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“Che imbecilli”

 

«Che imbecilli! Non si accorgono che ci rendono un servigio!» Così esclamava Maria Antonietta (d’Asburgo-Lorena, sposa di Luigi XVI), il 14 dicembre del 1791, alludendo all’imminente ‘guerra preventiva’ contro l’Austria voluta da una parte della borghesia rivoluzionaria francese e auspicata pure dalla Corte con la segreta speranza di restaurare l’assolutismo dopo una sconfitta. Tenacemente, lucidamente e ostinatamente si oppose, quasi da solo, Robespierre. Riuscì solo a ritardare la guerra.

Il rifiuto della guerra, per i rivoluzionari – si cominciò così a capire – non è il pacifismo imbelle, ma il rifiuto politico che la lascia nuda: mostrandola per quello che è. E in quell’occasione era un modo per distrarre il popolo dalle conquiste rivoluzionarie e coltivare (maliziosamente) l’illusione (il desiderio) di essere percepiti come liberatori dall’ancien regime e non come invasori.

Ha così inizio la categoria politica e ideologica della guerra preventiva.

La guerra ha sempre le sue dinamiche oggettive che possiamo pure comprendere: coloniali, imperialistiche, geostrategiche. Diverse sono le ragioni e le dinamiche di opposizione alla guerra. Questa è sempre solo una delle forme del conflitto e opporsi alla guerra non può essere scambiato per la sterile ricerca di una realtà priva di conflitto; al contrario, la lotta per la pace non può che coniugarsi con la trasformazione e, dunque, col conflitto.

Ebbene: che fine ha fatto, negli ultimi anni, il movimento per la pace? Dove si nasconde oggi che la sua natura politica anticoloniale e antimperialista dovrebbe brillare più efficacemente?

Il rapporto tra la sinistra europea, la guerra e le valutazioni sull’imperialismo sembrano negli ultimi anni aver fatto parecchi passi indietro. Quando si dice che qualcosa, o qualcuno, fa dei passi indietro, si vuole anche implicitamente dire che si era raggiunto un punto d’avanzamento ragguardevole.

Il punto d’avanzamento raggiunto dal complessivo movimento comunista internazionale era costituito dal saper compiere scelte che, distinguendosi appunto dal pacifismo imbelle, smascherassero le ragioni imperialistiche delle guerre e fossero anche in grado di valutare le oggettive convergenze politiche in fronti di resistenza sempre più ampi e radicati: le lotte per la decolonizzazione, incrociandosi con la questione nazionale, furono ovunque un caso paradigmatico. Il blocco storico della trasformazione, ben più ampio del tradizionale blocco sociale di riferimento dei comunisti (e in prospettiva anche in competizione con esso), era ovviamente campo di battaglia per la sfida egemonica dei marxisti.

Poi, dopo la sconfitta del campo socialista e la frantumazione del movimento dei lavoratori, il vuoto pneumatico in cui è venuta a trovarsi la sinistra europea l’ha resa palesemente afasica. E, quindi, subalterna. Questo vuoto nel quale l’atomizzata sinistra europea si dimena è, infatti, comunque pieno di campi di forza. E i rapporti che da questo derivano non sono più a nostro vantaggio. Si è, così, sempre al traino di altri punti di forza.

Ma non si è condannati a morire «imbecilli».

Rimaniamo sul piano dei processi in corso e osserviamo l’oggettività di ciò che accade. Che le maggiori ambiguità sui temi della guerra emergano con particolare evidenza – per la sinistra europea – ogni qual volta è direttamente o indirettamente coinvolta la Francia non è un caso (dalla Libia al Mali, solo per citare gli ultimi). Come dimenticare, infatti, l’iniziale titubanza della stessa sinistra francese nel denunciare l’aggressione neocoloniale con la guerra d’Algeria, magistralmente condensata nelle parole scritte da Sartre nella Prefazione (1961) ai Dannati della terra di Fanon: «La critica delle armi dei popoli colonizzati provoca lo streap-tease del nostro umanesimo e ci si accorge che questo umanesimo non era che un’ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio». E anche nel caso del bellissimo film La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo che, non casualmente, lo sciagurato Segretario del Partito della Rifondazione Comunista di dieci anni fa, Fausto Bertinotti, indicò non essere più un modello per la sinistra.

