“La decisione di immettere base monetaria attraverso il canale dell’acquisto di titoli di stato per un totale di 130 miliardi da parte della Banca d’Italia ha due conseguenze. Mina il bilancio di Palazzo Koch impegnando – in maniera obbligatoria, pare – le riserve ufficiali anche auree. E impedisce in futuro allo stato italiano ogni genere di rinegoziazione o di dichiarare default del proprio debito senza determinare gravi conseguenze anche per la “sua Banca centrale”. Il QE funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino-Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica”. Paolo Savona, economista, già Ministro dell’Industria del governo Ciampi, in “Quel trucchetto di Draghi per incatenare l’Italia all’euro”, Il Foglio 12 febbraio 2015.
Abbiamo perso la guerra, perché non l’abbiamo mai combattuta. Resa senza condizioni, sin dal 1992, quando si decise la fine della Prima Repubblica fondata sul ruolo dei partiti nati dalla Resistenza e si decise, in ossequio a Washington e Berlino, di smantellare i colossi pubblici.
La prima linea del fronte era caduta, la “tempesta valutaria” dell’agosto di quell’anno doveva servire a questo, i vari Soros all’opera fecero il lavoro sporco per conto di Wall Street e Francoforte. Seguì un rimbecillimento generale ultra decennale in nome dell’Europa, con smantellamento del salario sociale globale di classe atto a prepararci all’entrata dell’euro. Altro decennio di rimbecillimento generale, questa volta berlusconiano, con la dirigenza italiana che era cieca davanti all’imperialismo tedesco. Nell’agosto del 2011 la cacciata di Berlusconi svelò la posta in gioco, comandava in Italia Berlino, almeno sulla moneta, e gli Usa nell’apparato miliare e finanziario.
Fine 2014, inizi 2015: su Milano Finanza, giornale che ha molto seguito nelle piccole imprese del nord, trovi editoriali di fuoco contro “l’imperialismo tedesco”, così viene tacciato, imperialismo. La guerra compariva ormai timidamente presso le redazioni di giornali megafoni dell’apparato produttivo del nord del paese. Essa però è taciuta presso gli altri giornali, non serve evocarla, e poi l’Europa fa bene a questi pennivendoli, visto che in nome suo, e di Berlino, abbiamo finalmente il Jobs Act. E poi, quanto è patriottico il nostro Mario Draghi, che fa gli interessi dell’Italia!
La citazione di cui sopra non la troverete presso questi giornali, ma incredibilmente sul berlusconiano Il Foglio, che il giorno prima ospitava Salvini con il suo programma economico, di cui al quinto punto si affermava la necessità della nazionalizzazione delle imprese strategiche contro lo smantellamento operato dai capitali tedeschi che, a detta del leghista, acquisiscono imprese italiane e poi le chiudono dopo pochi anni per togliere un “concorrente”. Pare che a destra si sappia qualcosa della guerra, a sinistra invece si parla, al più, di “riformare l’Europa”. Non vedono la guerra, e se la vedono sono complici dell’imperialismo tedesco, come le compagini governative degli ultimi 4 anni.
C’è poco da fare, la destra dice cose che la stessa estrema sinistra se le sogna, castrata dall’idea di sostenere gli interessi patriottici, come se questi fossero antagonisti al socialismo: evidentemente i partigiani non bisogna prenderli in considerazione….
