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I fenicotteri di Alice: l’impossibilità necessaria del “sovranismo politico”

1.       Sovranità ambigua

Certamente vi ricorderete di quel divertente passo del celebre libro di Lewis Carrol in cui Alice viene costretta dalla Regina di Cuori a giocare una curiosa partita di croquet, usando dei fenicotteri al posto delle mazze e come palla dei ricci che scappano da tutte le parti. I fenicotteri, sfortunatamente, si contorcono e si piegano a destra e a sinistra, in su e in giù pur di schivare la palla-riccio, risultando drammaticamente inutilizzabili nelle mani di Alice, che non è in grado, quindi, di assestare il colpo. Il gioco rimane così bloccato. La situazione ricorda l’uso politico che viene fatto del sovranismo. La sovranità – sia essa pensata naturaliter come omogeneo e rassicurante cerchio comunitario, o come l’ultimo bastione di resistenza del welfare contro l’illimitatezza tecno-nichilistica del capitale[1] , o come la garanzia di autentica democrazia popolare – sfugge inevitabilmente a chiunque la voglia afferrare, anche per finalità più che legittime di emancipazione politica, di trasformazione dell’esistente, di liberazione dai diktat neoliberali della governance europea, ecc.

Un recente esempio viene dall’Ucraina, in cui nel medesimo paese il richiamo alla “sovranità” è stato usato per sostenere progetti e posizioni politiche diametralmente opposti, che vanno dall’estrema destra di Pravy Sektor, Svoboda e dei gaglioffi di Poroshenko (sostenuti dalla NATO globalizzata), alla resistenza dei ribelli, ucraini, appunto, maldestramente fatti passare come “filorussi” secessionisti. È chiaro dunque che la sovranità nazionale è uno strumento da maneggiare con molta cura, perché è appunto un mezzo che può di volta in volta piegarsi per l’affermazione di principi sacrosanti di liberazione e di emancipazione, così come ispirare i disegni più reazionari e vetero-fascisti. È un dispositivo che va usato, quindi, tatticamente e di cui i lavoratori e, più in generale, la massa di cittadini e ceto medio impoverito possono servirsi per rovesciare radicalmente l’opprimente sistema capitalistico, ma che in ogni caso non è “puro” e porta con sé delle contraddizioni interne, essendo uno spazio sempre differenziato ed eterogeneo, orientabile a seconda di precise logiche egemoniche (Gramsci, Laclau). Del resto, lo stesso Lenin differenziava il nazionalismo delle nazioni oppresse dal nazionalismo delle nazioni oppressive, in buona compagnia di Marx, che considerava le lotte di liberazione nazionale come parte fondamentale e integrante della lotta di classe, distinguendo tra il nazionalismo inglese, imperialista e coloniale dalle lotte di liberazione in Irlanda e Polonia. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, basti pensare alla questione basca, se vogliamo rimanere in Europa, o alla questione palestinese (chi sostiene la lotta dei proletari uniti contro le borghesie arabe e israeliane, oltre a cimentarsi con un nuovo genere letterario fantapolitico dai risvolti sadiani, dovrebbe farsi vedere da uno bravo).

La sovranità non va dunque intesa in modo essenzialistico, sovrapponibile sic et simpliciter allo Stato-nazione e nemmeno può essere concepita come “suprema potestas”, in diretta corrispondenza con la triade popolo-territorio-potere (Jellinek). Il “superiorem non recognoscens” è sempre stato, chiaramente, una finzione giuridica (con buona pace di Bodin, Hobbes, e dei loro epigoni luttwakiani). Dal momento in cui si è affermata come principio politico di ordine la sovranità è sempre stata limitata. Limitata all’intero (pensiamo al costituzionalismo liberale che ha circoscritto una sfera di diritti individuali indisponibili al potere statale, o alle lotte del movimento operaio che hanno invece forzato la sovranità in senso sociale), e limitata all’esterno (per il semplice fatto che un governo mondiale non esiste e gli stati si trovano in realtà policontestuali in cui cooperano, si alleano, si ostacolano commercialmente, si fanno guerre, costruiscono organismi sovranazionali ecc. ecc. (con buona pace, questa volta, dei sostenitori del capitalismo-unitario-finanziario-mondiale-plutocratico-massonico che decide tutto durante gli incontri del Club Bildenberg).

