La neutralità non esiste. Ogni cosa vive nella contraddizione. Questo vale soprattutto quando si parla di analisi e lotta. E in questo il tutto si schiera: la teoria, la pratica, la scienza, l’arte, il linguaggio, l’idealità/l’ideologia. Di chi e per chi.
Per questo reputiamo che il libro “Dove sono i nostri” sia un nostro libro. E’ nostro perché, chi l’ha scritto, lo ha scritto per un “noi” classe e militante. Perché usa i nostri riferimenti mettendoli alla prova e ritrovandoli in pieno. Parliamo dei rapporti di produzione.
Parliamo di lotta di classe e di rapporti sociali. Parliamo della centralità del conflitto capitale/lavoro.
Il metodo di approccio è quello scientifico: prassi/teoria/prassi. E’ il metodo che mette a dura prova il tutto senza scorciatoie. Bisogna imparare passo passo partendo dalla situazione concreta per arrivare a una analisi concreta e tornare ad agire nella realtà. Su questo non ci sono sofismi che tengano: moltitudini, fine del lavoro, cognitariato, beni comuni…
No compagni e compagne: la sfida è un’altra. L’idea di una società interclassista non regge e l’idea di una “coscienza critica” non è capace e ha le armi spuntate per affrontare la realtà. Quello che serve è lo sviluppo della coscienza di classe. Una classe che agisca per sé.
Ma per fare questo serve sporcarsi le mani. Andare ed entrare in contatto con la classe. Procedere in dialettica con il metodo dell’inchiesta e con la partecipazione diretta e indiretta nella lotta. Senza andare a portare il verbo, ma parlando e partecipando ai picchetti, facendo controinformazione e sperimentando strumenti. Come nel caso Ikea e l’attacco portato all’immagine della multinazionale svedese colpendone il portale aziendale. O sostenendo lavoratori nelle vertenze in ogni modo: dalla cassa di resistenza alla creazione di solidarietà con altri lavoratori in altri luoghi e/o altri settori.
Questo è il primo passo: esserci. E quindi riportare il tutto in un’analisi che sappia ragionare su un livello superiore. Riportando il vertenziale specifico verso il politico. Senza la presunzione di aver raggiunto il compiuto, ma sapendo che quanto detto e fatto va riportato nella pratica e riverificato. Senza mai sovradeterminazioni di alcun tipo. Studiando strumenti nuovi. Come nel caso dei facchini che partendo dalla piccola lotta contro la propria cooperativa hanno identificato nella pratica che il nemico vero è chi comanda la filiera.
Questo è il libro. Un’analisi delle classi. Una fotografia ben curata che non fissa il momento ma la tendenza. Che ci dice parecchie cose. In primis che la deindustrializzazione non è un fatto netto come molti ci han raccontato in questi anni. La manifatturiera, in Italia, non è infatti sparita e quindi neanche l’operaio. Si è creata invece una nuova forma che ha superato il fordismo classico dove tutto partiva e finiva nello stabilimento. Si è passati a forme di esternalizzazione della produzione con meccanismi a filiera nazionale e internazionale. Si è ridefinito statisticamente e giuridicamente il mondo del lavoro con una rappresentazione (sovraesposta) dei servizi. Ma anche, aggiungiamo noi, un mondo dove le merci non sono prodotte e consumate in prevalenza nel luogo di partenza, ma si assiste a un mondo di servizi per la gestione di merci in transito. Magari proprio dei pezzi, in arrivo da lontano, che poi saranno assemblati nei vecchi stabilimenti.
Una diversa divisione internazionale del lavoro che vede la classe operaia aumentare esponenzialmente nel mondo e ridefinirsi nel locale (stato imperialista) non dimenticando il ritorno degli strumenti per l’incentivazione degli investimenti a scopo industriale nei paesi avanzati (Usa, Francia, Gb, Germania). L’Italia è in ritardo ma non è detto che non ci arrivi.
Sfruttamento quindi ripartendo dalla fatica del lavoro dato dal proletario (finalmente tornano i nostri termini) che indossa anche altri indumenti oltre alla tuta blu. Dall’estrazione vera di plusvalore a quello al lavoro del cosiddetto “improduttivo” finalizzato però e comunque alla merce vera. Dal libro si riportano elaborati Istat, Intesa San Paolo e altri dati analizzati dal mondo padronale che confermano che una società di soli servizi è perdente nella competizione internazionale.
Allora si evidenzia la strategia del capitale dalla crisi (che arriva da lontano): compressione dei salari e dei diritti. La finanziarizzazione quella vera (capitale industriale + bancario) e quella fittizia (la speculazione con moneta e profitti di carta che bruciano periodicamente) in un ambito di crisi (e tendenza alla guerra) di sovrapproduzione di capitali, merce e lavoro deve ribadire che il comando è prerogativa di un’unica classe (che restringe spazi politici e diritti dei lavoratori) e che i salari devono essere ridimensionati su livelli di giusta valorizzazione. In ciò abbassando i salari nei paesi avanzati sapendo che quelli dei paesi emergenti sono in crescita. Il livellamento (in termini relativi e non assoluti) deve essere sufficientemente vantaggioso per riportare i capitali in terra d’occidente. E quindi jobs act, che si affianca ai tanti attacchi di questi decenni, ma che porta il colpo definitivo o quasi a questo livellamento al ribasso.
