La forza conflittuale e la difficoltà di inquadramento nelle tradizionali categorie politiche del movimento del 9 dicembre ha colto molti di sorpresa. La confusione regna quindi sovrana. Non tanto però nelle strade e nelle piazze italiane, quanto piuttosto nelle menti di una frastagliata galassia di gruppi e gruppetti di movimento. Come molti di voi avranno avuto modo di notare, l’eterogeneità di atteggiamenti ed opinioni tra realtà che sono espressione di aree politiche definibili come contigue, è quantomeno sorprendente. Sento quindi anch’io l’esigenza di intervenire in un dibattito che è stato ricco, interessante ed anche polemico. Con l’obiettivo di sviluppare un’analisi lucida, che eviti le contingenze del presente, necessariamente devo partire dall’individuazione di quegli elementi strutturali che permettono la connotazione della protesta all’interno di una preciso milieu politico e culturale. Per quanto la seguente esposizione possa apparire piatta, monotona ed eccessivamente scolastica nel suo procedere, ritengo che la chiarezza sui concetti utilizzati sia necessaria per evitare fraintendimenti.
I primi elementi da individuare sono certamente quelli sistemici, ovvero quelli storici e di lunga portata. Partiamo dal discredito della democrazia rappresentativa. Come scritto anche in precedenti articoli, la graduale scomparsa dei partiti di massa è stato il frutto di un processo dialettico tra condizioni presenti all’interno della società e le strategie di competizione seguite dai partiti. Nel passato, le tradizionali forze di massa, dotate di un ampio bagaglio ideologico, di sezioni territoriali ed organizzazioni ad esse affini, avevano determinato un incapsulamento degli elettori. Questo si traduceva in un’alta fedeltà partitica, in una rappresentazione di sé come appartenente ad una comunità di valori e credenze, in una bassissima volatilità elettorale. Tale forma-partito è stata però sfidata dalle trasformazioni imposte dall’affermazione della società post-fordista e dal graduale, seppur sempre parziale, successo del welfare state. Questi cambiamenti hanno infatti ridotto, nei decenni passati, le differenze presenti all’interno della società. I partiti socialdemocratici, propriamente detti oppure mascherati, come nel caso italiano, dietro l’appellativo comunista, hanno quindi gradualmente avvicinato un modello di partito in grado di poter conquistare il supporto, e soprattutto il voto, non solamente di una specifica classe di riferimento, ma di interessi e forze alquanto più eterogenee. Questi partiti, specchiando la realtà, hanno, almeno in parte, contribuito a crearla, indebolendo così il principale asse di conflitto sociale e politico che aveva attraverso l’Europa Occidentale nell’ultimo secolo e mezzo: quello tra capitale e lavoro. Più in generale, tutte le forze dell’intero spettro politico hanno assunto una forma partitica definibile come leggera: concentrazione delle risorse nella leadership, ridotto potere per iscritti e militanti, e graduale distacco dalle proprie organizzazioni collaterali ed intermedie. Per tali ragioni, le forze partitiche hanno conosciuto un significativo distacco dalla società, nella quale i numerosi interessi presenti e confliggenti, non hanno più trovato espressione. Il partito leggero rappresenta quindi la negazione della forma-partito stessa, almeno per come concepita nella teoria liberal-democratica: ovvero, di quella struttura organizzativa in grado di raggruppare all’interno di un disegno coerente le domande presenti. Non passi quello che non voglio affermare: le forze socialdemocratiche costituiscono infatti un travisamento dei veri interessi di classe, che si esplicano invece necessariamente nel cambiamento radicale del presente. Tuttavia, la dismissione di queste non in favore di forze partitiche strettamente classiste, ma di formazioni ancora maggiormente moderate, costituisce un ulteriore indebolimento delle istanze e della forza per le classi lavoratrici. In tal senso rivendico l’importanza non solamente di fotografare il presente, ma anche di leggere la direzione del cambiamento.