Qual è il risultato di questa “guerra tra capitali” nel 2015? Andiamo a vedere la seconda linea del fronte, l’apparato produttivo privato italiano, quello esaltato nel 1992 in contrapposizione alle “inefficienti” imprese pubbliche da chiudere e che, senza lacci e lacciuoli, avrebbero fatto “volare” il Paese. Siamo questa volta sul confindustriale Sole 24 ore, che passa il tempo ad elogiare le “riforme strutturali” e ad invitare la dirigenza politica a “fare come la Germania”. Non ci arrivano proprio a vedere la guerra, in compenso però il 5 febbraio pubblicano grafici e tabelle sulla produzione metalmeccanica europea dal 2008 ad oggi. Che se ne ricava? In 6 anni la Spagna ha perso il 36% della produzione metalmeccanica, l’Italia il 33%, la Francia il 21%, l’Ue a 28 paesi il 13%, la Germania lo 0,7%….In tutta l’Europa l’industria ha bruciato 3,5 milioni di posti di lavoro e ad oggi c’è un gap di investimenti pari a 500 miliardi di euro. E cosa dice al riguardo il presidente di Federmeccanica? “E’ il momento di invertire la rotta rispetto alle politiche di austerità e credo che le strategie europee vadano riviste in modo profondo”, questo dice Fabio Storchi. Ma non era la Confindustria che diceva che l’austerità avrebbe comportato un riallineamento della competitività tra paesi europei? Cosa è successo invece?
L’11 febbraio da Bologna arriva la botta: il capo economista di Nomisma, Sergio de Nardis, pubblica la newsletter “Scenari”, dal titolo “Potenziale manifatturiero”. “L’industria ha subito un ridimensionamento di base produttiva senza precedenti nella storia italiana, se si fa eccezione per le distruzioni della seconda guerra mondiale”(pag. 2). La perdita di capacità produttiva è stimata da de Nardis in circa il 18%, tre quarti derivante dalla seconda crisi, quella dei debiti sovrani. Insomma, l’austerità in Italia ha fatto più danni della gravissima crisi finanziaria post Lehman Brother del 2008.
E in Germania? “Il potenziale manifatturiero è cresciuto in Germania di quasi l’8% nel corso della crisi, con i tre quinti dopo la crisi del 2010 (debiti sovrani)”(pag. 2). In realtà la faccenda va avanti dall’adozione della moneta unica nel 2000, anno a partire dal quale secondo de Nardis si assiste ad un “processo di polarizzazione geografica centro-periferia”.
Nel 2000 la base produttiva in rapporto alla popolazione era equivalente tra l’Italia e la Germania, anzi quella italiana era superiore, vale a dire l’Italia “era più industrializzata della Germania” (pag. 3). Dopo 15 anni “la capacità manifatturiera per abitante dell’Italia è 1,5 volte più piccola rispetto alla Germania”( pag. 3). Possiamo smentire tranquillamente de Nardis: una tale distruzione di capacità industriale non si è realizzata nemmeno con la seconda guerra mondiale, anche perché in molte parti del nord Italia i partigiani impedirono ai nazisti di distruggere le industrie. Negli anni duemila ci ha pensato l’Agenda Monti a fare quello che è stato impedito ai nazisti nel 44. Un capolavoro, come da lui stesso ammesso, quando disse che il suo governo “sta distruggendo la domanda interna”.
Qual è stato l’effetto dell’Agenda Monti del 2011, proseguita con Letta e Renzi? “La riduzione di potenziale, guidata dalla straordinaria contrazione del mercato interno e dalla rarefazione del credito, è stata molto forte ed è andata oltre il processo di pulizia di segmenti inefficienti, finendo con il coinvolgere un numero eccessivo di produttori e col colpire la capacità di produzione anche delle imprese in grado di rimanere operative” (de Nardis, pag. 5). Dunque, l’obiettivo non era la pulizia capitalistica delle imprese inefficienti, ma proprio la distruzione della capacità industriale delle stesse imprese competitive, tramite il crollo della domanda interna e il credit crunch dovuto agli altissimi spread conseguenti al deflusso di capitali da parte della Germania e degli stessi Usa in Italia nel 2011.