Detto questo, senza dubbio è più che legittimo parlare di un utilizzo politico della sovranità nazionale, nella contingenza, in un luogo preciso, in un dato momento storico. Questo uso tattico può avere un significato di avanzamento e di proiezione verso l’emancipazione da un regime oppressivo. L’importante conseguenza teorica da trarre è, dunque, che il concetto di sovranità non può essere banalmente archiviato come ferro vecchio del passato, superato dalle magnifiche sorti progressive della globalizzazione. Occorre però calare l’analisi nella situazione concreta europea, vedere che cosa è cambiato e liberarsi dalla “sindrome della confisca” e da un atteggiamento di semplice “recupero” della sovranità, pensando che le lancette del tempo si possano spostare comodamente all’indietro, ripristinando quello che c’era prima: un’idea di sovranità originaria, esclusiva ed universale, spesso inserita tutto sommato in un quadro di democrazia liberale (costituzione, diritti, garanzie). Un sistema che è andato definitivamente in pezzi e che non era affatto il migliore dei mondi possibili (come non era il migliore dei mondi possibili l’ormai irrecuperabile patto capitale-lavoro keynesiano).

 

2. L’UE: da un progetto clandestino all’accountability

Come si è trasformata la sovranità in Europa? In quella porzione di mondo che è in realtà una piccola penisola, ultima propaggine del continente euroasiatico, è avvenuto qualcosa di molto singolare. Gli studiosi di diritto europeo e di scienze politiche vi fanno riferimento come “esperimento inedito”, “sistema ibrido”, “costruzione sui generis” ecc. per sottolineare il fatto che rappresenta un unicum politico che non ha precedenti nella storia, essendo irriducibile ad alcun modello istituzionale presistente. Per la verità studiosi attenti come Pier Paolo Portinaro, esplorando la complessa genealogia delle istituzioni europee[2], hanno trovato interessanti analogie dell’UE con il Sacro Romano Impero e con una modellistica che per certi versi richiama a costruzioni neo-imperiali, neo-gotiche e alle dottrine del governo misto. Non è dunque pienamente accettabile la tesi positivista che non si accorge dei ritorni ciclici (polis-impero-Stato) nella storia istituzionale europea. Sicuramente però abbiamo a che fare con un sistema che non è riconducibile al modello westfaliano degli stati, ma nemmeno pienamente a quello cosmopolitico kantiano (Habermas). L’UE non è una semplice organizzazione intergovernativa (come il FMI, l’OMC, ecc.), ma non è neppure una federazione (come gli USA), tanto meno può essere paragonata all’ONU, avendo un carattere regionale e abbracciando uno spazio territoriale (certamente dai confini indefiniti, porosi, selettivi, ecc.), ma pur sempre dotato di una propria dimensione geopolitica. L’aspetto singolare, sui generis, appunto, della costruzione europea è quello derivante dalla disgregazione dello jus publicum europaeum, un sistema di stati che si riconoscevano reciprocamente come justi hostes, da cui è sempre disceso il principio “unitario” europeo che ad una pluralità conflittuale interna corrispondeva una chiara riconoscibilità imperialistica esterna. Questa disgregazione non ha, come spesso si crede, portato all’indebolimento degli stati[3], ma ha consentito al capitalismo europeo di riorganizzarsi e reinventarsi una sopravvivenza degli stati stessi (o pezzi di stato)  in una nuova forma di “statualità”, e di ordine, secondo il principio della “sovranità condivisa” (eterodiretta dagli USA). Alcuni giuristi tedeschi, come Thomas Opperman, hanno provato a interpretare questa costruzione come parastaatliche Superstruktur (una superstruttura parastatale contenente il “con”, il “fra” e l’ “oltre” gli stati)[4]. Approcci esclusivamente giuridici rimangono, tuttavia, impigliati nella modellistica istituzionale e nel descrittivismo, trascurando, a mio avviso, la dimensione propriamente ideologica. La costruzione delle prime comunità europee, CECA (1951) e CEE (1957), che superavano il modello delle cooperazioni intergovernative, basato sugli accordi tra le cancellerie su obiettivi minimi, senza “cessioni” di sovranità, avvenne grazie alla saldatura tra due dottrine che risultarono essere il collante ideologico dell’intera costruzione comunitaria: l’ordoliberalismo e il funzionalismo. Quest’ultimo, in particolare, operò una svolta epistemologica nel campo delle relazioni internazionali, affermando il principio del politologo David Mitrany: “to link authority to a specific activity. To break away from the traditional link between authority and definitive territory”[5], separare l’autorità da un territorio sovrano per legarla, invece, ad un’attività specifica, ad una funzione. Mitrany anteponeva la “funzione” all’interesse