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Banche uber alles. La Ue trasforma i risparmiatori in “investitori”, a loro insaputa

Il rischio di fallimento di istituti di credito sta assumendo una tale frequenza da non poter essere relegata nei campi dell’episodico o  della mala gestione. E’ evidente che ci troviamo di fronte ad un riassetto complessivo del sistema bancario nazionale, che non solo ne ridefinisce il peso specifico  nelle relazioni tra soggetti economici ma  riqualifica la  stessa funzione del credito nello scenario della cosiddetta finanziarizzazione. Naturalmente ciò nulla toglie al contenuto criminogeno a monte dei fenomeni di fallimento bancario, anzi la natura truffaldina dei comportamenti posti in essere dagli istituti bancari suona a conferma del cambiamento di funzione degli organismi istituzionalmente preposti alla raccolta del risparmio e gestione del credito.

Fondamentale è il ruolo nevralgico assunto dal sistema bancario e finanziario nei processi decisionali nell’ambito dell’Unione Europea e il quadro normativo imposto all’intero sistema creditizio-finanziario volto ad una accelerazione dei meccanismi di accumulazione e di centralizzazione finanziaria, e che costituiscono la cornice dei ricorrenti casi di fallimenti bancari.

Un “tuffo” nella cronaca può aiutare a focalizzare le caratteristiche del riassetto del sistema bancario nazionale, infatti, ancora una volta il rischio di fallimento si è concentrato su ben quattro realtà bancarie territoriali – Banca delle Marche, Banca dell’Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e cassa di Risparmio di Chieti-  ad incidenza contenuta sul piano nazionale ma assolutamente rilevanti sul versante locale, che vanno ad aggiungersi alle crisi già acclarate di Carige, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, ecc.

Il novero degli istituti bancari esposti al rischio fallimento sembra assumere  una comune fisionomia individuabile nella stretta connessione  al tessuto produttivo territoriale al mondo della piccola e media imprenditoria nazionale, spesso legata ai distretti industriali, a loro volta attraversati dalla perdurante crisi databile dal 2008 aggravata dal circolo vizioso del rapporto con il sistema bancario. Allora il primo aspetto che viene emergendo  è la crisi di quel modello  produttivo ed industriale nello scenario della competizione in ambito U.E. con il ruolo preponderante della borghesia industriale e finanziaria nord europea.

La cesura impostasi nel rapporto tra attività industriale territoriale e le  strutture del credito e la necessità comunque di garantire una sufficiente redditività all’attività del capitale bancario, sempre più concepita come attività d’ impresa a sé e progressivamente autonomizzatasi dalle dinamiche di valorizzazione reale, sono all’origine del cambiamento strutturale della funzione degli istituti bancari: dalla ”scolastica” raccolta del risparmio per il finanziamento dell’attività produttiva alle scorribande della gestione speculativo-finanziaria.

Il passaggio ad una dimensione prevalentemente finanziaria richiede una forte mobilità del capitale da investire nei mercati globali oltre ad una accentuazione esponenziale dei rischi di volatilità, il tutto in presenza di un ridimensionamento delle attività reali possedute attraverso il finanziamento, che rende pressoché permanente il rischio di insolvenza in mancanza di una crescita, limitata dalla dimensione territoriale, “del parco buoi” degli investitori.

L’originaria crisi finanziaria dei mutui sub-prime, in realtà crisi generata dalle difficoltà di garantire la valorizzazione capitalistica nei processi industriali e produttivi reali, si è schiantata con forza sull’intero sistema bancario occidentale incluse le banche tedesche e francesi detentrici in larga misura di titoli azionari derivati assolutamente inesigibili, ha dato luogo ad interventi di ricapitalizzazione con denaro pubblico; quegli stessi aiuti di stato che le normative U.E. impediscono al nostro paese di utilizzare. Limitarsi a sottolineare la disparità di condizioni imposte dalla Unione.Europea alla soluzione delle crisi degli istituti di credito nostrani è fortemente riduttivo delle implicazioni connesse a tale divieto. Infatti, impedendo la possibilità di interventi pubblici nella gestione della crisi delle banche, in realtà il divieto attiene all’insieme delle attività economiche variamente definite, si inibisce il ruolo diretto dello Stato  nella gestione delle politiche economiche tout-court, anche quelle di semplice risanamento, lasciando la soluzione al cosiddetto mercato.

Ciò che si sta concretamente definendo è un meccanismo di salvataggio delle banche attraverso una ricapitalizzazione finanziato dalle maggiore banche nazionali, Unicredit, IMI San Paolo, con la Cassa Depositi e Prestiti come garante di ultima istanza. In definitiva il controllo delle banche in crisi e assunto dalle banche ricapitalizzatrici, che ne inglobano di fatto le attività sane nel proprio raggio di azione.

Condizione diversa quella degli investitori delle cosiddette obbligazioni subordinate, che altro non sono altro  – visto le caratteristiche di titoli spesso non quotati, non soggetti ad alcun obbligo di riserva per eventuali rimborsi anticipati –  che  prestiti fiduciari al di fuori di qualsiasi contrattualistica di tutela, per cui si sta procedendo alla costituzione di un fondo minimo  di risarcimento cui potranno parzialmente accedere gli investitori una volta accertata il mancato rispetto delle norme di collocamento, cosa tanto complessa quanto lunga.

Anche su questo punto la normativa che entrerà in vigore nel nuovo anno, segna un punto di rottura con la concezione del rapporto con il mondo bancario: il risparmiatore, classica figura di riferimento del cliente bancario, si tramuta definitivamente in quella dell’investitore che contestualmente alla propria scelta di investimento finalizzato alla realizzazione di una plusvalenza assume in solido la responsabilità patrimoniale dell’azienda bancaria in cui investe.

La massa di obbligazioni subordinate in circolazione, per non parlare di quella dei derivati azionari, è di oltre 60 miliardi di euro di cui oltre la metà in mano alle famiglie, una montagna di denaro e immaginiamo di sudato risparmio di inconsapevoli investitori che quotidianamente fluttuano sui mercati globalizzati della finanza e che saranno i primi a pagare il fallimento dell’istituto bancario a cui si sono rivolti.

Quello che viene definito il “senso comune” si sviluppa inevitabilmente dopo le condizioni strutturali e materiali che lo determinano, la diffidenza che viene percepita diffusamente intorno al sistema bancario deve lasciare rapidamente  il posto al “ buon senso” di non rendersi complici dei propri truffatori.

 * Ross@ Roma

 

 

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