelli ingiustificati, tramutandosi per entrambi, nella sostanza, in un allungamento dell’indennità sostitutiva del preavviso. Per questo l’ipotesi trova voci di dissenso persino nel fronte imprenditoriale, laddove si evidenzia che, in una situazione di crisi, aumenterebbero i costi, rispetto all’attuale normativa, anche per i licenziamenti giustificati.
Anche qui però vale quanto detto per i licenziamenti disciplinari: prevedere la sola sanzione economica in luogo della reintegrazione lascia spazio a facili abusi, potendosi “battezzare” come licenziamenti economici anche quelli che trovano invece le loro ragioni altrove. Consentendo invece al giudice di verificare la genuinità della motivazione economica addotta (senza ovviamente entrare nel merito della scelta imprenditoriale, come peraltro è già oggi), l’accertamento della insussistenza di valide ragioni “economiche” trasformerebbe il licenziamento in qualcosa di diverso, che non si vede perché non debba essere sanzionato con la reintegrazione.
E’ quindi assolutamente indispensabile che intervenendo – come ormai pare inevitabile – su questa fattispecie, il legislatore non sottragga al giudice la possibilità di esaminare la legittimità dell’atto del datore applicando, se necessario, l’articolo 18.
* avvocato giuslavorista
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