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Stadio S. Paolo. Poesia, soldi, campioni e controllo popolare

Sul dibattito riguardo al futuro dello Stadio S. Paolo di Napoli.

Il calcio è degli sportivi che lo praticano, bambini, ragazzi, giovani uomini e sempre più (anche in Italia) donne, è delle associazioni e delle piccole squadre, ma anche delle parrocchie, dove si formano nuove passioni, talvolta carriere sportive, il calcio è delle famiglie che accompagnano i figli nelle scuole calcio e sui campetti, e che sono da sempre fondamentali, per i loro sacrifici, nel gioco, ma anche nella crescita di nuovi campioni.

A livello agonistico superiore, il calcio è passione popolare, vettore di identità nazionale (un Paese come l’Uruguay ha conquistato, sin dagli anni Venti del Novecento la sua visibilità nel consesso delle Nazioni con le imprese della sua Nazionale, la Celeste); oggi la questione di una Palestina libera ed indipendente si gioca anche sulla possibilità per i calciatori della sua nazionale di potersi liberamente spostare nei territori occupati da Israele e fuori da essi, per giocare con la Nazionale di quel non Stato che scalda i cuori di tutte/i nel Mondo, ma anche ai giovani del Paese di poter usufruire di campi e stadi che non vengano continuamente bombardati dall’ingombrante oppressore. Il calcio è vettore dell’affermazione di Nuove Nazioni, al di là del giudizio sulla loro nascita, nel mondo internazionale: Kosovo, Islanda, Albania, queste ultime qualificate ai prossimi Europei, organizzati anche da Platini, grande sul campo, come ora non lineare nella gestione pubblica della sua immagine di manager dell’impresa calcistica europea, con aspirazioni mondiali.

Il calcio è uno dei pezzi della grande bellezza del mondo contemporaneo, dalla “danza angelica”, espressione con cui il compianto Enzo Tortora raccontava un gol di Rivera, alla “mano de Dios”, con cui Diego commentò il suo machiavellico gol agli inglesi, fatto prima di segnare il gol più bello della storia dei Mondiali, nella stessa partita; ne condivide, come scriveva Eduardo Galeano, splendori e miserie, anche perché è, nello svolgersi dei 90 minuti di gioco, metafora della vita, dove il più debole sulla carta può diventare più forte, dove il grande campione da solo non può fare squadra, dove la tattica può irretire la tecnica, ma essa può esplodere in artistici gesti e ribaltare ogni tatticismo, il calcio è sport che dovrebbe insegnare il rispetto delle regole e l’armonia della costruzione collettiva, sin dagli allenamenti, e poi dallo sviluppo di una frase di gioco.

Il calcio è democratico, può capitare in esso che il Grande Brasile perda per due volte in casa campionati mondiali organizzati apposta per celebrarne il trionfo, che il Cagliari sia la prima squadra del Sud a vincere nettamente lo scudetto italiano, che la Germania Est possa battere, durante i Mondiali del 1974, in casa sua la Germania Ovest ed alle Olimpiadi di Mosca l’Urss padrona di casa, certa di una sicura medaglia d’oro, invece presa dai “fratelli minori” all’interno del Patto di Varsavia, o che la Danimarca ripescata agli Europei del 1992 a causa dell’esplosione della Jugoslavia qualificata possa vincere quell’Europeo.

E cosa sarebbe stato dell’identità catalana, senza la vicenda del presidente del Barcellona fucilato dai franchisti o “del centravanti che verrà assassinato verso sera” citato da Vazquez Montalban in un suo famoso racconto?

A tutto questo mi ha fatto pensare la vicenda dello stadio napoletano, lo stadio della città che qui ha visto vincere, ed è stata aiutata a vincere, con Diego Maradona, uno stadio che, a mio avviso, deve restare un bene collettivo, pure se oggi l’industria del calcio, basata sempre però sulla passione dei tifosi, quindi del popolo, vuole gestioni sempre più privatistiche degli stadi.

Persino Barbara Berlusconi notava, di recente, che gli stadi di oggi tendono ad una maggiore efficienza, ma sono sempre meno gentili verso l’utenza più debole economicamente, verso la disabilità, verso i tifosi ospiti, spesso ghettizzati in vere e proprie gabbie, quando arrivano in trasferta.

Tutto questo è figlio dei nostri tempi, del tasso di oppressione e di violenza, spesso nascosta, che alberga nelle nostre società, ed in questa vicenda vi è ormai una tendenza consolidata alla costruzione di stadi, che sono sin dall’origine di proprietà privata delle stesse società calcistiche; quando poi queste sono partecipate dall’azionariato popolare, ciò rende il modello preferibile, pur restando esso dentro l’industria dello spettacolo, che è una delle articolazioni dell’attuale fase capitalistica, anche come mezzo di reimpiego di soldi provenienti dalla rendita petrolifera, o da origini un tantino più oscure.

