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11 marzo 77. ”Hanno ucciso Francesco”, e a Bologna fu l’inferno

Molto è già stato detto, in 40 anni, del 77 e dintorni a Bologna e altrove.
Cronologie ingiallite, forzature ideologiche, approssimazioni di circostanza. Vale la pena riscriverne solo se si possiede una prospettiva altra da quelle ufficiali, una delle tante, peraltro, di coloro che c’erano dentro.
Non perché la memoria dei testimoni debba per forza essere affidabile, quando le tracce del ricordo sbiadiscono nel corso del tempo. Ma perché quello fu un movimento di cui, come non mai, rintracciare una visione obbiettiva risulta vano, tante furono le fattezze di coloro che vi confluirono e le loro motivazioni, personali e di piccoli e grandi gruppi, particolari e univesali, che andavano dai bisogni materiali al desiderio di protagonismo, dalla creatività alle strategie di scontro sul terreno militare. Come se il volere tutto significasse, in fin dei conti, desiderare più di una vita, e in esse assumere identità multiple.
Fino alla scoperta che la freccia del tempo sibila in una direzione sola e non consente la marcia indietro e il ripartire da capo.
In quei giorni ci fu chi suonò Chopin mentre era sulle barricate, per morire poco tempo dopo nel più banale degli incidenti stradali.

115525975-4b0f5f42-8b27-445c-9c19-ebc56b7524f6L’11 marzo e qualcuno dei giorni e dei mesi seguenti rappresentano il crocevia in cui quelle persone si fecero politica, per riprendere, di lì a non molto, una propria strada differente, dove anche il morire avrebbe fatto parte del vivere, sia pure nei percorsi estremi della lotta armata o dell’autodissoluzione.
La prospettiva di chi scrive fu quella di un lavoratore dell’Università con in tasca una tessera sindacale, ma che, come tanti altri, non riteneva, di dovere sottostare a una disciplina politica.

Quel lavoratore, la mattina dell’11 marzo, uscì dall’Istituto in cui lavorava un’ora prima del solito e non notò nulla di strano. Prese la macchina parcheggiata in via Belle Arti, poi giù da via Mascarella e arrivato in via Irnerio. a sinistra, verso piazza 8 agosto.
Di lì 2km e per mezzogiorno sono a casa.
Pochi minuti.
Una telefonata e apprendo che è già successo di tutto.
Un’assemblea di Cl contestata a Fisica; una telefonata in Rettorato in cui i ciellini sostengono che li “stanno massacrando”, il Senato accademico che chiama le forze dell’ordine; il loro arrivo in via Irnerio. Tutto finito senza spargimento di sangue? Il rituale, in genere, è qualche sampietrino contro qualche lacrimogeno, ma sono giorni in cui il livello dello scontro si può alzare. Il Ministro degli Interni è Cossiga e anche in futuro rivendicherà codici che danno pochi spazi alla mediazione. Le forze dell’ordine sparano, un compagno, Francesco Lorusso, cade, morto ammazzato.
Assemblea in Piazza Verdi, nel cuore della città universitaria, si dice di procedere nel corteo vicino a gente che si conosce, noi ”i docenti”, due o tre file di persone in un mare di rabbia, fino alle due torri e oltre.
Fine dell’innocenza: una Volvo bruciata dalle molotov è il segnale che indietro non si torna. Le vetrine di via Rizzoli in frantumi. Qualche giorno prima si rideva gridando ”Un paio di ciabatte, 200mila lire, è questo il terrorismo da colpire”; adesso qualcuno colpisce.
Mi diranno che un’ora prima il sindaco Zangheri avrebbe rilasciato un comunicato in cui criticava i carabinieri e il Rettore che li aveva chiamati, ma di quel comunicato, nel tempo, si è persa la traccia. Invece il Pci è schierato in Piazza Maggiore, davanti alle foto dei partigiani uccisi…a ”difenderle”….difenderle da chi?
D’ora in poi si sentirà dire che chi ha sparato a Francesco era in guerra e non lo si può criticare.
La polizia fa muro davanti alla sede della Democrazia cristiana. Il corteo marcia in direzione stazione ad occupare i binari.
Arrivano camionette della polizia: botti ma senza fiamme. Non sono molotov, sono spari, a orecchio non da una parte sola.
E così via tra un’assemblea e riunioni varie.
Il 12 marzo si prosegue. Stavolta sento la cronaca da casa da radio Alice, radio del movimento: sconsigliano di uscire di casa, se non si hanno punti di riferimento sicuri,
In serata, in diretta, dalla radio “Siamo qui con le mani alzate”, qualche accidente e la polizia che fa irruzione e stacca i fili.
Nei giorni seguenti andrò a lavorare, ma non in macchina, parcheggiare è difficile. Gli spazi sono occupati dai carri armati dell’esercito e mi vengono chiesti i documenti per recarmi al lavoro. Chi ha parcheggiato lì mi chiede i documenti, dopo essere sceso dal carro armato.
Seguono giorni e giorni.
Quell’onda d’urto si sfrangia in mille rivoli. I murales e l’ecologia; il femminismo e le lotte per la casa; il lavoro e il suo rifuto; il farsi i cazzi propri e i progetti di lotta armata,
Una battuta di Giorgio Gaber, “da Lenin all’Oriente”; ma è ancora troppo poco, per dare un’dea del tutto.
Zangheri è un sindaco di notevole intelligenza politica. Sarà lui, contro il quale si scatenano gli slogan dell’ala creativa del movimento, a concedere, in settembre, gli spazi per un mega convegno nel quale si possa discutere di quel tutto senza confini.
La mediazione riesce. A settembre la percezione è quella di un polarizzarsi delle posizioni. La componente creativa è diffusa in ogni luogo di discussione, ma la prospettiva di una lotta armata prende forma su di una scala non ridotta. In un’assemblea, al Palasport, volano le seggiole tra le diverse visioni del mondo.
E’ la fine di un inizio.
Ma per qualcuno è anche l’inizio della fine.

 

da  https://alganews.wordpress.com

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1 Commento


  • Daniele

    Concordo: la confusione vitale e pulsante di quei giorni, la nostra Caporetto a settembre e la fine del "dare l'assalto al cielo" segnano un punto di nonritorno per chiunque abbia vissuto allora, anche e soprattutto per l'allora PCI, dopo il 1977 inizierà l'involuzione, poi l'autoaffondamento senza necessità e ragione, il resto è storia di oggi.

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