Nella guerra tra capitali il successo tedesco, pianificato sin dal 1972 con il Piano Werner, volto a fare dell’Europa un’area valutaria dominata dalla deflazione e dal crollo della domanda interna tutto a vantaggio dell’imperialismo mercantilistico tedesco, ha avuto luogo unicamente perché ci sono state quinte colonne interne che hanno lavorato per esso, sin dal 1992, e chi non era d’accordo è stato accompagnato fuori con avvisi di garanzia o arresti, secondo il modello del 7 aprile del 1979. Che futuro si prospetta per il nostro Paese alla luce di questi dati? I nazisti pensavano all’Italia come un luogo di produzioni artigianali e come vacanze per i loro cittadini. Il modello del Piano Werner non si distanzia molto da ciò, la prospettiva è diventare una mega Slovacchia dedita alla subfornitura per il loro apparato industriale con salari da fame grazie al Jobs Act ed eliminare concorrenti nel comparto meccanico nel giro di pochi anni, grazie alla deflazione, all’austerità e al credit crunch. I capitali li hanno: i tedeschi hanno liquidità pari a 6500 miliardi di euro, parte di questo tesoro verrà utilizzato per acquisire aziende italiane, smantellarle o al più farle diventare subfornitrici. La linea di Salvini che invita alla nazionalizzazione delle imprese strategiche mira proprio ad impedire questo scenario: non sarebbe il caso che la sinistra apra gli occhi e non sia timida in merito alle nazionalizzazioni?
Per vent’anni siamo stati colonia economica dei tedeschi, grazie al collaborazionismo della dirigenza italiana; ora, come paventa Savona, rischiamo, grazie al Quantitative Easing di Draghi, di consegnare l’oro alla Bundesbank e non avere più autonomia di decisioni politiche. Bell’affare l’alleanza con la Germania.
Del resto, da un secolo a questa parte, lo è sempre stato. Ringraziamo ancora una volta il Prodi del 1996, il suo disegno ci ha portato a questo. Dunque, con il Qe di Draghi, che ipoteca di fatto l’oro della Repubblica italiana, potrebbe cadere il terzo fronte, la riserva aurea, sempre che… .nel frattempo succeda qualcos’altro. Ad esempio, siamo sicuri che il secondo fronte continuerà ad accettare la propria rovina? O che gli italiani, con sbocchi di sinistra o di destra, non decidano di porre fine all’Anschluss dell’Italia? O che qualche potenza straniera non veda di buon occhio un’Italia distrutta dalla germanizzazione completata?
Occorrerebbe un quarto fronte, la controffensiva patriottica socialista, ma per questo occorre la coscienza di classe; dura a ricostruire, dopo che i media, per 25 anni, hanno pensato bene a distruggerla. Ma forse c’è, basta organizzarsi. Lo fa la destra, perché non possiamo farlo noi? Basta togliersi di dosso il romanticismo dell’Inno alla gioia dell’Europa, oramai da queste parti c’è solo nazismo. Preparato sin dagli anni ’70 e realizzato con la moneta, passando per la Jugoslavia e ora per l’Ucraina. Da quelle parti parlano i fucili, dalle nostre la moneta, fintantoché si passerà, all’occorrenza, anche da noi ai fucili. Epilogo dell’adesione alla moneta unica di prodiana memoria, la guerra economica e la guerra guerreggiata. E noi dove stavamo? A dibattere quanto fosse schifosa l’Urss, dove non c’era la “democrazia” e a quanto sono belli i valori “liberali” senza i quali non può esistere la “sinistra”. Un rimbecillimento generale che ci è costato caro, mentre gli altri pianificavano lo sterminio sociale con decenni d’anticipo.
Ora siamo al dunque, economisti borghesi, addirittura ministri della repubblica, per giunta di un governo Ciampi, ex governatore della Banca d’Italia, parlano apertamente di “colonizzazione”. La guerra si è disvelata, dopo 43 anni dal Piano Werner. Si potrebbe obiettare che Prodi e gli altri minimamente potessero immaginare lo scenario 2015. Si può loro rispondere che era tutto scritto, bastava andare nell’emeroteca del dipartimento di economia della facoltà di Scienze Politiche di Bologna dove insegnava lo stesso Prodi che in quegli anni aveva come corso le “privatizzazioni inglesi”… Nei primi anni novanta potevi trovare documenti economici sulla “riunificazione” tedesca e, magari, leggerti qualche resoconto della tempesta valutaria del 1992. Era tutto scritto, bastava studiare. Ma gli economisti, specie se scrivono su riviste e giornali, non studiano, governano. Il guaio è che milioni di persone gli vanno dietro…
da Marx XXI
“La decisione di immettere base monetaria attraverso il canale dell’acquisto di titoli di stato per un totale di 130 miliardi da parte della Banca d’Italia ha due conseguenze. Mina il bilancio di Palazzo Koch impegnando – in maniera obbligatoria, pare – le riserve ufficiali anche auree. E impedisce in futuro allo stato italiano ogni genere di rinegoziazione o di dichiarare default del proprio debito senza determinare gravi conseguenze anche per la “sua Banca centrale”. Il QE funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino-Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica”. Paolo Savona, economista, già Ministro dell’Industria del governo Ciampi, in “Quel trucchetto di Draghi per incatenare l’Italia all’euro”, Il Foglio 12 febbraio 2015.
