La criminalizzazione del movimento No Tav è un fatto. Così come le forme di lotta da adottare quando il potere butta la maschera “democratica” (guardate le facce di Esposito e Caselli e poi ci dite…) e pretende di imporre gli affari di poche aziende sulla testa – e le tasche – di un intero paese e di un territorio specifico.
Non è un problema “nuovo”, diciamolo subito. Ricorre nella storia del conflitto sociale fin dalla sua origine, perché non s’è mai dato cambiamento con il benevolo consenso delle classi dominanti.
Nell’Italia drogata dell’ultimo ventennio, invece, sembrava diventato “norma” che il concetto di diritto di resistenza fosse eliminato dal vocabolario politico, oltre che dalla prassi dei movimenti. Questo intervento de “Lo spiffero”, che riprende le riflessioni proposte da Gianni Vattimo durante la sua discussione con il movimento No Tav, nei giorni scorsi, rompe un tabù. Basta vedere come l’ha presa il Corriere della sera del 15 agosto per rendersi conto che si tratta di una discussione molto attuale. Politica, non solo teorica.
Naturalmente ogni affermazione qui contenuta può e deve esser discussa (a noi Heidegger non piace, per esempio, e ci sembra che la concezione dell’uomo come “progetto” trasformatore del mondo – non semplice “descrittore” a là Kant – sia merito di molti altri filosofi che lo hanno preceduto; Marx, per fare un nome, ma non solo lui). Ma l’utilità di ragionare fuori dai limiti imposti dalla borghesia multinazionale trionfante (negli anni ’90) ci semrba indubbia.
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Partigiani o sovversivi? Patrioti o delinquenti? Mentre gran parte degli intellos nostrani ha abbandonato i No Tav e preso le distanze dalle derive estremistiche del movimento – a partire dallo scrittore-guru Roberto Saviano -, c’è chi rivendica non solo le ragioni di una protesta che oggi travalica gli stessi confini (geografici e politici) della Valsusa, ma difende anche i metodi di lotta, arrivati a comprendere vere e proprie azioni di guerriglia, con tutto il corollario di violenze pubbliche e private, blocchi autostradali, aggressioni a persone e cose. Tra chi sostiene legittima questa forma di conflitto c’è il filosofo Gianteresio Vattimo, detto Gianni, teorico del “pensiero debole” ed europarlamentare dell’Idv, dopo esserlo stato per i Ds e i Comunisti italiani. Ospite d’onore alle due “cene filosofiche” a Chiomonte e Bussoleno, il pensatore torinese ha tratteggiato quel filo rosso che, a suo dire, unisce Progresso e Infrastrutture, Alta Velocità e opposizione a uno Stato che rifiuta di dar ascolto alla popolazione. È volato alto, il professore, trattando a tavola di «Grandi opere e grandi narrazioni», come sintetizza in un colloquio con Lo Spiffero. Piatto forte: la critica alle istituzioni che da anni «truffano l’Europa e non adempiono alle stesse condizioni imposte da Bruxelles». E sul crinale delle teorie giusnaturaliste e del diritto positivo, sull’esercizio del potere da parte di uno Stato che tradisce la stessa essenza della rappresentanza democratica, il vispo Gianteresio concede la piena legittimità alla lotta No Tav, sovvertendo – lui che da natali democristiani sale oggi sulle barricate con le sue 77 primavere sul groppone – il luogo comune che vuole imberbi incendiari tramutarsi in attempati pompieri.
E alla vigilia della “notte dei fuochi”, in programma questa sera a partire dalle alle 23 al campeggio di Chiomonte e sulla strada che da Giaglione porta al cantiere all’altezza dell’autostrada, ha infiammato la platea. Ma in che modo la contrarietà a un’opera può conciliarsi con le azioni violente di questi ultimi mesi? È possibile giustificare l’uso della forza da parte di un movimento che nei fatti agisce legibus solutus? Come sempre, è questione di mezzi e fini, come diceva Benjamin “la giustizia è il criterio dei fini, la legalità è il criterio dei mezzi”. Per Vattimo tali azioni sono legittime: «Le manifestazioni e i blocchi stradali sono utili di fronte a un vuoto di democrazia. In una valle in cui lo Stato ha preferito la militarizzazione all’ascolto». E ancora: «Le inadempienze pubbliche giustificano forme di lotta non istituzionale». Insomma, lo Stato viene meno ai propri doveri, rompe il patto con (una parte) dei suoi cittadini e questi si riappropriano di prerogative, come l’uso della forza e della coercizione, per perseguire i propri obiettivi.
Vattimo, studioso di Heidegger, è proprio dal padre dell’esistenzialismo che prende le mosse, secondo il resoconto che fa Luciano Davi sul suo blog. “La vera emergenza è la mancanza di emergenza” sosteneva il filosofo tedesco da sempre contrario alla metafisica. «Bisogna recuperare l’esistenzialismo» sostiene Vattimo, rendersi conto attraverso esso che viviamo per lottare. Heidegger sosteneva che l’esistenza fosse “progetto”, che l’uomo rappresentasse di per sé l’idea del cambiamento. E Heidegger non è Kant, che ha occhi per osservare il mondo, per descriverlo e sistematizzarlo; per Heidegger l’uomo è “progetto”, non guarda il mondo per prenderne atto, ma per cambiarlo. L’idea di osservazione che ci è stata tramandata è un’idea statica di contemplazione, di una realtà ordinata. È quindi più facile intimare di cambiare se stessi che cambiare il mondo; ma il conflitto, generalizzato ormai, si stringe attorno a un capitalismo di sfruttamento che collide con tutto il resto della società che rimane esclusa. La tecnicizzazione della politica che si è avuta in Italia è il percorso che dai tecnici, di per sé neutrali nelle proprie specifiche competenze, rimette la gestione della cosa pubblica, della politica, in mano ai banchieri. “Persino Gobetti” dice Vattimo “si scandalizzerebbe a vedere calare dall’alto tecnici che impongono una stasi ad un sistema che, anziché progredire, retrocede all’interno sempre del medesimo schema composto da uno sfruttato e da uno sfruttatore”. Nulla come il conflitto può innescare quel cambiamento che è progetto, sia a livello umano sia a livello sociale. E la lotta NoTav risiede proprio in una logica di conflitto. “Vivo politicamente perché ci siete voi” dice Vattimo, “perché ci sono fenomeni di lotta come il NoTav o il NoMuos”. Poiché l’unica speranza risiede nella moltiplicazione dei conflitti territoriali. In questo senso allora, le lotte sprigionate dai conflitti territoriali non solo promuovono il cambiamento, ma arginano quel pericolo di tornare al fascismo che risiede nel crescendo di difficoltà e conflitti sociali in corso. Sono le azioni locali, diffuse, che ora come ora si offrono come unica azione atta a impedire l’insorgere di un regime in piena regola. È necessaria la filosofia per non perdersi nei conflitti di parte, perché ogni conflitto è calato in un conflitto globale.
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Daniele
Finalmente si svegliano alcuni intellettuali dopo decenni di sonno e di silenzio, del resto Gaber l’aveva detto.