Ovvio, in ballo c’era la Resistenza irachena e la partecipazione a un mediocre governo di centro-sinistra, al ribasso rispetto pure a qualche anno prima.

Come non notare, inoltre, che questo avviene in un momento storico ben preciso per l’Europa: quello del suo tentativo, attraverso l’Unione, di essere polo politico ed economico nuovo nello scenario internazionale della divisione del lavoro.

E questa – come spesso, invece, si dice – non è un’altra storia.

«Possiamo subito avanzare una risposta che al tempo stesso è un’ipotesi di lavoro: democrazia e colonialismo – scrivevamo sempre su Contropiano on line qualche tempo fa[1] – Comprendiamo meglio, cioè, la dialettica del reale se sostituiamo la congiunzione alla disgiunzione».

Infatti, quest’umanesimo dai tratti universalizzanti, dialetticamente inviluppato tra spinte emancipatrici e negazioni di sé, si afferma con la Rivoluzione francese nel momento stesso in cui la borghesia si fa Nazione e proclama i diritti universali dell’uomo. Le ideologie progressiste, ereditate dall’illuminismo, dominano ancora oggi le culture della sinistra nelle nostre società occidentali-atlantiche, ma solo dopo aver perso le istanze critiche che le avevano innervate (la successiva analisi marxista e il movimento operaio) e hanno, proprio in ragione di questa perdita, rappresentato spesso un puntello di quella missione civilizzatrice che ha sempre legittimato gli appetiti coloniali. Come nel 1920 quando la Società delle Nazioni attribuiva alla Gran Bretagna un Mandato sull’Iraq in nome degli ideali di ‘emancipazione’ contenuti nei Quattordici punti di Wilson. Sotto lo sguardo attento e interessato di Churcill, i britannici definirono il nuovo stato iracheno: nacque la monarchia hashemita (1921-1958) che, concepita sul modello europeo di stato-nazione, diventò così una monarchia araba costituzionale.

Come si sia poi evoluta la vicenda della sovranità e dell’autodeterminazione dell’Iraq contemporaneo è sotto gli occhi di tutti.

Qual è, allora, il modello di rivoluzione che la sinistra europea meno lucida e più compromessa ha surrettiziamente introiettato? È quello voluto dal pensiero borghese conservatore (non più rivoluzionario): quello che ha visto la sua piena realizzazione nella monarchia costituzionale di Luigi Filippo. Nel luglio del 1830, infatti, Carlo X ultimo sovrano della dinastia dei Borbone, fu destituito. Era il trionfo del tentativo d’istituire una storia nazionale che fosse, come scriveva Augustin Thierry, proprietà comune di tutti gli uomini di uno stesso paese. Era una lettura della storia della nazione francese e – in base alle cose prima accennate – per estensione dell’Europa e, dunque, del mondo intero, che voleva fondare un modello di continuità basato sulla monarchia e sulla classe borghese. Un modello che poteva legittimamente ancorarsi alla Rivoluzione dell’Ottantanove, ma solo prima del ’48. L’irruzione dei fatti successivi spostarono la rivoluzione verso il movimento di classe e l’organizzazione di una prospettiva politica e sociale alternativa al modo di produzione capitalista. Come quando nel gioco della staffetta si affida il testimone al compagno che prima ti affianca e, poi, scatta in avanti.

Appare, dunque, non più rinviabile la ripresa del filo della discussione, da troppo tempo interrotto, su ideali di emancipazione che se declinati come universalismi astratti diventano maschere del dominio. Il marxismo e la lotta di classe sono gli antidoti giusti.