Il secondo aspetto di rilievo è il discredito di cui “godono” la classe politica e le élites in genere. Al riguardo si confrontano due teorie: da un lato quella tipica della liberal-democrazia, ovvero la convinzione che la classe dirigente sia specchio, più o meno fedele, di virtù e vizi della società nella quale opera; dall’altro la visione delle élites come corrotte e responsabili dei mali di una società vista come sostanzialmente ordinata, laboriosa ed onesta. Questa seconda rappresentazione è tipica dei movimenti populisti. Non temete non si lancia il sasso e per ritirare la mano. Al contrario, proprio perché serve una lettura radicale, ovvero serve comprendere i fenomeni alla radice, è utile fornire una precisa definizione dei movimenti e dei sentimenti populisti. Questi tendono a dare una rappresentazione della società come formata da due gruppi omogenei ed antagonisti: da un lato il nudo e semplice popolo, dall’altro le élites corrotte. Il populismo è quindi per sua natura una caratteristica ideologica di tutte quelle forze che, per quanto abbiano posizioni politiche anche visibilmente diverse, sono caratterizzate da un’intrinseca visione anti-marxiana. Il populismo infatti, con la sua rappresentazione del popolo come corpo unico e coeso, nega implicitamente l’esistenza delle classi. Più specificatamente costituisce il retroterra culturale del fascismo. Questo, facendosi portatore di una visione corporativistica della società, aspira infatti a fondere tutto il popolo in una comunità immaginata, la nazione appunto. Più nello specifico promuove il primato della politica sull’economia e dell’interesse nazionale su quello delle classi, concetto discreditato e sostituito dalla solidarietà collettiva di tutti gli appartenenti alla comunità. Nega inoltre legittimità non solamente alla democrazia rappresentativa, ma ai partiti stessi, lasciando al capo carismatico il compito di interpretare la volontà del popolo e guidarlo. Detto francamente, se non si comprende il nucleo forte della differenza tra le due teorie politiche, fascismo e comunismo, che hanno sfidato la liberal-democrazia nel corso del Novecento, sembra impossibile poter ragionare lucidamente sul presente. In estrema sintesi, nella vulgata fascista il concetto forte è quello di popolo, che costituisce la negazione delle classi e viene esplicitato nell’organizzazione corporativistica della società. Al contrario, la teoria marxiana nega con fermezza la rappresentazione del popolo come soggetto unitario. La società è infatti divisa in classi, portatrici di interessi divergenti ed antagonisti per loro natura. In particolare, dato che la produzione di ricchezza nel capitalismo si fonda sul furto di tempo ed energie che colpisce coloro i quali non godono della proprietà privata dei mezzi di produzione, il non superamento della divisione in classi della società, come prospettato dalla teoria fascista, significa semplicemente perpetuare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In tal senso la classe lavoratrice rappresenta l’unica portatrice di un interesse non particolaristico, in quanto non riconducibile ad alcun settore specifico della società, come invece prospetta in un’ultima istanza il concetto di popolo.
Tornando all’oggi, le ragioni che forniscono estrema legittimità a movimenti ed idee populiste sono sostanzialmente tre: la non articolazione degli interessi settoriali e specifici delle varie classi presenti; il favorevole clima culturale creato da tutti quei giornalisti (per fare alcuni nomi, da Marco Travaglio al duo Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella) che hanno alimentato, descrivendo peraltro comportamenti palesemente indifendibili, la visione della classe politica come un gruppo di nominati e corrotti (evidenziando così il sintomo, ma non la malattia, che come abbiamo provato a descrivere risiederebbe altrove); la retorica comune a tutti i partiti mainstream sulla necessità di sacrifici da parte dell’intera società, vista così come un blocco unico.
Appare quindi evidente come gli elementi strutturali siano favorevoli all’affermazione di idee riconducibili alla cultura fascista. Si aggiunga anche che la visione di classe richiede un sforzo politico ed ideologico indiscutibilmente maggiore. Al contrario le idee populiste sono straordinarie scorciatoie cognitive di facile utilizzo. La presa di coscienza del ritardo strutturale e della debolezza organizzativa delle formazioni di classe deve quindi spingere ad una serena presa di coscienza di operare in una situazione difficile. Volgendo invece l’attenzione agli elementi contingenti, non serve perdere parole per descrivere nuovamente la situazione economica presente. I processi di impoverimento e di proletarizzazione di coloro che si auto-rappresentavano, magari senza esserlo, come ceto medio sono evidenti. Così come i tentativi di ridurre costantemente il costo del lavoro, attraverso l’iper-precarietà delle forme contrattuali ed il costante ricatto costituito da un immenso esercito industriale di riserva, leggasi disoccupati. Qui però l’analisi nei tanti gruppi di movimento sembra abbastanza condivisa ed omogenea. Ovviamente più spinoso rimane il nodo su come rapportarsi a quanto sta accadendo in questi giorni in Italia. Gli elementi da tenere in considerazione qui sono tre: la composizione sociale dei contestatori; la guida politica dell’agitazione; le richieste avanzate dai soggetti che hanno promosso questa protesta. Sugli ultimi due punti, molto è stato detto e scritto. Appare evidente come tutta l’estrema destra italiana, magari abilmente camuffata, sia pienamente impegnata nel fornire manodopera nel tentativo di alimentare la protesta. Inoltre per le parole d’ordine dell’agitazione e per il clima politico e culturale già precedentemente descritto, sembra evidente come movimenti e gruppuscoli fascisti siano di gran lunga i più accreditati per guidare legittimamente la protesta.