A Napoli bisogna adeguare lo stadio, che è pubblico, alle nuove regole dell’UEFA, facendolo senza regalarlo all’attuale padrone del Napoli, Aurelio De Laurentis, ma facendo sì che dalla concessione di questo bene pubblico, che ormai è parte della storia urbanistica della città contemporanea, venga una rendita per il Comune, finalizzata allo sviluppo dello sport di base e popolare.

In questo senso bene ha fatto il Consiglio Comunale di Napoli a stabilire, per dare la lunga concessione che il Presidente De Laurentis chiede per gestire lo stadio, l’aumento consistente del canone locativo, anche perché, se è vero che negli ultimi anni lo stadio è degradato, è altresì vero, che, fino ad ora, è toccato al Comune curarne la manutenzione possibile, alla luce del taglio verticale alle risorse comunali, anche per servizi pubblici essenziali, figurarsi per lo stadio. D’altra parte, differentemente da altre società italiane, il Calcio Napoli non ha concretamente proposto la realizzazione di uno stadio tutto suo, nemmeno l’acquisto di questo stadio. Il proprietario del Napoli, da buon capitalista italico, vuole profitti privati basati sulla concessione pubblica, ed allora paghi.

Ma il Consiglio Comunale di Napoli deve completare il lavoro, votare lunedì 19 ottobre il testo finale della delibera, non arrivare a metà dell’opera e non concluderla per la maledetta mancanza del numero legale, vera tabe che spesso affligge le nostre assemblee elettive, e che spesso nasconde un modo ricattatorio o sfascista di svolgere il mandato elettivo, quando non vera e propria ignavia. Nel rispetto del mandato popolare, si dovrebbe pensare a sanzionare le assenze continue dei componenti l’assemblea elettiva dai pubblici consessi, anche fino a prevederne la decadenza; bene fa Pietro Rinaldi a sollevare l’attenzione sul problema (https://contropiano.org/politica/item/33471-calcio-napoli-e-stadio-s-paolo-infuria-la-polemica-tra-adl-e-de-magistris) e bene ha fatto il Consigliere di destra Santoro a far approvare una mozione per il calmieramento del prezzo dei biglietti popolari, visto che la tendenza negli stadi italiani è ad una feroce selezione classista degli spettatori che vanno allo stadio: li si vuole telespettatori, i più poveri.

Ma lunedi’ il consiglio comunale di napoli, per essere fino in fondo protagonista della vicenda, deve approvare la delibera, lanciando la palla, e’ il caso di dirlo, nell’area del calcio di Napoli che se, per il diritto privato, e’ di Aurelio De Laurentis,ma per la cultura e la storia popolare della citta’, e’ un patrimonio collettivo, addirittura di una nazione potenzialmente grande, ma che si vive come negletta, divisa e dispersa, se non nel tifo al Napoli: la nazione napoletana.

Se ADL rifiuterà l’ipotesi di accordo, si assumerà le sue responsabilità, deciderà lui cosa fare con la sua squadra; al Sindaco ed al Consiglio Comunale di Napoli tocca verificare la effettiva praticabilità dell’ipotesi affacciata dal Sindaco nel corso della trattativa: un azionariato popolare per garantire un futuro allo stadio S. Paolo: sarebbe per Napoli, e per l’intero calcio italiano una rivoluzione copernicana, sarebbe per i tifosi del Napoli il passaggio dallo stato di minorità all’età adulta: non più “ ricchi scemi”, per usare l’espressione felice del Presidente Onesti, che ricostruì il Comitato olimpico nazionale italiano su tre assi: autonomia dalla politica partitica, utilizzo dei corpi militari per reclutare atleti negli sport meno praticati, mutuando in Italia il modello dell’Armata Rossa, il Totocalcio, affinchè dal ricco mondo del calcio scorressero risorse verso gli altri sport, minori solo per numero di praticanti.

Proviamoci con una larga consultazione popolare.

Non più ricchi scemi, ma un popolo che si prenda cura anche del suo principale monumento sportivo, affinché chi verrà dopo di Noi possa continuare a giocare ed a ricordare le gesta di chi lì dentro, ha onorato il calcio, la bellezza, la vita, a partire da Diego Maradona, Luis Sivori, Altafini, Zoff, Cannavaro, Monzeglio, Amadei, Jeppson, e tanti altri. A partire dai nostri padri ed avi, da sempre tifosi nei vari luoghi del peregrinare per un secolo quasi del Napoli tra vari stadi della città.

Ricordiamoci che il primo Presidente del Napoli fu perseguitato, perché ebreo, Ascarelli, e che il Napoli ha come simbolo il ciuccio: la vita, come la lotta, può essere dura, ma non ci fa paura, bisognerebbe dire sempre.

Proviamoci!

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