Senza indugi. Tutti sanno che la Rivoluzione francese costituisce, assieme a quella inglese del XVII secolo, il coronamento di una lunga evoluzione economica e sociale che rese la borghesia non più classe forte e in ascesa ma dirigente e dominante: capace di distribuire, attraverso l’esercizio del potere politico, un nuovo significato alle cose, alle parole, ai concetti. I governi della borghesia ne furono consapevoli da subito: nella Carta del 1814, Guizot sosteneva (e dimostrava) che lo specifico delle società francesi e inglesi era consistito nella presenza, tra il popolo e l’aristocrazia, d’una forte classe borghese capace d’elaborare ideologia e quadri dirigenti nuovi. Anche se – è bene ricordarlo – in Inghilterra non esisteva il privilegio fiscale: i nobili pagavano le imposte.

Le condizioni particolari dell’Inghilterra, la sua evoluzione più avanzata resero possibile, infatti, il compromesso del 1688. In Francia, al contrario, la nobiltà conservava un carattere marcatamente feudale e la marxiana contraddizione tra sviluppo delle forze di produzione e rapporti di produzione era, così, matura.

Non fu d’altra parte proprio premiando l’Elogio di J. B. Colbert, la cui politica economica al servizio della borghesia nazionale aveva voluto Luigi XIV, che nel 1773 L’Académie Français legittimò l’ingresso ufficiale del banchiere ginevrino J. Necker nella cerchia dei philosophes?

Ancora: di cosa ci parla la vicenda personale e, per quanto possibile, simbolicamente generale di La Fayette? Nobile di famiglia fu inviato – fra il 1777 e il 1781 – dalle autorità francesi a combattere a fianco dei coloni per l’indipendenza americana contro la madre patria inglese, amico di Washington e nominato Comandante della Guardia Nazionale (all’indomani della presa della Bastiglia) di essa si servì per operare la strage di Campo di Marte ai danni dei repubblicani e dei democratici: il 19 agosto 1792, abbandonato dalle sue truppe, passò infine agli austriaci.

Contraddizioni personali? No: dialettica di una rivoluzione vera presa nella lotta di classe.

In realtà, infatti, la Rivoluzione fu possibile proprio per questa contraddizione tra i rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive francesi, causata dallo sviluppo dei mezzi di produzione della borghesia già all’interno della società feudale.

Ovvio, allora, che l’Ottantanove fu il coronamento di questo processo ma anche che la Rivoluzione non fu opera della sola borghesia. Vi fu – è vero – una prima fase monarchico-costituzionale, ma anche una seconda repubblicano-democratica popolare e, pur se repubblicano-borghese, in quella conclusiva assistiamo (con la Congiura degli Eguali) a una teoria e a una prassi capace di in-formare di sé il secolo successivo. Il gioco della staffetta, appunto, e il testimone che va.

In-formare. Ecco, allora, cosa aveva fissato un traguardo di lotte, un ben preciso quadro interpretativo sulla rivoluzione francese per i marxisti e per il movimento di classe: la storia successiva delle rivoluzioni nel momento in cui era stata capace di superare la stessa rivoluzione dell’Ottantanove, inverandola, in un punto d’avanzamento ulteriore.

Il Manifesto e la Congiura di Babeuf, il Quarantotto e la Comune e, per finire, la Rivoluzione bolscevica avevano rischiarato con luce di parte l’intero processo rivoluzionario e la sua eredità politica e ideologica. Venuto meno questo campo di forze (rivoluzionario) l’eredità rimasta è altra da quella sulla quale ha poggiato l’intero movimento rivoluzionario del Novecento.

Ecco che, allora, i cosiddetti diritti umani sono ridotti a giustificazione del nuovo colonialismo e imperialismo e le diverse locuzioni che insistono su tradizionali formule universalistiche riescono a occultare i particolarissimi contenuti di classe che veicolano.

Un’opera di dis-assoggettamento ci attende. Dopo decenni di tabù su guerra e rivoluzione, violenza e non violenza, modernità e religiosità, resistenza e complicità, conquista del potere o impotenza, ristabilire le condizioni che ci consentono di riappropriarci pienamente della lingua della trasformazione e della transizione, abitandone la grammatica, non vuol dire aspettare una nuova rivoluzione.

D’altronde le rivoluzioni non sono mai accadute ma sono state fatte. Mettersi in quest’ottica è già un buon inizio.



[1] Libia cent’anni dopo: democrazia o colonialismo?

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