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Lavoro. Se l’orologio ti diventa nemico

Il ministro del lavoro Poletti ha sottolineato la necessità di inserire nei contratti altri criteri per la definizione della retribuzione che non siano solo il riferimento all’ora-lavoro, evocando gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. «Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto dell’opera. L’ora/lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione. Il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore ma sempre risultato» […] (fin qui Roberto Ciccarelli su Il Manifesto del 29 novembre scorso).

Non credo che la boutade di Poletti sia un ballon d’essai legato alla contingenza ovvero un tentativo di addomesticare, depotenziare i prossimi rinnovi contrattuali (che nel settore pubblico si presentano miserabili quanto a incrementi salariali previsti), ammonendo e intimidendo i negoziatori.

Si allude ovviamente ai “nuovi lavori” legati all’economia digitale, ma se essi o una loro gran parte sono assimilabili alla locatio operis, la commissione di un’opera singola eseguita dal professionista in autonomia, si tratta allora di qualcosa già fuori dalla valutazione oraria. Quindi è al lavoro dipendente, qualificato o meno, che Poletti si riferisce, per quanto resti volutamente nel generico, a quel lavoro finora contrattualizzato collettivamente dalle cosiddette parti sociali. Di più non dice: “misura dell’apporto all’opera” autorizza a pensare ad una valutazione individuale, non già ad un premio (collettivo) di produttività, istituto già presente che, dunque, non segnalerebbe alcuna novità. Insomma, si parla di contratto, ma l’impressione è che se ne parli per superarlo.

Del resto, lo stesso Jobs Act si muove in direzione della personalizzazione del rapporto di lavoro. In questa ipotesi il sindacato resterebbe inchiodato, in una cornice esclusivamente aziendalistica e corporativa, dentro il recinto della concorrenzialità operaia rispetto agli incrementi di produttività (il merito!), comunque da incentivare in ossequio alle “forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa”. Dunque, fine sostanzialmente della contrattazione collettiva, l’istituzione sindacato come funzione del comando aziendale; in parallelo e come contromisura “politicamente corretta”, crescita delle funzioni di patronato, legate peraltro alla tutela delle singole situazione lavorative.

In un momento in cui la crescente produttività legata alla robotizzazione del lavoro di fabbrica e, comunque, all’informatizzazione nel variegato campo dei cosiddetti “lavori” (intellettuali e non), richiederebbe, per non accrescere le schiere dei disoccupati, la riduzione drastica degli orari, in questo stesso momento i padroni danno segni, per ora solo allusivi, di voler rovesciare il tavolo, di volersi liberare di un vincolo storico (il limite orario della prestazione di lavoro) e di destrutturare ulteriormente il “soggetto lavoro”, frantumandolo ai fini del calcolo dell’erogazione salariale in modo da poter “apprezzare” le prestazioni individuali, la loro “qualità”: dunque, impresa e singolo lavoratore uno di fronte all’altro.

In realtà, in Italia il parametro «ora/lavoro» è già di fatto superato, esistendo i «voucher», forma di un lavoro discontinuo, senza diritti né tutele: essi infatti consistono in buoni orari ma senza un preciso legame tra l’attività richiesta e la retribuzione. Siamo dunque in presenza di un’inversione di rotta rispetto alla progressiva riduzione dell’orario di lavoro conquistata dalla secolare lotta operaia in Occidente: ora si vorrebbe sancire, legittimare in via definitiva e generale questo tipo di prestazione.

Poletti spaccia come liberatorio ridurre (o annullare) l’incidenza del fattore tempo nella valutazione del lavoro erogato. E invece, durante la prima rivoluzione industriale, essere deprivati degli strumenti di osservazione e di controllo del proprio tempo/lavoro, era occasione di abuso a danno degli ex-artigiani ed ex-contadini intruppati nella manifattura a capitalistica del primo Ottocento: in Inghilterra, gli orologi da tasca in possesso di (pochi) operai dovevano essere depositati all’ingresso della fabbrica, costituendo l’unico orologio, per così dire, legale prerogativa del sorvegliante, che spesso e dolosamente ne approfittava per prolungare di un’ ora almeno la durata del tempo di lavoro effettivo1.

Simbolicamente la percezione poteva rovesciarsi in aperta ostilità nei confronti degli orologi pubblici, ciò che ebbe modo dimanifestarsi in Francia durante la “rivoluzione” del luglio 1830, allorché «giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente si sparò contro gli orologi dei campanili»2, nel tentativo simbolico di “fermare il tempo”, la sua oppressività, quasi novelli Giosuè che, come dice la Bibbia, per abbattere le mura di Gerico fermò il corso del sole.

Dunque, secondo Poletti, la moderna “tecnologia del controllo” consentirebbe ed imporrebbe di andare ad una polverizzazione delle “posizioni” lavorative, la quale, ben oltre allo svuotamento dell’attuale contratto nazionale, metterebbe in discussione la stessa contrattazione di gruppo e aziendale. Polverizzazione peraltro che, a quanto afferma il recente rapporto CENSIS, troverebbe terreno fertile nella diffusa perdita nel comune sentire circa “il collettivo”, a tutto favore del “si salvi chi può”.

 

*attivista di ROSS@Genova

 

1 Vedi Eduard P. Thompson, Società patrizia cultura plebea.

 

2 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, tesi n. XV.

 

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