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Il fronte interno della “guerra al terrore”

Il modo in cui i governi europei (a prescindere dal colore ideologico) e i media hanno reagito agli attacchi terroristici di Parigi è straordinariamente significativo, nella misura in cui contribuisce a ridefinire il significato di alcuni termini del lessico politico moderno. In particolare ne prenderò qui in considerazione tre – socialdemocrazia, liberalismo, patriottismo – a partire da alcuni articoli apparsi nei giorni scorsi sul Guardian e sul Corriere della Sera.

L’appoggio dei partiti della Prima Internazionale ai governi che avevano scatenato la Prima Guerra Mondiale ha sancito la morte della prima socialdemocrazia, quella, per intenderci, che si distingueva dal comunismo non per il fine – il superamento della società capitalistica – ma per la scelta del mezzo: le riforme al posto della rivoluzione. Quanto alla morte della seconda socialdemocrazia – quella nata a Bad Godesberg con il ripudio del marxismo – può essere fatta coincidere (come si sostiene in un recente libro-conversazione di cui sono co autore con Fausto Bertinotti, “Rosso di sera”, ed. Jaca Book) con la fine del compromesso fra capitale e lavoro del trentennio postbellico e con la sua definitiva conversione all’ideologia liberal liberista. Conversione cui ha fatto seguito, non a caso, la scelta di appoggiare la (e, nel caso del New Labour di Tony Blair, di partecipare alla) “guerra al terrore” dichiarata da George Bush dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001.

Oggi quella scelta scellerata, che sta alla radice della nuova ondata terrorista che ci troviamo a dover fronteggiare, viene ribadita dal presidente francese Hollande, il quale rilancia la guerra al terrorismo cercando di mobilitare al suo fianco l’intera Europa. Dopo avere ottenuto l’appoggio – ampiamente scontato – del leader conservatore Cameron, Hollande tenta ora di aggirare la resistenza del nuovo leader laburista Corbyn (il quale incarna viceversa il tentativo di richiamare in vita la tradizione anticapitalista e pacifista del “vecchio” Labour) appellandosi direttamente ai deputati blairiani che hanno mal digerito l’elezione di Corbyn. Per il momento ha ottenuto la “rivolta” di metà dei membri del governo ombra e di un nutrito gruppo di parlamentari laburisti contro la linea anti interventista di Corbyn il quale tiene duro tentando di mobilitare la base del partito contro i ribelli.

A prescindere dall’esito di quello scontro (destinato probabilmente a risolversi con la concessione di libertà di voto ai singoli deputati) la lezione da trarre è chiara: l’etichetta socialdemocratica non offre più alcuna garanzia, non dico di aperta opposizione alla guerra, ma nemmeno di una sia pur minima esitazione di fronte ai palesi disastri che tutte le guerre del secolo da poco iniziato (Afghanistan, Iraq, Libia fra le altre) hanno provocato (centinaia di migliaia di morti, intere nazioni sprofondate nel caos, nascita di organizzazioni terroriste sempre più potenti e ramificate). Del resto i socialisti convertiti al liberal liberismo sono perfettamente consapevoli di tali disastri, quindi non è che sono stupidi, è che la guerra è funzionale alla realizzazione degli stessi obiettivi interni che stanno a cuore dei liberali. Obiettivi che andiamo ora ad analizzare.

Partiamo da Angelo Panebianco (“La timidezza dei magistrati nel contrastare il terrorismo internazionale”, Corriere della Sera del 27 novembre). Secondo Panebianco esisterebbero “certi” giudici (niente nomi per carità: altrimenti che c’è il rischio di essere chiamati a dimostrare “certe” accuse) che sarebbero disposti a riconoscere come opinioni, libere manifestazioni del pensiero gli inviti dei jihadisti nostrani a sgozzare gli infedeli. Quelle opinioni, si indigna Panebianco che però continua a non fornire prove circostanziate di quanto afferma, non sono tali ma atti di guerra equiparabili a veri e propri atti di violenza fisica (chissà cosa direbbe di fronte a certe sentenze americane che hanno assolto noti razzisti e nazisti in nome del free speech…). Chi pensa che non sia liberale mandare in galera qualcuno per avere espresso simili idee “non sa nulla di liberalismo”, scrive il nostro che subito dopo ci spiega cos’è il vero liberalismo. Che non c’entra nulla, a quanto pare, con la divisione dei poteri perché Panebianco esprime nostalgia per quella magistratura che, nella lotta contro il terrorismo nostrano durante gli anni 70, “era al guinzaglio dei partiti” (sic). Infatti il giudice Calogero accusò gli esponenti di Autonomia Operaia di delitti commessi da altre organizzazioni e lo fece senza la minima prova…

