Sin dall’inizio abbiamo giustamente ripetuto, riprendendo la massima di Gandhi: prima ci ignorano, poi ci combattono e infine noi vinciamo.
Ci sembrava una formula appropriata per definire la censura che la maggior parte del “Racket dell’informazione” ci riservava, e ancora abbondantemente ci riserva.
Qualche sporadica apparizione della nostra “capa politica” costretta in un brevissimo lasso di tempo a spiegare, dentro una cornice che tendeva a trattarci nei salotti televisivi con lo stesso approccio che le potenze coloniali riservavano ai popoli colonizzati esponendoli nella metropoli in veri e propri zoo umani, mentre altrove li massacravano e li schiavizzavano.
Viola Carofalo, come Francesca Fornario, così come Giorgio Cremaschi, sono stati costretti talvolta a parlare ad un ritmo così serrato nelle trasmissioni televisive che sembravano quasi leggere le controindicazioni dei farmaci nelle pubblicità, più che spiegare le ragioni politiche che stavano a cuore a Palp.
La carta stampata, a parte l’edizione locale di qualche testata e qualche radio (e le televisioni locali), ci ha ignorato durante il periodo delle assemblee, come della raccolta firme, così come nell’inizio della campagna elettorale, mentre chi ci dava spazio lo faceva facendoci passare o per bravi ragazzi volenterosi, o per il residuo fisso del ceto politico della sinistra “sotto mentite spoglie”, a metà strada tra l’essere innocui o rottami.
Che fossimo trattati come scout o come il prodotto del lifting della sinistra storica, il mantra paternalista dei giudizi più benevoli ricordava quel vecchio sketch televisivo di Ezio Greggio al Drive In, in cui sembrava incoraggiare il proprio interlocutore esortandolo con “ce la farà, ce la farà” per poi voltarsi verso la telecamera e affermare “non ce la fa, non ce la fa”.
Lo stesso copione si è verificato poi rispetto ai sondaggi che avevano il chiaro intento di orientare coloro che li ascoltavano, leggevano o guardavano a pensare che il voto a Potere Al Popolo non fosse un opzione utile perché ben al di sotto della soglia del 3%.
Senza entrare nel dettaglio del “processo di produzione” dei sondaggi, e gli interessi specifici che stanno dietro le agenzie, appare chiaro ed inequivocabile che questi, non solo in Italia, da alcuni anni sono meno attendibili del rimpianto “Pendolino” di Maurizio Mosca.
Vi ricordate questo volto noto del giornalismo sportivo italico che, prima delle previsioni sportive attraverso l’uso di sofisticati algoritmi, faceva sfoggio dei retaggi magici di una società che, anche in ambito calcistico, non si è mai liberata della superstizione?
Il punto di non ritorno di questo Tallone di Ferro mediatico è stata prima la rappresentazione della Manifestazione di Macerata, in cui l’unica notizia fornita (quasi in tempo reale) riguardava un presunto coro dal vago sapore dadaista che propugnava la moltiplicazione delle note cavità carsiche su tutto il territorio nazionale e la censura “schifosa”, per parafrasare le parole di Cremaschi, dell’incontro napoletano di Mélénchon.
L’oscuramento della visita napoletana del massimo esponente di France Insoumise sembrava un punto di non ritorno per ciò che concerne l’estraneità rispetto al cono di luce dei media.
Fin qui, tutto bene, ci siamo detti: l’importante non è la caduta ma l’atterraggio.
Poi qualcosa in parte è cambiato, e al di là delle non troppo convincenti auto-narrazioni gratificanti di una sorta di pressione sui media che li avrebbe costretti a parlare di noi (cosa comunque in parte vera) i motivi di questa nuova ed inedita esposizione mediatica vanno ricercati altrove.
È innegabile che gli studi televisivi e le colonne dei giornali sono campi minati, un terreno ostile, in cui ci si fa spazio a spinte (e sputi) e maturando quelle capacità comunicative che innegabilmente coloro che “personificano” la nostra causa hanno velocissimamente acquisito: i media non sono una semplice appendice degli spazi in cui noi abbiamo imparato a prendere parola, non sono un megafono, né il microfono di un impianto di amplificazione.