E in ciò c’è altro. Oltre la frammentazione della classe, anche la creazione di marginalità. Di genere: l’espulsione parziale delle donne o, quantomeno, nella sostanza dei loro diritti e dei loro salari. Dell’uso ricattatorio e volutamente provvisorio dei migranti. E la creazione o il mantenimento dell’esercito industriale di riserva (questione meridionale).
Ma tutto è parte di una classe da ricomporre. Cadere nella genericità dei ceti fa perdere l’orientamento. Ed è quello che vuole il capitale. E comunque bisogna saper agire nelle sfumature. La classe è una ma le parzialità possono avere caratteristiche appunto parzialmente proprie. La battaglia politica è unica. Ma la vertenza può subire attacchi specifici: si pensi alle lotte nella logistica e in particolare alla Granarolo con il ricatto della revoca del permesso di soggiorno nei confronti dei facchini in lotta e sotto denuncia.
Ma il proletariato è la maggioranza. E il capitale (la minoranza) lo sa. A pagina 15 del libro c’è la sintesi: il punto che dobbiamo ritenere è che, se guardiamo alle grandi trasformazione storiche, notiamo che non è tanto la grandezza della piazza o la violenza dello scontro, ma l’incidenza nella sfera di produzione della ricchezza ad aver dato a chi si mobilità una potenza enorme, ad aver “regolato” i rapporti fra le classi.
Ed ecco quindi il punto. Gli interessi di classe, i nostri diritti non sono compatibili con il profitto. Oggi più che mai con la crisi e il livellamento al ribasso. Sono finiti quaranta anni (ma forse prima) fa i punti di mediazione che in occidente si identificavano con il compromesso sociale. La caduta tendenziale del saggio di profitto ha il punto di rottura in quel periodo. Da allora subiamo l’attacco padronale progressivo mosso dalla crisi e dalla nostra sconfitta. Un attacco che cavalca la situazione e non per forza del tutto calcolato o prevedibile. Il capitale non si muove come corpo unico e non ha capacità di visione a lungo termine. Le contraddizioni intercapitalistiche e l’anarchia del mercato lo investono e lo attraversano. Ma la sconfitta gli ha dato campo libero: nel corso del tempo il capitalismo ha riconosciuto le tendenze strutturali e ha agito riconquistando spazi sovrastrutturali. Non si parla tanto dello stato (strumento repressivo e di contenimento del conflitto con polizia, politica e ambito normativo) che comunque ha sempre condotto in quanto suo strumento di intervento. Ma si parla del conflitto sociale in se (p.e. fabbrica e salario indiretto) ove l’incidenza “nostra” è stata sempre più inadeguata anche per colpe e sconfitte “nostre”. I militanti non hanno saputo muoversi nel contesto e, soprattutto, non hanno saputo parlare alla classe e di classe.
Caduti nei sofismi (come detto all’inizio) o non mettendo in discussione fino in fondo l’egemonia (soprattutto organizzativa) dei sindacati concertativi ( passati nel campo avverso già ai tempi del “salario variabile dipendente”) e dei partiti di sinistra borghese, compresi anche quelli di mediazione istituzionale oggi ex parlamentari (oggi marginali e inutili al comitato d’affari).
Non esiste quindi neutralità. Non esistono mediazioni possibili se non ulteriormente peggiorative. La struttura (modo di produzione capitalistico) non è la nostra. La sovrastruttura non è la nostra. Il neocorporativismo è il primo problema e il primo rifiuto da porre. Non esistono mediazioni. La tendenza è la messa in discussione generale dello stato di cose presenti. E l’unico soggetto che lo può portare è chi ha l’incidenza nella sfera di produzione della ricchezza: i lavoratori.
Il testo suggerisce poi che l’oggettività dei processi di crisi del modo di produzione capitalistico non è di per sé elemento sufficiente al definirsi di una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria in assenza di una soggettività in grado di coglierne le complessità. Individua inoltre nel neo corporativismo interclassista uno dei nodi da affrontare con la comprensione precisa di cosa ciò comporti. Propone un superamento della marginalità genetica dei movimenti che si occupano astrattamente “del tutto e del niente” senza misurarsi con i parametri veri e strutturali del conflitto.
Questo libro, in sintesi, non è un’operazione nostalgica, al contrario vuole essere strumento vivo per rimettere al centro dell’agenda politica il conflitto nella sua essenziale cruda verità di incompatibilità di interessi tra classi contrapposte.
In maniera divulgativa, chiara e sostanziata ma senza nulla concedere a “modernismi” che nel tempo hanno contribuito a modificare al ribasso gli obiettivi.
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