Abbiamo perso la guerra, perché non l’abbiamo mai combattuta. Resa senza condizioni, sin dal 1992, quando si decise la fine della Prima Repubblica fondata sul ruolo dei partiti nati dalla Resistenza e si decise, in ossequio a Washington e Berlino, di smantellare i colossi pubblici.
La prima linea del fronte era caduta, la “tempesta valutaria” dell’agosto di quell’anno doveva servire a questo, i vari Soros all’opera fecero il lavoro sporco per conto di Wall Street e Francoforte. Seguì un rimbecillimento generale ultra decennale in nome dell’Europa, con smantellamento del salario sociale globale di classe atto a prepararci all’entrata dell’euro. Altro decennio di rimbecillimento generale, questa volta berlusconiano, con la dirigenza italiana che era cieca davanti all’imperialismo tedesco. Nell’agosto del 2011 la cacciata di Berlusconi svelò la posta in gioco, comandava in Italia Berlino, almeno sulla moneta, e gli Usa nell’apparato miliare e finanziario. Fine 2014, inizi 2015: su Milano Finanza, giornale che ha molto seguito nelle piccole imprese del nord, trovi editoriali di fuoco contro “l’imperialismo tedesco”, così viene tacciato, imperialismo. La guerra compariva ormai timidamente presso le redazioni di giornali megafoni dell’apparato produttivo del nord del paese. Essa però è taciuta presso gli altri giornali, non serve evocarla, e poi l’Europa fa bene a questi pennivendoli, visto che in nome suo, e di Berlino, abbiamo finalmente il Jobs Act. E poi, quanto è patriottico il nostro Mario Draghi, che fa gli interessi dell’Italia! La citazione di cui sopra non la troverete presso questi giornali, ma incredibilmente sul berlusconiano Il Foglio, che il giorno prima ospitava Salvini con il suo programma economico, di cui al quinto punto si affermava la necessità della nazionalizzazione delle imprese strategiche contro lo smantellamento operato dai capitali tedeschi che, a detta del leghista, acquisiscono imprese italiane e poi le chiudono dopo pochi anni per togliere un “concorrente”. Pare che a destra si sappia qualcosa della guerra, a sinistra invece si parla, al più, di “riformare l’Europa”. Non vedono la guerra, e se la vedono sono complici dell’imperialismo tedesco, come le compagini governative degli ultimi 4 anni.
C’è poco da fare, la destra dice cose che la stessa estrema sinistra se le sogna, castrata dall’idea di sostenere gli interessi patriottici, come se questi fossero antagonisti al socialismo: evidentemente i partigiani non bisogna prenderli in considerazione….
