Nel forum del 7 novembre dedicato a “Il piano inclinato degli imperialismi”, c’è stata una interessantissima e documentata relazione di Guglielmo Carchedi. Nel suo contributo, che come gli altri verrà pubblicato integralmente, grafici inclusi, sulla rivista Contropiano, Carchedi ha illustrato la tesi secondo cui alla radice della crisi irrisolta del capitalismo manifestatasi nei primi anni ’70 e ripresentatasi nel 2007/2008, vi sia la caduta del saggio di profitto. Carchedi ha corroborato le sue argomentazioni con una preziosa serie storica dal 1949 al 2010. ed altri grafici. Anticipiamo la parte conclusiva della relazione di Carchedi dedicata in particolare alla natura delle cosiddette crisi finanziarie, che in realtà sono crisi dovuta alla caduta del tasso di crescita del nuovo valore prodotto.
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Il video dell’intervento di Guglielmo Carchedi
Dalla relazione di Guglielmo Carchedi
(…) La percentuale dei profitti finanziari sui profitti totali sale leggermente fino ai primi anni 1970 per poi accelerare dal 1970 al 2009, con un tonfo nella crisi finanziaria del 2007-2008. La prima crisi finanziaria esplode nel 1974-75, dopo la fine della cosiddetta età dell’oro del capitalismo.
I crescenti profitti finanziari richiedono una crescente quantità di moneta ma soprattutto di credito. Il credito non è moneta. La moneta è una rappresentazione di valore, il credito rappresenta un debito. Dai primi anni 1970 vi è una esplosione del credito ma non della moneta.
Questo trend continua anche dopo la crisi del 2007-9, il che significa che il sistema continua a richiedere la droga dell’esplosione del credito per posporre la crisi finanziaria. Il grafico 6 evidenzia che la prossima crisi finanziaria è inevitabile.
Il grande aumento del credito anticipa le crisi finanziarie e allo stesso tempo le rende possibili. Ma contrariamente a quanto si crede, l’aumento del credito di per sé non è la causa delle crisi finanziarie. Per capire la loro causa, dobbiamo prima vedere cosa sono.
Le crisi finanziarie non sono semplicemente bancarotte finanziarie generalizzate. Esse sono una crescita percentuale negativa, cioè una diminuzione assoluta, dei profitti finanziari. Siccome i profitti finanziari sono un’appropriazione di plusvalore dai settori produttivi, la causa di tutte le crisi finanziarie è la caduta del tasso di crescita del nuovo valore prodotto, cioè nei settori produttivi. Se meno viene prodotto, meno può essere appropriato. La Tabella 1 lo dimostra.
Tabella 1. Cicli discendenti della produzione di nuovo valore e crisi finanziarie.
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Picchi
Ventri
Crisi finanziarie
1973
1975
1974-5
1976
1982
1980-82
1984
1991
1984-5
1994
2002
1998; 2000
2004
2009
2007-8
Dai primi anni settanta, data in cui emerge la prima crisi finanziaria del dopoguerra, ci sono stati cinque cicli negativi nella produzione di nuovo valore. La tabella 1 evidenzia che tutte le crisi finanziarie del dopoguerra emergono all’interno di un ciclo negativo della produzione di nuovo valore.
Questo dimostra che la crisi finanziaria del 2007-9 affonda le sue radici nella sfera della produzione di nuovo valore piuttosto che il contrario. Questo risultato è di grande importanza perché dimostra che la caduta del tasso di profitto è la causa ultima delle crisi non soltanto economiche ma anche finanziarie. L’importanza è anche politica perché, se le crisi finanziarie fossero dovute alla speculazione sfrenata, alla corruzione, ecc. come viene comunemente creduto, basterebbe una migliore legislatura e regolamentazione della sfera finanziaria per evitare le crisi. Quindi non sarebbe necessario rimpiazzare questo sistema con un altro sistema. La teoria della caduta del tasso di profitto esclude questa possibilità ed è per questo che viene attaccata non solo dall’economia convenzionale ma anche dai Keynesiani in abiti Marxisti.
Concludendo, la suddivisione e ri-suddivisione della terra in blocchi imperialisti è un processo che continuerà finché vi sarà il capitalismo. L’emergere dell’Unione Europea ne è un chiaro esempio. Nel quadro della caduta secolare del tasso mondiale di profitto, la lotta imperialista non può che diventare più acuta e le crisi (sia finanziarie che del sistema produttivo), essendo la manifestazione della crescente debolezza del sistema, non possono che diventare sempre più gravi e distruttive. Ma se il capitale è debole, il lavoro non è in grado di approfittarsene. Le potenze imperialiste sono come lupi affamati che si contendono la preda. Ma la preda diventa ogni volta più piccola e la lotta più feroce.
Dopo la stagione neo-liberista e la precedente stagione keynesiana, un settore del capitale o chi per lui sta preparando una nuova stagione keynesiana. Ma come visto, tale opzione ha margini di manovra sempre più ristretti. La lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro è sacrosanta, ma non nell’ottica riformatrice, Keynesiana. Piuttosto, si deve combattere per le riforme perché esse contribuiscono ulteriormente all’indebolimento del capitale e rendono più facile il suo superamento. Se verrà, la prossima stagione Keynesiana con le sue promesse di uscita dalla crisi sarà un nuovo fallimento. Se si uscirà dalla crisi sarà perché una quantità sufficiente di capitale sarà stata distrutta e non a causa del minor tasso di sfruttamento. Ma questa ripresa, se e quando ci sarà, seguita da una nuove e peggiore crisi. Prima la sinistra se ne rende conto, meglio è.
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