e alla raison d’État. Sovrana era appunto la funzione, il “come si decide” e non “chi decide”. In base a questo assunto l’idea di sovranità poteva benissimo sciogliersi in un sistema di norme extra-statali, in regimi regolatori che debordavano necessariamente la sfera nazionale, poiché esigenze funzionali (trasporti, energie, comunicazione ecc.) dovevano essere gestiti in modo congiunto, al di fuori dallo Stato. Mitrany non vedeva nemmeno con particolare simpatia le unioni continentali di stampo federale, retaggio di un modo “westfaliano” di intendere l’esercizio del potere. La CECA seguì esattamente questo indirizzo funzionalista: condividere funzioni (la gestione del carbone e dell’acciaio), prima di condividere sovranità. Naturalmente il progetto fu portato avanti in modo assolutamente clandestino. Jean Monnet, il vero artefice di quest’opera di “unificazione”, figlio di un venditore di cognac, inserito negli ambienti industriali che contano, amico di capi Stato e di governo, agì in totale segretezza preparando ben nove progetti, negoziando dietro le quinte con i paesi che dovevano costituire la spina dorsale dell’Europa unita: la Francia (nella persona di Robert Schuman) e la Germania (il cancelliere Konrad Adenauer), incontrando più volte Dean Acheson, il segretario di Stato americano e tessendo, così, una fitta rete di contatti a latere delle cancellerie. Non è superfluo notare che Monnet, pervicamente ostile ai diplomatici, di cui diffidava, affidò l’ultima versione del progetto CECA (che poi divenne il cosiddetto Piano Schuman del 1950) ad un suo stretto collaboratore che, in un rocambolesco viaggio in treno verso Bonn, lo consegnò direttamente ad Adenauer[6]. L’approccio funzional-federalista, preparato nelle anticamere, approdò infine alle camere… La dottrina dello spill-over, “a cascata” (alla base del neo-funzionalismo europeo) consisterà nell’approfondimento dell’idea monnettiana che a forza di condividere funzioni, gli stati si sarebbero uniti politicamente (dal carbone e l’acciaio, si sarebbe passati al mercato dei beni e servizi, da questo alla necessaria abolizione delle barriere tariffarie e tecniche, dalla libera circolazione dei fattori produttivi si sarebbe infine passati alla creazione di una moneta unica, all’unione fiscale e infine a quella politica). Un processo settoriale di tipo incrementale che il funzionalismo, in modo teleologico, proiettava verso la realizzazione dell’Europa politica. Il continente europeo, dal dopoguerra in poi, si sarebbe sviluppato come progressiva e ineluttabile integrazione verso una necessaria condivisione di sovranità, prevedendo una comunitarizzazione verticale chiamata approfondimento (aumentare i settori in cui votare a maggioranza qualificata, eliminando man mano la richiesta di unanimità e dunque il potere di veto da parte degli stati) e un allargamento geografico (progressivo ingresso di nuovi paesi membri). Walter Hallstein (primo presidente della Commissione) vedeva in questo processo già di per sé un fenomeno politico, trascurando però il fatto che i trattati non fondano una comunità politica (Plessner) e che il monito federalista di puntare su un processo costituente coglieva un punto dirimente: non ci può essere unione politica se non si affronta la questione del popolo. Ma prima di occuparci di questo problema (e dei limiti di questa falsa questione), occorre qui riassumere sinteticamente alcune provvisorie considerazioni per capire la trasformazione della sovranità in Europa: 1. L’europeismo è un’ideologia fortemente frammentata al suo interno (funzionalismo, federalismo, intergovernativismo non sono che le principali pre-teorie che hanno portato alla formazione di altrettante dottrine che hanno definitivamente superato la semplicistica dicotomia sovranazionalismo-stato/nazione 2. L’europeismo si fonde con l’ordoliberalismo e con l’economia sociale di mercato e, insieme alla grande narrazione della pace in Europa, costituisce un condensato ideologico potentissimo 3. Il processo di metamorfosi della sovranità è di lungo periodo, ma non può essere letto in modo “continuista”, essendo il prodotto della lotta egemonica tra diversi approcci, specialmente a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in poi. Per esempio, studiosi neo-gramsciani come Bastian Van Apeldoorn hanno giustamente sottolineato che negli anni Ottanta si è consumata nelle istituzioni comunitarie una lotta tra neomercantilismo (industria non globalizzata), socialdemocrazia (concertazione sindacato-capitale) e neoliberalismo (integrazione nel mercato globale). Il neoliberalismo è alla fine uscito vincitore da questo scontro, ma riuscendo ad assorbire in modo egemonico e costruttivo i precedenti approcci[7].

