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Caselli, Prospero Gallinari e i cattivi maestri

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Qualcuno dovrebbe spiegare al giudice Caselli che per i magistrati dell’Italia appena unita – soprattutto negli interessi padronali – Giuseppe Mazzini fu allo stesso tempo criminale e «cattivo maestro» e morì esule in patria sotto falso nome. I giudici della nuova Italia, infatti, d’accordo col nuovo e liberale potere politico, non annullarono l’antica condanna emessa in contumacia per la sua lotta armata contro il potere savoiardo. Il liberalissimo Silvio Spaventa, responsabile dell’«ordine costituito» nel Mezzogiorno conquistato, pensò addirittura di eseguire la condanna e non se ne fece nulla solo perché Mazzini era stato sorpreso a Napoli, ancora piena di camicie rosse, e vestiva la divisa di colonnello garibaldino. Solo per questa fortuita circostanza il repubblicano “padre della patria” si sottrasse al trionfo dell’ordine sabaudo che, di lì a poco, con la legge Pica, sperimentò sui “briganti” del Sud, leggi speciali, esecuzioni sommarie, deportazioni e carcere a vita.
Qualcuno dovrebbe spiegare a Caselli che esiste un invalicabile confine etico tra verità processuale e ricostruzione storica. Non c’è studioso serio che oggi darebbe credito ai giudici del “terrorista” Mazzini, tuttavia, ogni volta che Caselli sputa sentenze al di fuori dei tribunali, non solo diventa il tragicomico storico di se stesso, ma dimostra che un giudice c’è, uno almeno, pronto a condannare di nuovo l’antico rivoluzionario. Qualcuno dovrebbe spiegare a Caselli che quando le sentenze penali sono state emesse ed eseguite e la morte giunge a dire la parola fine sulla vicenda umana del condannato, non è tempo di tribunali: è giunto – ed è sempre in ritardo – il momento della riflessione storica. Il giudice che ignora questo elementare dovere e torna a sputare sentenze, commette un’intollerabile violenza, intralcia il lavoro dello storico e copre di ombre atroci il suo ruolo di magistrato.
La storia, Caselli dovrebbe saperlo, è piena di giudici smentiti e di condannati riabilitati. Sulle Idi di marzo del ’44 avanti Cristo il dibattito è aperto; non l’ha chiuso – e certo non lo chiuderà – l’aula di un tribunale. Sono duemila e più anni che storici, pensatori e intelligenze critiche si interrogano sul significato di quell’evento: Bruto e Cassio congiurarono contro il politico illuminato o colpirono l’uomo di potere, il garante di equilibri che avrebbero ucciso la repubblica? Qual è la vera violenza politica, quella d’un potere sordo ai bisogni di un popolo o quella di chi in nome della giustizia sociale sorge in armi contro la presunta legalità? Le Idi di Marzo, la sorte di Mazzini, Gaetano Bresci che uccise Umberto I, dopo la medaglia assegnata a Bava Beccaris per i cannoni sparati a mitraglia sulla popolazione inerme, Fernando De Rosa che nel 1929 tentò di uccidere il principe Umberto in nome dell’antifascismo e morì poi in Spagna combattendo per la libertà, non sono più imputati affidati ai giudici. Ai giudici, piuttosto, quei fatti e quegli uomini ricordano che spesso chi punta il dito sui cattivi maestri o è un in malafede o ha bisogno di tornare a scuola.   

La storia non è figlia di verità assolute, non si scrive nelle aule dei tribunali e non è mestiere da giudici. I magistrati, quando sono onesti, si limitano ad affermare le ragioni dell’«ordine costituito», che, piaccia o no, per quanto quasi sempre estranee a quelle della giustizia sociale, sono la bibbia dei magistrati. In quanto alla patologia che dalle colonne del Fatto Quotidiano del 18 gennaio, Caselli addebita a “molti italiani”, colpevoli a suo modo di vedere di una “perdita della memoria che sconfina nell’amnesia”, il giudice sbaglia a ritenersi immune. Da buon italiano, infatti, anch’egli soffre di pericolosi vuoti di memoria. 

Non fosse così, la pianterebbe di tirare in ballo a casaccio i valori della resistenza partigiana e proverebbe a spiegarci chi li ha devastati da Portella della Ginestra, a Piazza Fontana, da Piazza della Loggia alla stazione di Bologna. Proverebbe a spiegarci come scioglie nella sua coscienza di magistrato il nodo della contraddizione tra il “servitore dello Stato” e quel segreto sistematicamente posto sulla strada delle sue indagini. Il «segreto di Stato», naturalmente. Intriso di sangue e venato di fascismo.

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2 Commenti


  • alfonso de amicis

    Militanza in Lotta Continua, poi cane sciolto. Condivido la ripubblicazione dell’intervista di Erri De Luca. Puntuali e precisi gli interventi di Aragno e Barontini. Ai pennivendoli, moralisti e gendarmi del potere consiglierei di rileggare la sceneggiatura del film Sacco e Vanzetti la dove avviene l’incontro tra il governatore e Bartolomeo, e a pensarci bene “il denaro è violenza, la fame, la povertà la stessa paura di morire è violenza”. Oppure “Indagine su un cittadino al di sopra di ognio sospetto” ci pone sempre la stessa domanda che cosa è il potere? E’ quello che esce dalle intercettazioni tra Gratteri-ricordate?- e la Prefetta Iurato, quella che fingeva di commuoversi di fronte alla Casa dello Studente a L’Aquila. Altro che moralismi e cavoli vari. Con il movimento del ’68 per la prima volta, in modo massiccio le masse, le classi subalterne prendevano la parola per organizzarsi e riscattare secoli di storia e di sottomissioni. Loro hanno timore e apura che il contagio greco diventi uno spettro Hasta Siempre


  • Luciano Pietropaolo

    negli anni 70 ero assolutamente contro le Brigate rosse e credo ancora, malgrado tutto, che io avessi ragione e loro torto. Ma oggi…quegli “anni di piombo” il cui incubo Caselli cerca strumentalmente di perpetuare, a me fanno solo sorridere, perchè ben altro piombo oggi si riversa e domani si riverserà su di noi. Io quindi rispetto chi è morto rimanendo fedele a se stesso dopo avere pagato un debito enorme per i suoi “delitti” e sottoscrivo in pieno l’articolo di Aragno che magistralmente demolisce la figura di Caselli.

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