Qual è il risultato di questa “guerra tra capitali” nel 2015? Andiamo a vedere la seconda linea del fronte, l’apparato produttivo privato italiano, quello esaltato nel 1992 in contrapposizione alle “inefficienti” imprese pubbliche da chiudere e che, senza lacci e lacciuoli, avrebbero fatto “volare” il Paese. Siamo questa volta sul confindustriale Sole 24 ore, che passa il tempo ad elogiare le “riforme strutturali” e ad invitare la dirigenza politica a “fare come la Germania”. Non ci arrivano proprio a vedere la guerra, in compenso però il 5 febbraio pubblicano grafici e tabelle sulla produzione metalmeccanica europea dal 2008 ad oggi. Che se ne ricava? In 6 anni la Spagna ha perso il 36% della produzione metalmeccanica, l’Italia il 33%, la Francia il 21%, l’Ue a 28 paesi il 13%, la Germania lo 0,7%….In tutta l’Europa l’industria ha bruciato 3,5 milioni di posti di lavoro e ad oggi c’è un gap di investimenti pari a 500 miliardi di euro. E cosa dice al riguardo il presidente di Federmeccanica? “E’ il momento di invertire la rotta rispetto alle politiche di austerità e credo che le strategie europee vadano riviste in modo profondo”, questo dice Fabio Storchi. Ma non era la Confindustria che diceva che l’austerità avrebbe comportato un riallineamento della competitività tra paesi europei? Cosa è successo invece? L’11 febbraio da Bologna arriva la botta: il capo economista di Nomisma Sergio de Nardis pubblica la newsletter “Scenari”, dal titolo “Potenziale manifatturiero”. “L’industria ha subito un ridimensionamento di base produttiva senza precedenti nella storia italiana, se si fa eccezione per le distruzioni della seconda guerra mondiale”(pag. 2). La perdita di capacità produttiva è stimata da de Nardis in circa il 18%, tre quarti derivante dalla seconda crisi, quella dei debiti sovrani. Insomma, l’austerità in Italia ha fatto più danni della gravissima crisi finanziaria post Lehman Brother del 2008. E in Germania? “Il potenziale manifatturiero è cresciuto in Germania di quasi l’8% nel corso della crisi, con i tre quinti dopo la crisi del 2010 (debiti sovrani)”(pag. 2). In realtà la faccenda va avanti dall’adozione della moneta unica nel 2000, anno a partire dal quale secondo de Nardis si assiste ad un “processo di polarizzazione geografica centro-periferia”. Nel 2000 la base produttiva in rapporto alla popolazione era equivalente tra l’Italia e la Germania, anzi quella italiana era superiore, vale a dire l’Italia “era più industrializzata della Germania” (pag. 3). Dopo 15 anni “la capacità manifatturiera per abitante dell’Italia è 1,5 volte più piccola rispetto alla Germania”( pag. 3). Possiamo smentire tranquillamente de Nardis: una tale distruzione di capacità industriale non si è realizzata nemmeno con la seconda guerra mondiale, anche perché in molte parti del nord Italia i partigiani impedirono ai nazisti di distruggere le industrie. Negli anni duemila ci ha pensato l’Agenda Monti a fare quello che è stato impedito ai nazisti nel 44. Un capolavoro, come da lui stesso ammesso, quando disse che il suo governo “sta distruggendo la domanda interna”. Qual è stato l’effetto dell’Agenda Monti del 2011, proseguita con Letta e Renzi? “La riduzione di potenziale, guidata dalla straordinaria contrazione del mercato interno e dalla rarefazione del credito, è stata molto forte ed è andata oltre il processo di pulizia di segmenti inefficienti, finendo con il coinvolgere un numero eccessivo di produttori e col colpire la capacità di produzione anche delle imprese in grado di rimanere operative” (de Nardis, pag. 5). Dunque, l’obiettivo non era la pulizia capitalistica delle imprese inefficienti, ma proprio la distruzione della capacità industriale delle stesse imprese competitive, tramite il crollo della domanda interna e il credit crunch dovuto agli altissimi spread conseguenti al deflusso di capitali da parte della Germania e degli stessi Usa in Italia nel 2011. Nella guerra tra capitali il successo tedesco, pianificato sin dal 1972 con il Piano Werner, volto a fare dell’Europa un’area valutaria dominata dalla deflazione e dal crollo della domanda interna tutto a vantaggio dell’imperialismo mercantilistico tedesco, ha avuto luogo unicamente perché ci sono state quinte colonne interne che hanno lavorato per esso, sin dal 1992, e chi non era d’accordo è stato accompagnato fuori con avvisi di garanzia o arresti, secondo il modello del 7 aprile del 1979. Che futuro si prospetta per il nostro Paese alla luce di questi dati? I nazisti pensavano all’Italia come un luogo di produzioni artigianali e come vacanze per i loro cittadini. Il modello del Piano Werner non si distanzia molto da ciò, la prospettiva è diventare una mega Slovacchia dedita alla subfornitura per il loro apparato industriale con salari da fame grazie al Jobs Act ed eliminare concorrenti nel comparto meccanico nel giro di pochi anni, grazie alla deflazione, all’austerità e al credit crunch. I capitali li hanno: i tedeschi hanno liquidità pari a 6500 miliardi di euro, parte di questo tesoro verrà utilizzato per acquisire aziende italiane, smantellarle o al più farle diventare subfornitrici. La linea di Salvini che invita alla nazionalizzazione delle imprese strategiche mira proprio ad impedire questo scenario: non sarebbe il caso che la sinistra apra gli occhi e non sia timida in merito alle nazionalizzazioni?