Il carattere di clandestinità del progetto europeo – che ebbe successo fino alla fine degli anni Ottanta, poiché era riuscito con buoni risultati a gettare le basi di un ordinamento giuridico autonomo in grado di produrre un’osmosi nascosta tra il sistema europeo e quello interno degli stati, pur mantenendone formalmente intatta la sovranità – tentò (o non poté evitare) un salto, o un’accelerazione con il trattato di Maastricht, che presupponeva la fine di quello che Giandomenico Majone ha chiamato “consenso permissivo”[8]. Basti pensare ai tre principi profondamente innovativi che la CEE ha sviluppato tra il ‘57 e il ‘79:  il  primato del diritto europeo su quello interno, l’effetto diretto degli atti comunitari sui singoli e non solo sugli stati contraenti, la sussidiarietà e il “principio del mutuo riconoscimento”. Quest’ultimo, meno conosciuto, è altrettanto fondamentale per capire la natura neoliberale dell’UE. Fu sviluppato dall’attività interpretativa della Corte di giustizia, la quale con una sentenza del 1979 stabilì che “un prodotto legalmente fabbricato e commercializzato in uno Stato membro deve poter circolare in un altro Stato”, sancendo, di fatto, un primato del diritto della circolazione delle merci e della concorrenza. L’aspetto interessante è che questo principio, emerso da un contenzioso che riguardava il commercio di un liquore (il caso “Cassis de Dijon”[9]), ha poi conosciuto applicazioni estensive nei campi più diversi fino a quello lavorativo per esempio, affermando quindi un preminenza giuridica del mercato e del libero commercio in assenza di un quadro comune di tutela del lavoro. Va però precisato che non è esatto parlare di una vera e propria contrapposizione società/mercato e stato/mercato, ma che si tratta, piuttosto, di una logica istituzionale che pone la regolazione come principio cardine: l’iniezione di ordoliberalismo (“più mercato possibile e tutto lo Stato che occorre”[10]) e della cosiddetta economia sociale di mercato, ha portato alla creazione di una nuova idea di ordine (ingovernabile) e di una statualità-in-divenire, nient’affatto ad un mercato libero da vincoli e ad uno “stato-minimo”, come una retorica antiliberista si ostina ad argomentare.

La fine del “consenso permissivo”, a partire grossomodo dal periodo che va dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht nel ‘93 e, più in generale, dalla fine dell’equilibrio bipolare della guerra fredda, ha mutato radicalmente la strategia comunitaria da parte delle élite europee dominanti, portandole ad abbandonare gradualmente l’approccio esclusivamente mercatista (l’idea di un Europa incentrata sul mercato come vettore dell’integrazione) e ad adottare una sintesi tra neoliberalismo e socialdemocrazia, di cui l’idea di Europa sociale, di cittadinanza europea e di una maggiore insistenza sull’Europa politica sono i pilastri fondamentali. Colmare il deficit democratico dell’Unione diventò ben presto il mantra per il rilancio del cosiddetto processo d’integrazione. Bisognava conferire legittimità democratica a questa costruzione, occorreva creare consenso attraverso politiche consensuali e attraverso la santificazione della trasparenza, l’accountability, il “rendere conto”, appunto, trasposizione pubblica della logica privatistica che trasforma il cittadino in cliente. Tutto deve essere trasparente. Eliminata l’opacità della politica, la totalità della società civile deve auto-rappresentarsi nelle istituzioni, le quali dialogano con i cittadini, informano adeguatamente, gestiscono le policies secondo una better regulation continuamente aggiornata. La better governance[11] coincide, quindi, direttamente con la democrazia, con la buona gestione della cosa pubblica, il cui unico metro valutativo è il termometro del consenso costruito artificialmente, indicatore, tra i tanti, della governance neoliberale (come lo spread, il tasso d’inflazione, gli indici azionari ecc.). Il filosofo koreano Byung-Chul Han, ha lucidamente colto lo spirito di questa meta-governance, basato sulla glorificazione della “società della trasparenza” e della società positiva, in cui domina la  rimozione costante del negativo e di ogni opacità politica, creando di fatto “l’inferno dell’Uguale”[12].