E proprio perché siamo cresciuti sbucciandoci le ginocchia nel cemento, o nel fango dei campetti di periferia, non ci devono fare paura i salotti televisivi…
Quindi cosa passa ora nella testa del nostro nemico?
Prima di rispondere vanno forniti alcuni elementi di fondo.
Il primo è un fatto che, solo parzialmente, trova un termine di paragone nella campagna al “no sociale” al referendum costituzionale dello scorso dicembre: lo stile che ha assunto la campagna elettorale per Potere Al Popolo.
Nuovamente, in Italia, si sperimenta una “scuola di strada” che con i propri strumenti di comunicazione diretta cerca di parlare con il blocco sociale, abbandonando il più possibile quelle forme sterili e rituali con cui da anni si affrontavano le scadenze elettorali, o la politica in genere: una grande occasione d’inchiesta per tastare il polso delle situazione.
Certamente bisogna tenere presente che il corpo degli attivisti che si è ri-agglutinato intorno a Palp, quel mondo variegato del “partito disperso e diffuso” della sinistra di classe, non conta ancora su numeri strabilianti, ma comunque risulta essere una massa critica (con una buona componente giovanile) che ha fatto sì che questo mondo uscisse fuori dai propri tradizionali perimetri e investisse la classe.
Questo corpo belligerante lo sta facendo con un livello di identificazione, passione e dedizione a questa idea-forza che non può essere sfuggito agli attenti sismografi dei vari apparati di intelligence dello stato.
Questo ha scompaginato le carte di chi credeva che lo scontro elettorale all’interno della crisi politica italiana potesse gestirsi a sinistra del PD, tra l’ipotesi politica del Brancaccio e le varie scissioni a sinistra del corpo di Rifondazione Comunista con una forte connotazione ideologica, ma con uno scarso seguito.
Quindi, nel mentre la campagna elettorale delle quattro opzioni politiche che riempiono lo spazio mediatico è sostanzialmente la stessa e sugli stessi argomenti, la logica di lavoro “strada” di Palp diviene un punto di rottura, in cui le incursioni nel corpo sociale vanno quindi prese come un dato su cui la controparte non può agire se non limitandone i margini di azione od offrendo una rappresentazione funzionale al circo politico, tesa a contenere la sua possibilità di esondazione – l’effetto virale si direbbe oggi – cioè a depotenziarne la possibile appetibilità non solo elettorale.
Fuori dall’enfasi retorica, viviamo in un Paese dove il conflitto sociale non fa parte della vita quotidiana dei subalterni, tranne che per una stretta minoranza organizzata, dove le capacità di esercitare egemonia su larghi strati della classe è tutt’altro che un orizzonte vicino; dove la nostra classe di riferimento è come il “fratello figlio unico” della famosa canzone di Rino Gaetano: malpagato derubato deriso disgregato, e oggi spesso incline a farsi sedurre dalle sirene della mobilitazione reazionaria di massa.
Allo stesso tempo il terrorismo psicologico, che è una delle armi predilette della “lotta di classe dall’alto”, può trasformarsi in un boomerang, in cui la criminalizzazione preventiva può essere un vettore di attrazione per l’esercito degli esclusi dall’attuale patto sociale nei confronti del soggetto che viene demonizzato.
Il “precotto” che si cerca di offrire al corpo sociale è l’immagine di una forza della “sinistra radicale” che si oppone alle formazioni neo-fasciste, cioè la si cerca di relegare a genuina interprete di quel ruolo (a cui la sinistra tutta e i suoi corpi intermedi hanno rinunciato da tempo) di campione dell’antifascismo; il polo opposto di una estrema destra sdoganata a cui da tempo si attribuisce il compito di legittima interprete della rabbia popolare verso l’Unione Europea, l’attuale assetto geopolitico, il sistema finanziario internazionale.
