Non dovremmo nemmeno stare qui a parlarne. Se davvero il 36enne Kayes Bohli è stato «massacrato» nella caserma di Riva Ligure – come pare un anonimo denunciatore scriveva a commento della foto scattata col telefonino lo scorso 5 giugno che ritraeva il corpo esanime sul pavimento – dovremmo legittimamente attenderci una ferma condanna istituzionale degli eventuali torturatori che renderebbe inutile ogni commento. Ovviamente la storia passata ci preclude un simile sentimento. C’è un’impunità di cui hanno goduto in Italia i torturatori, per i quali manca finanche un titolo di reato nel nostro codice penale.
Quell’impunità che fa sì che un’associazione come la nostra si senta chiamata a commentare gli avvenimenti e le dure parole del pubblico ministero su un omicidio di Stato. Ci troviamo di fronte all’ennesima morte di una persona che si trovava in custodia delle forze dell’ordine. Non è un caso però che oggi si possa fare un elenco. Quindici anni fa nelle carceri, nelle caserme e nei commissariati la violenza si usava quanto oggi, ma di morti e pestati si parlava molto poco. Oggi per una serie di circostanze il muro dell’omertà ha sempre più buchi. Capita che detenuti si rivolgono a noi perché vittime di violenze. Un tempo sarebbe stato impensabile. Il detenuto condivideva, sebbene per ragioni opposte, la medesima omertà dei poliziotti. Nessuno denunciava niente, tutti erano caduti dalle scale. I giornali non parlavano quasi mai di carcere, a nessuno interessava. A mano a mano le cose sono andate, seppur ancora insufficientemente, cambiando. La maggiore attenzione dei media ha fatto sì che gli stessi detenuti abbiano avuto la forza di denunciare.
La Corte di Strasburgo ci ha condannati varie volte e le condanne hanno fatto parlare addetti e non addetti ai lavori, fino a quando il carcere è meritoriamente divenuto una priorità di governo. La sola cosa che non sembra essersi per nulla modificata è l’uso della violenza istituzionale. Le squadrette di cui un paio di decenni fa non si proferiva parola oggi picchiano più o meno quanto prima. Solo che fortunatamente se ne parla di più. Le vicende di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi hanno rotto gli argini di media altrimenti anestetizzati dal potere, ma non sono riuscite a smantellare uno spirito di corpo che si sente le spalle ancora troppo protette.
La tortura è un crimine contro l’umanità. È un crimine che può essere commesso solo da pubblici ufficiali. È un delitto riconducibile allo Stato, come ha detto con forza il pm dopo avere letto gli esiti dell’autopsia di Kaies Bohili. In questo caso a essere coinvolti sono i Carabinieri. In altri casi sono stati poliziotti o agenti penitenziari. Non potranno essere considerate mele marce fino a quando non sentiremo parole dure nei confronti dei torturatori da parte di generali e capi della polizia, fino a quando non vedremo ministri depositare una proposta di legge del Governo per l’introduzione del delitto di tortura nel nostro codice risalente all’era fascista. Kaies Bohili avrà giustizia se le istituzioni rinunceranno a quello spirito di corpo erto a difesa di quel che rimane di una sovranità in crisi di esistenza.
*Il Manifesto 8 agosto 2013
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