 

3.       L’UE come sistema auto-riformante. Come rovesciarlo?

Il “deficit democratico” indica, quindi, che all’Europa mancherebbe qualcosa, sia essa la democrazia “insorgente” e conflittuale (Balibar, Negri), il potere costituente e la sua relativa costituzione europea, un’opinione pubblica europea, una cittadinanza, un popolo, una federazione compiutamente politica ecc. Il rischio, però, è che questa distinzione tra una “democrazia conflittuale” e una “democrazia istituzionale”, non stabilendo una frontiera, un taglio decisivo, rimanga sempre nell’indistinto limbo di una democrazia a venire e nella sussunzione di entrambe, de facto, nella “democratizzazione” stessa, intesa già di per sé, ontologicamente, come politica. “Più Europa!”, dunque, ma il riformismo democratico (nelle sue varianti più o meno “radical”) aggiunge: “per un’altra Europa!”, cioè qualitativamente differente. L’idea della riformabilità, tuttavia, è già pienamente inserita nella grammatica dell’europeismo istituzionale e nel DNA della stessa Unione. L’UE si è sempre più caratterizzata come un processo dinamico, evolutivo, aperto e la sua stessa costituzione materiale prevede una plasticità che la rende continuamente adattabile allo stesso sistema capitalistico. Jacques Delors parlava di “geometria variabile” e “cerchi concentrici” e schiere di sociologi postmoderni ne hanno descritto i caratteri multi-layered, multilivello e policontestuale (basti pensare alla sovrapposizione di diverse aree, quali la zona euro, lo spazio Schengen, i paesi “core” e la periferia, i paesi del vicinato dell’eurosfera ecc.).  Non si fa, quindi, riferimento ad un modello centralizzato stato-centrico dai contorni definiti e gerarchicamente organizzato, ma questi diversi piani multiscalari costituiscono piuttosto una rete di governance a più livelli[13]. In questo inedito framework istituzionale risulta particolarmente difficile stabilire chiaramente un “dentro” e un “fuori”. Come risulta difficile utilizzare il cosiddetto  “nazionalismo metodologico” (Beck) per raffigurare una situazione in cui ci sono due ordini o due livelli distinti, nazionale e internazionale (o sovranazionale). Per cui, secondo una logica aut-aut, o un gioco a somma zero, laddove c’è Stato-nazione non c’è Europa e dove c’è Europa non c’è Stato[14]. Un esempio della compresenza e della coesistenza di nazionale/europeo e di come sia fuorviante la contrapposizione tecnocrazia/democrazia sta nello stesso triangolo istituzionale comunitario (Commissione, Parlamento europeo, Consiglio): un sistema di governo misto, in cui non esiste la suddivisone classica dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario, ma una fusione di questi. Ciò non rende la struttura semplicemente “meno democratica”, bensì monarchica, aristocratica e democratica allo stesso tempo. La retorica di un PE senza potere legislativo ormai è del tutto insostenibile: il problema non sta nella maggior democratizzazione o politicizzazione del sistema, o nel fatto che esso “manca di legittimità” o di “potere”. La questione non è se questo “potere” vada trasferito interamente al PE o debba “ritornare” ai parlamenti nazionali, poiché i dispositivi di governance si sono sostituiti integralmente alla geometria moderna della rappresentazione politica, assorbendo (riformando) sia le strutture nazionali che quelle sovranazionali, in connubio con le agenzie di regolamentazione del mercato, le lobbies, le grandi corporation ecc. Sebbene sia indubbio che si stia affermando un generale predominio dell’esecutivo (ma questo avviene proprio a livello nazionale!), i parlamenti nazionali non sono affatto espropriati dei poteri, essi sono inseriti in reti di governance multilivello, legiferano (per dare solo un esempio) in una struttura chiamata COSAC (Conferenza degli Organi specializzati in Affari Comunitari, un organismo che riunisce i parlamenti nazionali)  in collegamento con il PE; le direttive europee sono preparate da comitati nazionali; il PE ha potere di approvazione del bilancio e dopo il trattato di Lisbona ha un ruolo legislativo attivo. Quindi Il problema, semmai, è che decide, non che decide poco! Anche se si tratta sempre di una decisione sull’ingovernabile, ovvero mantenendo, e al contempo creando, le basi funzional-operative di un capitalismo completamente allo sbando. In realtà, non essendoci propriamente un interno ed un esterno, entrambe le componenti (nazionale e sovranazionale) sono presenti e assenti allo stesso tempo, pezzi di stato e nuovi assemblaggi, organismi privati e nuovi assetti di governance sono fusi e continuamente “riformati”. Le sovranità, intanto, sono evaporate, oppure, se si preferisce, si sono modificate (fuse) in un sistema che si sta strutturando come un quasi-Stato. L’UE è capillarmente presente sia a Roma che a Berlino che a Bruxelles, così come a livello locale, regionale (si pensi alla gestione dei Fondi strutturali) , comunale (la messa in opera delle privatizzazioni degli enti locali in ossequio al Patto di stabilità) ecc. Abbiamo a che fare con un ordinamento ubiquo che si manifesta come potere diffuso e non centralizzato. Parlare di popolo europeo è quindi una questione priva di senso. Popolo di che cosa? La governance europea non ha alcun bisogno di un popolo, ma nemmeno di popoli. “Europa dei popoli” è semplicemente l’evocazione fantasmatica di un simulacro di democrazia.

