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La scuola pubblica, i diritti e l’unione delle lotte

[intervento all’assemblea pubblica sulla scuola, 9 febbr. 2013, Cesena]
Oggi siamo qui per difendere la scuola pubblica. Siamo qui per rivendicare i diritti degli studenti, degli insegnanti, dei collaboratori scolastici, dei genitori, e per cercare di costruire una scuola pubblica migliore. Perchè credo che difendere il diritto che tutti dovremmo avere all’educazione pubblica non significhi difendere la scuola pubblica come è oggi, ma lottare per una scuola molto migliore. E questo è il primo punto.
Dico questo perchè in realtà oggi c’è già chi nella scuola è privato dei propri diritti: sono gli studenti migranti e gli insegnanti che insegnano italiano agli studenti migranti.
Gli studenti migranti già adesso non vedono tutelato il loro diritto allo studio. Le motivazioni sono complesse, hanno anche radici ideologiche precise e responsabilità precise per niente scontate. Ma uno degli elementi fondamentali è la mancanza di fondi. I contributi per il supporto linguistico sono per lo più di enti privati o del comune, non statali, è già questo è indicativo. Sono insufficienti, intermittenti, inadeguati ai bisogni, sanno di elemosina. E così questi studenti galleggiano tra corsi di supporto linguistico altalenanti, dipendenti dalla filantropia di istituzioni private e dall’abilità dei loro insegnanti a districarsi fra bandi per racimolare fondi comunque insufficienti. Sono i primi che risentono dei tagli ai fondi per l’istruzione pubblica. Così il problema diventano loro, il loro non conoscere bene la lingua, e il non avere genitori in grado di supportarli, mentre il vero problema è il fatto che la scuola pubblica dovrebbe garantire anche a loro tutti i supporti per il successo scolastico e invece non lo fa.
Questo per dire che una vera lotta per una migliore scuola pubblica non può prescindere dalla rivendicazione del diritto allo studio per gli studenti migranti.
Riguardo agli insegnanti di italiano a migranti, invece, cioè io, e altri miei colleghi, siamo oltre il precariato: siamo lavoratori a progetto, spesso a partita iva, senza malattia, senza maternità, paghiamo contributi per pensioni che non vedremo mai, facciamo parte di quel “quinto stato” dei lavoratori della conoscenza e della cultura che non ha garanzie di reddito stabile. Soprattutto, siamo costretti continuamente alla difficile scelta fra tutelare la nostra professionalità, non accettando compensi inferiori a quelli che permettono di vivere in modo quasi dignitoso, o lavorare accontentandoci di compensi indegni. Galleggiamo tra periodi di attività febbrile per mettere insieme una specie di stipendio e periodi di disoccupazione forzata, senza ammortizzatori sociali, senza la sicurezza di un reddito, anzi dobbiamo tutti i giorni lottare contro tentativi di ribasso del compenso.
Molti colleghi giustamente sono qui per protestare contro l’aumento di orario a parità di stipendio, che non è altro che un abbassamento dello stipendio. Ma per noi questo succede già, nel momento in cui vediamo bandi in cui il ribasso del compenso ha più peso persino della formazione o dell’esperienza. Molti dirigenti credono di fare “il bene della scuola” risparmiando due soldi; del resto, nel percorso di aziendalizzazione della scuola, il bravo dirigente è un manager che risparmia In realtà, in questo modo avallano l’idea che solo chi chiede meno trova lavoro. Mi chiedo se sia questo che vogliamo insegnare ai nostri studenti: che la sopravvivenza si paga con la dignità, che il lavoro è una merce che si vende e si compra, e quanto meno costa tanto meglio è. E’ il modello fornero-marchionne che i lavoratori di altri settori conoscono bene. E questo mi porta al terzo punto. Perchè dico tutto questo? Non per fare la vittima. Non mi sento una vittima. Ma per mostrare che all’interno della scuola c’è già chi vive quello che vogliono far vivere a tutti gli studenti e a tutti gli insegnanti. Noi siamo il vostro futuro. Lo sono i miei studenti, fatti diventare un “problema”, una “emergenza”, quando il problema è la mancanza criminale di fondi. Lo siamo noi, nel momento in cui il nostro rivendicare un equo compenso, il nostro rifiutarci di giocare al ribasso ci fa diventare scomodi, e magari ci fa anche perdere il lavoro. Io ed i miei studenti siamo il paradigma del futuro della scuola pubblica: lo studio che diventa un privilegio, il merito che soppianta l’equità, il lavoro che diventa lavoro sfruttato e sottopagato. Siamo il paradigma di una precisa visione non solo della scuola ma anche del lavoro e della società.
E’ importante capire questo, perchè significa capire che l’attacco alla scuola pubblica, ai diritti degli studenti e dei lavoratori della scuola pubblica, si colloca all’interno di una prospettiva più ampia di attacco al diritto al lavoro, alla dignità, alla libertà. Significa capire che non posso battermi contro l’aumento di orario a parità di stipendio se poi accetto che il compenso di un altro lavoratore venga abbassato perchè “c’è la crisi”. Significa capire che i diritti o sono di tutti, o non sono di nessuno. E significa anche capire come possiamo lottare per la scuola pubblica
Ma è importante secondo me capire che non otterremo risorse per le nostre scuole se non combattiamo per la giustizia economica nella società e contro il sistema economico dove i pochi dominano i molti. Non basta limitarsi a rivendicare fondi per la scuola pubblica se non lottiamo contro la visione della scuola e della società che ci viene imposta – e che la scuola stessa in parte contribuisce a imporre. E’ vero che l’attivismo degli insegnanti deve iniziare in aula, con il mostrare come la società sia plasmata – distorta – da forze esterne. Ma deve anche essere nelle strade.
Non basta cercar di cambiare la società solo o soprattutto attraverso la pedagogia, è necessario prendere parte alle lotte per la giustizia economica e la vera democrazia nelle comunità, in solidarietà con gli altri lavoratori che stanno lottando.
Dobbiamo costruire una solidarietà con la classe lavoratrice nazionale e internazionale. Quando gli altri lavoratori sono attaccati, dobbiamo difenderli, quando scioperano dobbiamo partecipare ai picchetti. Gli operai che alzano la testa e combattono per i contratti o per le forme di rappresentanza aiuteranno a creare i lavori dignitosi di cui i nostri studenti hanno bisogno. Il lavoratore a progetto che pretende un compenso equo deve essere supportato perchè la sua lotta di oggi sarà quella dei nostri studenti -e dei nostri figli- domani. Perchè se non capiamo questo, se non ci interessiamo a questo, non ci sono soluzioni per l’educazione pubblica. Se non ci interessiamo a questo, come possiamo d’altronde pretendere che gli altri lavoratori partecipino alle nostre proteste? Dobbiamo riconoscere noi per primi che questa visione è necessaria, e che è necessario unirci alle lotte per l’equità e la giustizia sociale nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle comunità, nella società, e ricostruire organizzazioni per partecipare a queste lotte. Perchè la scuola non è  un mondo a parte, dunque le soluzioni per l’educazione pubblica sono anche nelle lotte fuori dalla scuola.