Se si vuole, è la continuazione di quella strategia perfezionata da Minniti per cui gli abitanti delle periferie metropolitane o delle aree impoverite del Paese potevano – e possono tuttora – esprimersi, per denunciare la loro condizione, se e solo se prendono come proprio nemico colui che sta peggio, nella forma della guerra dei penultimi contro gli ultimi, scegliendo come propria sponda politica la destra neo-fascista e la Lega di Salvini come copertura istituzionale.
Tra i vari successi dell’“Operazione Minniti”, che ha creato la fake news dell’emergenza immigrazione, c’è stato l’accreditamento del PD come “partito dell’ordine” capace di incanalare le legittime rimostranze dei cittadini in un orientamento politico di matura governance delle contraddizioni sociali.
Ora questo gioco lo si ripete in campagna elettorale; il terreno non è più quello dell’immigrazione ma del fascismo/antifascismo, in una versione rinnovata degli opposti estremismi, con un gioco a somma zero con i due opposti che “politicamente” si elidono.
Sia chiaro, l’antifascismo va praticato e rivendicato, soprattutto perché il suo paradigma mainstream caratterizza tutto l’arco delle forze politiche e quindi va combattuto qualsiasi forma assuma: da quello delle formazioni orgogliosamente neo-fasciste al noskismo di Minniti.
Bisogna riflettere sul fatto che ad un corpo sociale che in nuce può intravedere il vero volto del nemico nel mix di politiche di austherity e di svuotamento della sovranità operato dall’Unione Europea e dei suoi terminali nazionali, spostando la contrapposizione in seno “verticale” (popolo contro oligarchie ordo-liberiste europee, e non più chi sta male contro chi sta peggio), viene propinata la ricetta della paura, dello scontro che si drammatizza, del pericolo dell’escalation di violenza, per cui la unica exit strategy prospettata appare essere un governissimo (accreditando le forze che lo propongono) con la benedizione dell’Unione Europea.
Quanto più è possibile, bisogna scucirci di dosso questo vestito confezionato per noi dalla trama dei poteri ed insistere nell’offrire, anche parlando di antifascismo, la rappresentazione più precisa di questo giano bifronte che abbiamo davanti e di chi gli regge il gioco.
Il dato con cui i think tank dell’establishment devono fare i conti “in potenza” è quello dell’accelerazione di un processo politico che ha portato ad un distacco dalla palude della “sinistra del centro-sinistra”, che ha fatto si che un corpo di attivisti che non si erano mai cimentati con l’ipotesi di strutturazione di una rappresentanza politico istituzionale – cosa ben diversa da identificare una “sponda politica istituzionale” dei movimenti o delle proprie botteghe – la stiano materialmente costruendo; tutto questo con un orientamento che rompe con il cordone ombelicale della “riformabilità” dell’edifico politico sociale della UE e prospettando un campo da gioco; continentale, tra l’altro.
Il vero spauracchio del blocco sociale dominante, nel breve periodo, è quello di trovarsi un corpo politico di attivisti che ha ottenuto una vittoria elettorale che ne corona un percorso in ascesa e che ha incominciato ad essere conosciuto dal blocco sociale, in grado di aspirare ad essere quell’elemento in più che faccia fare un possibile salto di qualità alle mobilitazioni che si dovranno necessariamente costruire all’interno dell’agenda politica, rispetto alla mannaia che in tarda primavera l’UE imporrà nuovamente all’Italia: un vettore della crescita politica ed organizzativa di strati sempre più ampi di subalterni.
Nel medio periodo, invece, la paura delle classi dominanti è che si coaguli attorno ai punti di forza più avanzati della sinistra di classe sul continente – attorno specificatamente a France Insoumise – una ipotesi di critica all’UE “a sinistra” che rompa con le ipotesi politiche che hanno accettato il piano delle compatibilità imposto dalle oligarchie europee: è il caso eclatante di Syriza in Grecia ed in parte di Podemos in Spagna per il suo approccio fallimentare, tra l’altro, alle mobilitazioni in Catalunya.
In questo contesto, bisogna cercare il più possibile di ributtare le contraddizioni nel campo dell’avversario affinché la paura cambi di campo.
Loro forse stanno sopravvalutando le loro forze, noi contiamo sulle nostre, perché la situazione potrebbe anche sfuggirgli di mano.
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