Così come parlare di riformabilità presenta delle aporie evidenti, allo stesso modo risulta inadeguato il termine “rottura”. Come si fa a rompere qualcosa che è già, come abbiamo visto, in pezzi? Se questo termine è utilizzato per riattualizzare lo schema oppositivo ordine/rivoluzione, per cui ci dicono “unione”, noi diciamo “rottura”, credo che questo sconti tutta la storia dei fallimenti del movimento operaio, il quale ha riposto sul concetto di rivoluzione le speranze di un orizzonte storico destinale in cui il soggetto-classe doveva farsi portatore dell’emancipazione universale. L’idea di questa trasformazione palingenetica è più che tranquillizzante per il sistema capitalistico che non aspetta altro di avere un “contro” da ammaestrare nel circo mediatico dell’eterno conflitto delle mille insorgenze. Fa pure comodo per mostrare un finto mondo variopinto e plurale in cui ci sono anche gli arrabbiati, insieme alle folcloristiche residuali appartenenze del comunismo storico novecentesco.

Il termine “rottura” (o meglio rovesciamento, perché rimanda all’idea di un capovolgimento e di sovvertimento) può, invece, avere un’altra valenza se viene inteso come un “campo strategico”, da articolare su un piano che non si richiama ad un “fuori” già precostituito, ma che sia capace di una reale sperimentazione istituzionale, di una reale “mediazione nel conflitto” (mediazione categoricamente distinta dalle forme degenerative liberali: negoziazione, dialogo e compromesso, parole che hanno esaurito la loro politicità). Creare istituzioni ha un preciso senso politico. Vuol dire smarcarsi, da un lato, dallo spontaneismo anarcoide e movimentista per cui all’ordine ci si oppone creando isole sociali o con la reiterazione di lotte-reazione-lotte (battaglie pur legittime prese singolarmente, la casa, l’acqua, gli spazi, i beni comuni ecc. ma  la cui sommatoria non fa una lotta politica)  e dall’altro, dall’idea che la forma-istituzione sia un spazio chiuso, omogeneo e sempre corrispondente con il potere. Nicos Poulantzas diceva che lo Stato è un “campo strategico” criticando le concezioni meramente strumentali di questo. Anche lo spazio europeo può essere tale, senza separare forzosamente ambito nazionale e internazionale e non mettendo, quindi, in subordine la dimensione geopolitica. Se il migliore “playing field” (espressione terribile!) per i lavoratori è la nazione (Cesaratto, Pagliani)[15], mentre quello internazionale è nelle mani della classe dominante, credo, però, che valga la pena pensare ad una prospettiva politica che tenga insieme la leva del sovranismo, pur non trascurando il fatto che questa azione di leva riguarda solo le condizioni di una politica. Al contempo occorre sperimentare nuovi spazi politico-istituzionali, inventare nuove forme della politica senza pensare che poiché “Europa” (autentico significante vuoto) è attualmente occupato dalle forze del capitale (e fatto erroneamente coincidere con Unione europea), allora sia più facile pensare in termini di nazione/internazionalismo come unica declinazione possibile dell’idea comunista, o, peggio, pensare che tutto sommato sia superfluo cercare di immaginare una spazialità concreta e orientata e basti tenere come orizzonte di emancipazione il non-luogo per eccellenza: il mondo (pericolosamente simile a quello di Alice).