[Un ringraziamento a Jeff Bale e al testo Education and Capitalism, che consiglio]

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2 Commenti


  • antonella

    ma siamo ancora al frame scuola pubblica/scuola privata? ma non l’abbiamo ancora capito che tutte le scuole, per definizione, sono pubbliche e che quella che si definisce impropriamente scuola pubblica è la scuola di Stato? e se una persona vuole optare per un modello alla Ivan Illich o ad una scuola popolare alla Paulo Freire, ne ha diritto oppure no? e a chi si dovrebbe rivolgere, fatemi capire, ai paladini e alle paladine della statale? vediamo di allargare gli orizzonti, per favore, che è ora http://www.dinamopress.it/news/educazione-popolare-e-autonomia-nellera-della-governance-kirchnerista


  • sara

    Ciao Antonella, molto interessante l’articolo che segnali. Conosco la pedagogia di Freire, e apprezzo molto l’idea e l’impostazione dei modelli educativi “alternativi”. Anzi direi che sono l’esempio a cui tendere. Ma qui, ora, in Italia, nel 2013, non me la sentirei di lasciare l’unico esempio di educazione pubblica, certo statale, con tutti i difetti che ciò comporta, ma comunque l’unica gratuita ed aperta a tutti, in balia dei poteri che spingono verso la privatizzazione, l’aziendalizzazione del sapere e l’esclusione. Che poi questo sapere, i curricoli e le modalità siano tarate sulle esigenze della classe capitalista dirigente , beh, su questo siamo d’accordo. Non per niente ho iniziato il mio intervento dicendo che difendere la scuola pubblica non significa difendere la scuola pubblica come è adesso. Al momento, credo che le condizioni non siano ancora pronte per modelli di educazioni alternativi attuabili su larga scala; credo che in questo momento battersi contro la scuola pubblica significhi semplicemente lasciare campo libero ad aziende multinazionali e poteri politico-finanziari. Chomsky direbbe che c’è il momento di lavorare per allargare il perimetro della gabbia e quello per buttare giù la gabbia; che è rischioso buttar giù la gabbia quando non si è ancora abbastanza forti per sconfiggere i predatori appostati fuori. Lungi da me l’idea di “esser paladina”. Credo di avere orizzonti abbastanza ampi, ma credo anche che ogni confronto li allarghi ancora di più. Questo dovrebbe valere per tutti.

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