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Siria, ha fatto più Putin in due settimane che l’Occidente in 4 anni

Ha fatto di più Mosca sul piano militare e politico in due settimane che l’Occidente in quattro anni, è la banale riflessione che viene in mente dopo l’incontro tra Putin e Assad a Mosca, il primo viaggio all’estero dal 2011 del presidente siriano. La Russia dimostra di saper sfruttare il vuoto prodotto dal caos che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno generato in Medio Oriente in un decennio perduto che ha travolto nel sangue popoli e nazioni e innescato un’ondata di rifugiati senza precedenti verso l’Europa.
La Russia non fa questo per amore della pace ma punta ovviamente a uscire dall’angolo dove è stata costretta dalla crisi Ucraina, questo è lo scopo geopolitico del suo intervento in Siria e ora della sua proposta diplomatica di mantenere al potere Assad ancora per sei mesi nel quadro di una “transizione ordinata” a Damasco che eviti di replicare il caos della Libia o quello dell’Iraq lasciando campo libero al Califfato e ai jihadisti.
In un certo senso l’Isis e la destabilizzazione mediorientale si sono dimostrati per Mosca un mostro provvidenziale. Ma se la Russia ora è diventata una protagonista di primo piano nella regione, dopo essene stata ai margini per anni, lo deve soprattutto alle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, alla Turchia, agli Stati Uniti, che pensavano di manovrare la ribellione dei jihadisti contro Assad e hanno creato un caos devastante pur di abbattere il regime alauita. Persino Israele oggi è arrivata a un’intesa con la Russia e Netanyahu negozia più volentieri con Putin che con Obama.
Quali sono le possibilità di successo della proposta russa? La Turchia, sia pure in maniera informale, ieri aveva reagito positivamente all’ipotesi che Assad per un breve periodo resti in sella: il presidente Erdogan ha sbagliato tutti i calcoli sulla caduta del regime, ha riacceso il conflitto con i curdi e dopo l’attentato di Ankara, imputato all’Isis, è in difficoltà. È probabile che la Turchia prenderà una posizione precisa solo dopo le elezioni del primo novembre, lo spartiacque che definirà le chance di sopravvivenza al potere di Erdogan. Curioso destino il suo: voleva eliminare Assad e ora è in dubbio la sua stessa sorte politica.
Ma sia per la Turchia che per le monarchie del Golfo, che hanno sponsorizzato di fatto l’Islam radicale, ora si pone un problema fondamentale: quale sarà la rappresentanza sunnita a un tavolo negoziale per definire la transizione e il post-Assad? Questo è il vero nodo della questione. Ci sono dozzine di gruppi armati in azione in Siria, molti sono legati oltre che al Califfato a Jabat al Nusra, filiale di Al Qaeda, o agiscono sotto l’ombrello jihadista. Vengono al pettine i nodi decennali di una guerra al terrorismo che invece di combattere la destabilizzazione l’ha alimentata. È questo l’interrogativo più spinoso per una sistemazione della Siria, dell’Iraq, della questione curda e di un’intera regione alle porte dell’Europa. E forse neppure Mosca può rispondere a questa domanda.

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