Per vent’anni siamo stati colonia economica dei tedeschi, grazie al collaborazionismo della dirigenza italiana; ora, come paventa Savona, rischiamo, grazie al Quantitative Easing di Draghi, di consegnare l’oro alla Bundesbank e non avere più autonomia di decisioni politiche. Bell’affare l’alleanza con la Germania.
Del resto, da un secolo a questa parte, lo è sempre stato. Ringraziamo ancora una volta il Prodi del 1996, il suo disegno ci ha portato a questo. Dunque, con il Qe di Draghi, che ipoteca di fatto l’oro della Repubblica italiana, potrebbe cadere il terzo fronte, la riserva aurea, sempre che….nel frattempo succeda qualcos’altro. Ad esempio, siamo sicuri che il secondo fronte continuerà ad accettare la propria rovina? O che gli italiani, con sbocchi di sinistra o di destra, non decidano di porre fine all’Anschluss dell’Italia? O che qualche potenza straniera non veda di buon occhio un’Italia distrutta dalla germanizzazione completata? Occorrerebbe un quarto fronte, la controffensiva patriottica socialista, ma per questo occorre la coscienza di classe; dura a ricostruire, dopo che i media, per 25 anni, hanno pensato bene a distruggerla. Ma forse c’è, basta organizzarsi. Lo fa la destra, perché non possiamo farlo noi? Basta togliersi di dosso il romanticismo dell’Inno alla gioia dell’Europa, oramai da queste parti c’è solo nazismo. Preparato sin dagli anni ’70 e realizzato con la moneta, passando per la Jugoslavia e ora per l’Ucraina. Da quelle parti parlano i fucili, dalle nostre la moneta, fintantoché si passerà, all’occorrenza, anche da noi ai fucili. Epilogo dell’adesione alla moneta unica di prodiana memoria, la guerra economica e la guerra guerreggiata. E noi dove stavamo? A dibattere quanto fosse schifosa l’Urss, dove non c’era la “democrazia” e a quanto sono belli i valori “liberali” senza i quali non può esistere la “sinistra”. Un rimbecillimento generale che ci è costato caro, mentre gli altri pianificavano lo sterminio sociale con decenni d’anticipo. Ora siamo al dunque, economisti borghesi, addirittura ministri della repubblica, per giunta di un governo Ciampi, ex governatore della Banca d’Italia, parlano apertamente di “colonizzazione”. La guerra si è disvelata, dopo 43 anni dal Piano Werner. Si potrebbe obiettare che Prodi e gli altri minimamente potessero immaginare lo scenario 2015. Si può loro rispondere che era tutto scritto, bastava andare nell’emeroteca del dipartimento di economia della facoltà di Scienze Politiche di Bologna dove insegnava lo stesso Prodi che in quegli anni aveva come corso le “privatizzazioni inglesi”… Nei primi anni novanta potevi trovare documenti economici sulla “riunificazione” tedesca e, magari, leggerti qualche resoconto della tempesta valutaria del 1992. Era tutto scritto, bastava studiare. Ma gli economisti, specie se scrivono su riviste e giornali, non studiano, governano. Il guaio è che milioni di persone gli vanno dietro…
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