 



[1] Su questa posizione, per esempio, cfr. D. Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bombiani, Milano 2012. Fusaro legge appunto il capitalismo come “cattivo infinito”, illimitata accumulazione contrapposta alla saggezza greca della misura.

[2] P.P. Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Il Mulino, Bologna 2007.

[3] Si veda a proposito l’opera monumentale di A. Milward, The European Rescue of the Nation-State, Berkeley and Los Angeles University Press, 1992, dedicata alla nascita delle prime comunità europee.

[4] T. Opperman, Ius Europeum, Duncker & Humblot (Verlag), Berlin, 2006.

[5] D. Mitrany, A Working Peace System (1943), Quadriangle Books, 1966. Si veda anche  F. Russo, l’Europa del mercato, reperibile sul sito www.sinistrainrete.info. F. Russo, Europa. Mito e realtà, reperibile sul sito www.contropiano.org.

[6] Per avere un’idea della formazione culturale delle prime élite europeiste e del contesto storico consiglio di attingere direttamente alle loro biografie. Quella di J. Monnet, Cittadino d’Europa, Guida, Palermo 2007 è esemplificativa, ma anche, in una diversa congiuntura storica, negli anni Venti, quella del conte Richard Coudenhove-Kalergi, Una vita per l’Europa, Ferro Edizioni, Milano 1965. Kalergi, fondatore di Paneuropa, aveva tentato, su altre basi, un esperimento simile a quello monnettiano coinvolgendo Aristide Briand e Gustav Stresemann.

[7]  B. Van Apeldoorn, J. Drahokoupil, L. Horn (ed.), Contradictions and Limits of Neoliberal European Governance. From Lisbon to Lisbon, Palgrave MacMillan London-New York, 2008. Van Apeldoorn ha formulato a tal proposito la categoria di “embedded neoliberalism”.

[8] G. Majone, Integrazione europea, tecnocrazia e deficit democratico, Osservatorio sull’Analisi di Impatto della Regolazione, www.osservatorioair.it, settembre 2010.

[9] Decisione della Corte di giustizia delle Comunità europee n. 120/78, Rewe-Zentral AG v Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, scaricabile dal sito www.eur-lex.europa.eu.

[10] C. Crouch, Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, Roma-Bari, 2013. P. 12. Per un’eccellente ricostruzione del ruolo della Germania nella costituzione economica europea e un approfondimento sull’ordoliberalismo  si veda il recente volume di A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, DeriveApprodi, Roma 2014.

[11] Si vedano per maggiori approfondimenti gli atti della Commissione europea. A partire dal Libro bianco sulla governance del 2001 (COM(2001) 428 def./2) (2001/C 287/01) e quelli sulla Better regulation: EU Regulatory Fitness  COM(2012)746  (12 dicembre 2012). Smart Regulation in the European Union, COM(2010)543 (8 ottobre 2010). Tutti reperibili sul sito: http://ec.europa.eu/smart-regulation/better_regulation/key_docs_en.htm.

[12] B. Han, La Società della trasparenza, Nottetempo, Roma 2014.

[13] Bob Jessop utilizza per esempio l’espressione “meta-governance multiscalare”. Cfr. B. Jessop, States, state power and State Theory in J. Bidet, S. Kouvelakis, Critical Companion of Contemporary Marxism, Brill, Leiden-Boston, 2008.

[14] U. Beck, E. Grande, L’Europa cosmopolita, Carocci, Milano 2004.

[15] P. Pagliani, Europa, chi? Reperibile sul sito www.megachip.globalist.it.

* Ross@ Parma

 

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