Oggi basta accendere il pc, andare sullo smart-phone o sul tablet, guardare Google, Yahoo e gli altri motori di ricerca, e ci sembra di sapere tutto.
Ma non è affatto così secondo l’Università di Yale: una recentissima ricerca di tre suoi psicologi (Matthew Fisher, Mariel Goddu e Frank Keil), pubblicata sul Journal of Experimental Psychology, evidenzia tutta una serie di effetti collaterali preoccupanti.
A partire dalla caduta del confine tra quanto si conosce effettivamente e ciò che si ritiene di sapere semplicemente perché lo vediamo sul Web e lo leggiamo in presa diretta sullo schermo di qualcuna delle nostre piattaforme digitali. Una confusione bella e buona (anzi, cattiva e pericolosa), per cui finiremmo sistematicamente per illuderci di saperne tantissimo e di essere, a conti fatti, più intelligenti di quanto siamo davvero.
La connessione infinita e l’abbondanza di informazioni reperibili in rete grazie a Google & C. producono, quindi, una sopravvalutazione delle nostre capacità. Ne scaturisce così un’autocompiaciuta «onniscienza 2.0», che resuscita in versione ipermoderna il modello scomparso dell’erudito. Ma c’è una differenza abissale in materia, dal momento che questo nozionismo internettiano a costo zero cancella di botto la fatica e la pazienza certosina che occorrevano nel passato per accumulare cultura, scienza e dottrina. Tutto il sapere e subito, ennesima manifestazione della forza ma, appunto, anche dei rischi del digital now, la condizione di eterno presente (senza profondità storica) in cui queste formidabili tecnologie hanno immerso le nostre vite. Mentre proprio il tempo costituisce, come hanno insegnato secoli di storia dell’Occidente, l’ingrediente essenziale per fare sedimentare il sapere, sviluppando la «giusta distanza» del filtro e delle facoltà critiche, vero antidoto alla convinzione di conoscere tutto e di essere supercompetenti in ogni campo. «Io so di non sapere», come ci ammoniva Socrate, quando non c’era il Web. Se, poi, si aggiunge pure la questione della googlization (come l’ha chiamata il massmediologo Siva Vaidhyanathan) – la crescente dipendenza delle visioni del mondo degli utenti dalle indicizzazioni e dalla modalità di organizzare le informazioni del principale motore di ricerca mondiale – il quadro risulta completo e fonte di ulteriori inquietudini.
La rete è il messaggio, come ha ribadito il sociologo Manuel Castells, e quanto avviene dentro di essa cambia in maniera inesorabile anche le nostre menti e i nostri comportamenti. E l’universo digitale sembra così generare un nuovo peccato capitale di hybris e di superbia basato sul fascino indiscreto di questa sensazione di sapienza illimitata.
Una ragione in più, viste le implicazioni che ne discendono anche a livello politico per le nostre ammaccate ma beneamate democrazie liberali rappresentative, per cominciare a sfidare una certa retorica della disintermediazione che la identifica sempre (e comunque) con un processo positivo e una cosa buona e giusta. Mentre, come ci conferma ora la scienza, sarebbero opportuni alcuni correttivi. Ovvero, qualche consapevolezza in più offerta da una figura innovativa di «mediatore» della conoscenza in grado di ripristinare il circolo virtuoso dell’analisi critica. E il ricorso a qualcuna delle formule su cui lavorano i teorici della democrazia deliberativa (che prevede cittadini più informati sui temi di interesse pubblico), di quelle che vengono facilitate nella loro applicazione proprio dalle tecnologie informatiche e comunicative.
Perché, giustappunto, la tecnologia è bellissima, ma lo è ancora di più quando la si usa con un pizzico di spirito critico.
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