Forse tu sei molto più ragionevole di me, quando consideri le cose con naturalezza;
ma la natura dell’uomo non è naturale, bensì vuole mutare la natura,
e perciò qualche volta si esalta.
Musil, L’uomo senza qualità
Le prime analisi del voto referendario, corroborate dai dati sulla composizione del voto, hanno chiaramente evidenziato che i votanti si sono sostanzialmente divisi in base alla classe d’appartenenza.
Dei numerosi aspetti che tale circostanza comporta, qui interessa evidenziare che il risultato del voto referendario certifica che, anche in Italia, la crisi della classe dominante è una crisi di egemonia.
Nonostante le magnifiche narrazioni ripetute a reti unificate da tutti i principali organi di informazione(?), il discorso mainstream non riesce più a rimodellare e mistificare una situazione reale che si presenta sempre peggiore per una parte crescente della popolazione.
In questo senso, il risultato del referendum evidenzia un insuccesso dei tentativi di produzione del consenso rispetto ad un nuovo modello sia di organizzazione della vita politico-istituzionale, sia, più in generale, rispetto ad un nuovo modello di vita e di lavoro.
In altri termini vi è una battuta d’arresto nella capacità di costruzione del consenso intorno ad una progettualità volta alla creazione di una società modellata sulle necessità del capitale transnazionale e, conseguentemente, volta alla costruzione del soggetto “neoliberale”.
Nonostante la potenza di fuoco messa in campo nel corso della campagna referendaria abbia raggiunto livelli impressionanti l’operazione non ha raggiunto l’obiettivo. Ciò è ancora più rilevante in considerazione del fatto che tale campagna è stata condotta non solo con falsificazioni e semplificazioni circa la proposta di riforma, ma soprattutto concentrandosi e sfruttando a piene mani l’armamentario retorico grazie al quale, negli ultimi anni, si è sostenuta e rafforzata l’azione governativa della classe dominante: esaltazione della velocizzazione delle decisioni, della governabilità, del cambiamento (a prescindere dal contenuto dello stesso), disprezzo delle pratiche democratiche, rifiuto del discorso critico, etc.
Occorre quindi sottolineare che, in un momento storico in cui gli organi di informazione sono sempre più necessari alla costruzione ed alla legittimazione del discorso dominante, le pratiche discorsive di un potere in difficoltà non sono riuscite a colpire nel segno, né a sviluppare consenso intorno ad una riforma, e soprattutto ad un progetto politico, contro il quale si sono espressi il 60% dei votanti.
Ciò che è stato sconfitto è, quindi, anche un determinato immaginario, le cui mirabolanti promesse si sono infrante contro la durezza della realtà che tentavano di mistificare.
La vittoria referendaria non significa certamente una vittoria generale, ma comporta l’apertura di uno spazio di agibilità politica all’interno del quale operare la conflittualità di classe che si è espressa nel voto.
La vittoria del no cercherà di essere capitalizzata da tutte quelle forze, molto diverse tra loro, che per differenti motivi hanno militato per il raggiungimento di tale risultato. Tuttavia, come si sottolinea da tempo, una parte molto consistente di tali forze – sovraesposte a livello mediatico; e qui occorrerebbe analizzare la selezione da parte dei dominanti di coloro che sono legittimati a rivestire il ruolo di avversari – non costituisce una reale alternativa. Al contrario, rappresenta una conseguenza della brutalità delle politiche imposte dai processi di ristrutturazione del capitale sulla scena transnazionale, senza porsi in maniera antagonistica rispetto ad essi.
Invece, anche a partire dal risultato del referendum, si può provare una ricomposizione di classe, frammentata ed atomizzata dalle ristrutturazioni del ciclo produttivo e dalle trasformazioni del mondo del lavoro.
La necessità e le potenzialità di tale processo sono evidenti anche rifletteando criticamente a quanto successo in Francia nel corso della primavera. In una situazione sociale sempre peggiore ed un vuoto di rappresentanza degli interessi popolari da parte del ceto politico, e la conseguente crescita (quantomeno in termini elettorali) del Front National, l’emergere di un movimento conflittuale e di massa ha, per svariati mesi, stravolto l’ordine del discorso politico e realizzato una ricomposizione di classe, soprattutto tramite l’individuazione del proprio nemico nelle politiche neoliberali provenienti da Bruxelles.
Il vuoto di rappresentanza e l’erosione dei corpi intermedi (e la proposizione di nuove strutture che, tuttavia, non riescono a coalizzare il consenso), combinati ad un rifiuto dell’esistente, per molti versi spurio ed ancora poco strutturato, che tuttavia si manifesta (proprio come provato dal risultato del referendum), dimostrano la presenza di uno spazio di agibilità politica per un soggetto di classe.
È inoltre molto interessante il fatto che tale crisi di egemonia si presenti in un momento storico in cui, in seguito a processi politici determinati dai dominanti stessi, si è chiuso lo spazio per qualunque mediazione ed ogni velleità riformistica risulta del tutto irrealistica: in linea generale, le esigenze della competizione internazionale e la perdita di forza politica delle classi subalterne hanno infatti reso inutile qualunque tipo di compromesso.
Tuttavia l’impossibilità di qualsiasi mediazione politica, in un momento di crisi di egemonia, può rivoltarsi contro coloro che hanno chiuso questi spazi, rendendo ancora più evidente che l’unica possibilità di cambiamento è costituita da una rottura radicale dell’assetto esistente, un’opposizione alle prospettive propagandate dai dominanti, ai loro miti fondativi ed all’universo desiderante proposto; non da irrealizzabili proposte di riforma che appartengono ad un mondo che non c’è più.
D’altronde, come era chiaro già molti anni fa, l’unica reale alternativa è quella tra barbarie e socialismo.
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