Oggi i magistrati, non riconoscendo più il primato della politica sul diritto, si considerano “al servizio della sola Costituzione” (orrore! Soprattutto ove si consideri le critiche di Morgan Stanley e soci all’eccesso di tutela che essa garantisce ai lavoratori…). Del resto, argomenta il nostro, “è difficile stabilire dove comincia l’ingerenza alla liberà del magistrato e dove finisce la legittima (!?) aspettativa che essa remi nella stessa direzione di chi cerca di bloccare una minaccia mortale”. Forse ciò capita anche a causa di leggi inadeguate? No perché dove non arriva la legge può arrivare una prassi giudiziaria che “può piegare le leggi in una direzione o nell’altra a seconda degli orientamenti della magistratura”. Tutto questo farebbe orrore a un liberale storico come Bobbio? Vi sembra in contrasto con tutti i principi classici del liberalismo? Certo, eppure Panebianco ha ragione: il liberalismo del XXI secolo è esattamente questo.

Ci sono però metodi meno truculenti per mettere in atto i nuovi principi liberali, adattandoli all’epoca del capitale globale finanziarizzato e della guerra contro il terrorismo. Ce li illustra Danilo Taino (“L’utilità del digitale per proteggere le città”, Corriere della Sera del 29 novembre). Posto che nell’era dell’economia globale la spina dorsale dell’economia del mondo “non sono più 200 paesi ma 600 città”, e che garantirne la sicurezza diventa un obiettivo fondamentale, ci sono metodi meno eclatanti degli scarponi sul campo in Siria per realizzarlo: esiste cioè l’opportunità di usare massicciamente i big Data, cioè la gigantesca mole di informazioni che proprio le città, a mano a mano che vengono digitalizzate, o diventano “smart” come oggi si usa dire, mettono a disposizione di chi dispone di strumenti tecnologici adeguati per tracciare in tempo reale vita morte e miracoli di tutti coloro che vi vivono (e che non possono più fare a meno di fornire quei dati se vogliono vivere, lavorare, divertirsi, viaggiare, ecc.). Siamo sicuri che questo invito orwelliano al controllo suoni meno sinistro dell’invito di rimettere il guinzaglio ai magistrati? E la privacy? Non si può volere tutto ragazzi, c’è la guerra e dovete pur scegliere fra sicurezza e privacy. E comunque “i cittadini dovranno essere informati di queste attività e garantiti contro il loro utilizzo improprio”. Garantiti da chi? Dai magistrati al guinzaglio della politica? O dalle multinazionali hi tech che offrono dati ai governi in cambio della libertà di spiare a loro volta il consumatore?

Veniamo infine al patriottismo. Ci hanno ripetuto fino alla nausea che i terroristi vogliono attaccare soprattutto il nostro stile di vita. Un tema che ritorna in un servizio da Parigi di Stefano Montefiori (“Il nuovo patriottismo. Celebrare la voglia di vivere e combattere il terrore”, Corriere della Sera del 28 novembre), dal quale veniamo a sapere che il numero dei giovani che chiedono di arruolarsi dopo il 13 novembre è triplicato, che i pacifici e festaioli francesi (patria della jouissance, come la chiamava Jacques Lacan) “cantano di nuovo la Marsigliese, uno degli inni più violenti e sanguinari del mondo”, che tutti sperano che i bombardamenti ordinati da Hollande colpiscano solo i terroristi anche se tutti sanno che questo è impossibile (e che le vittime civili faranno sì che altri giovani si arruolino, ma nelle fila dell’Isis). Insomma, la Francia vorrebbe svolgere oggi ad un tempo il ruolo della mite, colta e pacifica Atene e della rude e sanguinaria Sparta, scrive Montefiori (che fra le righe lascia trasparire la consapevolezza di come ciò non sia possibile).

Ma cos’è poi questa gioia di vivere che vorrebbero portarci via? In altre parti dell’articolo, come in mille altri articoli usciti in tutto il mondo dopo gli attentati, la verità viene a galla: i media esprimono per conto dei propri committenti tutto il terrore per il danno che la paura può arrecare ai consumi (il turismo che langue, le imminenti compere natalizie che stentano a decollare, gli spettacoli che vanno deserti, ecc.). Il vero patriota, in Occidente, oggi non è chi corre ad arruolarsi (non servono dilettanti, ci sono gli specialisti e i droni, e poi li voglio vedere i giovani delle discoteche al fronte e i loro paesi che contano le bare come ai tempi del Vietnam) ma chi corre a fare acquisti nei grandi magazzini, chi sta online h24 senza preoccuparsi della privacy, chi invoca una magistratura al servizio degli umori di un’opinione pubblica che reclama sicurezza a ogni costo e non della legge. Il vero fronte, com’è sempre avvenuto nelle guerre moderne, è il fronte interno. 

* attivista di Ross@, questo articolo è uscito anche sul blog di Micromega      

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