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Fondamentali assenti, cervelli bruciati

Ho la mia età e non ve la dico. Questo si può fare (non si chiede l’età a una signora, specie sulla Rete…).
Ma sono rimasta davvero basita ascoltando una testimone in un processo rispondere al giudice  “io non le chiedo chi è sua moglie”.
Mi spiego. Stavo giracchiando su Internet, stamattina, senza grandi notizie. Che noia… Passo su Repubblica.it e clicco su un titolo “Ruby-bis, la soubrette al pm. ‘Non parlo degli affari miei'”.
Lo so, non è fine curiosare nelle mutande altrui, ma a me attirava il fatto che una “soubrette” – definizione pruriginosa dalla notte del secolo scorso – avesse il coraggio di porre un limite alle domande di un giudice. Speravo, credevo… Mi illudevo.
La scena è il tribunale di Milano, il pubblico ministero – Sangermano – si rivolge a Elena Morali, sul banco dei testimoni, e chiede se ha avuto una relazione sentimentale col “Trota”. Per una forma comprensibile di rispetto il pm non fa neanche il nome, tanto è cosa notoria, visto che la fanciulla ha rilasciato una caterva di interviste tv sulla sua storia col figlio di Umberto Bossi. E’ una di quelle cose banali che si fanno in tribunale, come chiedere conferma che il teste si chiama effettivamente in quel modo, per far “registrare agli atti” che tizio è davvero tizio. E del resto la presenza di Elena come teste, in quel processo, ha senso solo perché ex fidanzata del Trota.
La fanciulla risponde invece incazzosa: “non sono affari vostri”. E pure “sono cose mie private, io non le chiedo chi è sua moglie”. Come fosse un talk show, tra pari.
Sono cresciuta vedendo gente che mandava a quel paese i giudici, li minacciava, gridava loro “servi dei padroni”, che “non ne riconosceva la terzietà” – come si direbbe oggi. Gente che si sentiva e agiva come un altro potere, contrapposto e in guerra con quello che lì li mandava a processo. Gente solida, che capiva i diversi ruoi e li metteva in discussione, rivoluzionando anche la procedura. Gente che non rispondeva alle domande perché rifiutava di collaborare. Ma mai qualcuno che non capisse in che situazione si trovava. Anche un imbecille, quando sta sulla sedia dei testimoni, sente friggergli un po’ il didetro.
Elena non lo capiva.
Il presidente – una donna, per fortuna – le fa presente che lei è una testimone, quindi deve rispondere alle domande “se la domanda è ammessa”. Ovviamente dal presidente, mentre la fanciulla ritiene di poter essere lei a stabilire quali domande possono esserle fatte e quali no. Si va avanti così, con la presidente che prova persino a suggerirle di accusare  “un malore” per disporre una breve sospensione ed evitarle una figura barbina. Una di quelle cose molto tribunalizie, per cui si ferma tutto, il presidente chiama “il teste” nella sua stanza e spiega con pazienza “ragazza mia, qui ci stai per testimoniare dicendo la verità; se fai la stronza e dici cazzate ti incrimino per falsa testimonianza, se rispondi un’altra volta male si incrimino per disprezzo della corte e se insisti ancora ti faccio fare qualche notte al gabbio”.
La fanciulla non capisce. Insiste.
Poi la folgorazione. Per me. Lei si comporta come in uno studio tv, con persone che le stanno comprensibilmente antipatiche. Parla senza avere cognizione dei ruoli, dei “fondamentali” e dei rischi che sta correndo. Dice “sto perdendo tempo, sbrighiamoci”. A un giudice… a una persona che, qualsiasi cosa se ne pensi, ha ricevuto dallo Stato il potere di toglierti e ridurti la libertà.
Non è una questione di rispetto, ma di rapporti di forza. Sarebbe stata più cauta, o addirittura dolcissima, con il suo agente o con l’aiuto-regista…
E mi vengono in mente le parole del mio vecchio amico guerrigliero che dice: “un vero imbecille lo riconosci dal fatto che non riesce nemmeno a capire quando è davvero in pericolo”.

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