Maggiormente complicata è invece la trattazione della composizione sociale dei contestatori, che sembra, almeno in parte, dipendente da variabili locali. Maggioritaria dovrebbe comunque essere quella parte di piccola e piccolissima borghesia, colpita dalla sempre più flebile ridistribuzione spaziale di ricchezza. Questi settori hanno indiscutibilmente costituito il nucleo forte del fascismo italiano. Tuttavia, molte ricerche in campo sociologico (tra gli altri ricordiamo Barrington Moore Jr. e Theda Skocpol) hanno avuto il merito di condurre il marxismo fuori dalle secche della contrapposizione eccessivamente statica e duale operai-padroni. Il loro indiscutibile merito è stato quello di problematizzare il ruolo delle altre classi. Queste, per quanto siano portatrici quasi naturali di tendenze reazionarie e conservative, possono, in determinate condizioni sociali e storiche, fornire un supporto, anche decisivo, al superamento del capitalismo. La domanda che occorre porsi è quindi semplice: esistono tali condizioni? La risposta che è, desolatamente, negativa. Per la semplice ed evidente ragione che l’assunto dal quale bisogna partire è il carattere non genuinamente rivoluzionario delle classi in questione. Queste possono quindi precipitare nell’atmosfera rivoluzionaria, abbracciandola e facendosi abbracciare, ma non ne costituiscono il pilastro principale, in quanto portatrici in genere di domande ed istanze reazionarie.
La proposta si basa quindi sulla confutazione di alcune posizioni assunte da svariati compagni ed amici negli ultimi giorni. In prima istanza negare la bontà del “movimentismo per il movimentismo”. Per semplicità si può dire che muovere un passo avanti nella direzione sbagliata sia più pericoloso che rimanere fermi. Da rifiutare, inoltre, l’alternativa proposta da qualcuno tra tentativo di prendere la direzione dell’agitazione e la creazione di un fronte democratico con le forze di governo. Per una ragione che travalica una ferma contrarietà ai Fronti Popolari degli anni trenta. Semplicemente infatti mancano sia forti movimenti e partiti apertamente sleali verso il regime, sia quelle forze social-democratiche in grado di giocare un ruolo decisivo per la difesa dall’assalto fascista. Alcuni dati aiutano a chiarire meglio il quadro. Il 53% di chi ha votato alle primarie del Pd ha più di 55 anni, quasi un terzo sono ultra 65enni, mentre i pensionati rappresentano la bellezza del 34%. Insomma, questo partito si presenta dal punto di vista socio-demografico come assolutamente residuale e come slegato dai ceti produttivi e dalle coorti di età più giovani. Per questo, tra un’opzione sbagliata (provare a cavalcare la protesta) ed una fuori dal possibile (la creazione di un fronte popolare con chi non rappresenta la società) l’unica strada possibile sembra un’intensificazione della propaganda di classe.
Perché delle due l’una: classi oppure popolo. Tertium non datur. Soprattutto, senza struttura organizzativa adeguata non esiste nessuna possibilità di una rappresentazione di classe della società. Insomma, con l’orizzontalità delle relazioni abbiamo scherzato anche troppo, adesso serve avviare il processo costitutivo di nuove ed efficaci forme di organizzazione. Ovvero delle pre-condizioni per rendere possibile il precipitare delle classi in via di proletarizzazione in un’atmosfera realmente rivoluzionaria e non reazionaria.
da http://www.inventati.org/cortocircuito
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