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Ilva, il dietrofront del M5S: a Taranto si continuerà a morire

L’accordo siglato tutela i posti di lavoro ma restano in sospeso le questioni sanitarie ed ambientali perché per far funzionare l’impianto senza creare danni alla popolazione si deve modificare il ciclo di produzione e bonificare l’area. Malgrado le promesse fatte, Di Maio ha tradito la città e il nodo resta aperto: se ne uscirà soltanto quando si supererà la dicotomia tra lavoro e salute. Ma quando?

Il nuovo accordo di governo sull’ILVA, dopo mesi di rimbalzi istituzionali e di dichiarazioni fuorvianti rese alla stampa, ha restituito una soluzione che non prevede nessuna novità sul piano tecnologico e gestionale dello stabilimento e che non apporta alcun elemento migliorativo al problema della città di Taranto. Inoltre, viene anche archiviata la necessità dell’indicazione di strumenti di legge – più o meno coercitivi – con i quali poter obbligare un gruppo privato a divenire l’attore primario di un cambiamento risolutivo nella condizione dello stabilimento e degli abitanti di Taranto.

Il parere richiesto dal Ministero dello Sviluppo Economico all’Avvocatura dello Stato confermava in pieno il precedente, ovvero che la cordata AcciaItalia non poteva gareggiare contro AM Investco perché addirittura cancellata dal Registro delle Imprese. Una grave empasse di mesi, quella causata dal governo, quando si era già in possesso di tutti gli elementi istituzionali per continuare con la procedura in corso, che non ha mantenuto neanche la promessa di un cambiamento profondo nell’operatività dell’ILVA.

I diritti dei cittadini e la politica industriale del Paese sono stati gestiti entrambi con colpi di scena a fini puramente propagandistici. Non rendere pubblico il parere dell’Avvocatura dello Stato, e anzi aver messo in dubbio l’iter, è stata una mossa teatrale che ha usato il nome di Taranto per fini strumentali di campagna elettorale. Un abuso inutile vista la conclusione dei negoziati.

Sacrosanto è stato il ruolo dei sindacati in questo passaggio cruciale, che, consci delle politiche che il gruppo Arcelor Mittal ha promosso altrove in Europa, hanno cercato di ottenere le giuste garanzie per gli operai. Ma una volta messo al sicuro il nodo occupazionale, manca ancora l’essenza di tutto l’accordo: il rispetto per la città di Taranto e le garanzie che essa meritava. Le malattie gravi sono in crescita esponenziale. Le morti, secondo i più autorevoli rapporti medici, non accennano a diminuire. Le questioni ambientali, sanitarie, sociali sono pressanti.

Le garanzie date a corredo della chiusura dell’accordo non possono davvero far pensare, esperti o meno, che la questione sanitaria e ambientale possa essere davvero risolta con le misure concordate, perché per poter far funzionare l’ILVA senza creare altri irreparabili danni alla popolazione si sarebbe dovuto modificare profondamente il ciclo di produzione e l’impiantistica dello stabilimento, impermeabilizzare i suoli, chiudere i parchi minerali con apposite coperture, aspirare i fumi nocivi per gli operai dentro la fabbrica. Da oggi. Perché sono già decenni che la realizzazione di queste opere è urgente. Di una urgenza, però, che non scomoda gli animi.

Nella guerra fratricida tra partiti, Taranto e la sua gente dove sono finite? Pare che siano stati usati dalla propaganda. Offesi dalle cifre. Vittime di una politica industriale che non si vuole neanche moderna o ambiziosa, perché l’Europa va veloce verso la creazione di politiche industriali molto avanzate che coniugano la salute, l’ambiente e il lavoro senza mettere l’opt-out a nessuna delle opzioni.

Un recente seminario tenutosi a Bruxelles sul futuro dell’industria europea ha fatto il punto sulla necessità di legare tutte le attività industriali al rispetto pieno dei parametri di sostenibilità ambientale. Si parla di un rinascimento delle industrie per un’Europa sostenibile, con i cittadini al centro delle politiche da perseguire, fine ultimo del processo economico-industriale.

A maggior ragione, viene da sorridere quando si legge che bisogna “difendere l’ILVA dall’UE”. L’Unione Europea, infatti, ha richiamato il governo italiano diverse volte in merito all’ILVA e non per fare gli interessi degli altri gruppi europei produttori di acciaio (del resto, sono stati i governi italiani a vendere l’ILVA ad un gruppo privato franco-indiano, giusto? La questione Taranto è adesso nelle mani della volontà di un privato) ma per cercare, seppur in tutta la sua debolezza, di richiamare al rispetto di un diritto che da tempo viene violato: il diritto alla salute di cittadini ed operai di Taranto.

L’Unione Europea, nelle sue diverse competenze, potrebbe essere un grande alleato del futuro della città, qualunque sarà la sua strada: nella realizzazione di una opera di riconversione a 360 gradi, realizzata in base ad un solido e innovativo piano economico che vada ben al di là di programmi localistici e che preveda la collaborazione stretta con i servizi preposti della Commissione Europea. Oppure, se la classe politica che i cittadini voteranno deciderà, per la creazione ex novo di un polo siderurgico moderno.

Continuare a nascondere la mancanza di cambiamenti strutturali alla produzione con la promulgazione di “leggi speciali per Taranto” per blandire i tarantini è un’offesa: esse fino ad ora non hanno prodotto quel benessere e quel livello di sicurezza sociale che si erano prefisse. E soprattutto non possono risolvere la questione centrale: quella sanitaria.

Può il futuro di una delle più grandi città del Mezzogiorno continuare a dipendere dalle promesse e dalle guerre sui social tra esponenti di partito? La risposta è evidentemente no, visti i risultati.

Taranto continua ad essere merce di scambio politico, asso pigliatutto da usare e di cui abusare per dare un’aura di lotta sociale ad azioni politiche poco brillanti.

Finché le grandi questioni riguardanti l’industria e gli investimenti strutturali del Paese non saranno coniugate con una politica che abbia al primo posto il rispetto delle persone, nulla potrà funzionare.

Da qui la necessità di cambiare prospettiva, di aprire un confronto con tutte le anime della città, con i sindacati, con i partiti, con i rappresentanti dei consumatori, con le associazioni di categoria e con i rappresentanti della società civile, mettendo al centro la popolazione di Taranto e capire dove essa scelga di andare.

Si vuole tenere l’ILVA aperta a Taranto cercando di realizzare uno stabilimento moderno che possa dare garanzie di sostenibilità ambientale e sanitaria? O chiuderlo, per fare l’acciaio in aree lontane da centri urbanizzati, dedicandosi a Taranto ad un’opera maggiore di riconversione con la creazione previa di un profondo piano di rinnovamento economico e strutturale di tutta l’area? Non credo che si possa prescindere da questo profondo confronto con la popolazione: non è bastato il voto. Il Movimento 5 Stelle è uscito pesantemente sconfitto dall’accordo con l’ILVA per mancanza di confronto con la realtà e di progettualità.

La soluzione da prediligere sarebbe certamente quella di chiudere lo stabilimento di Taranto per realizzare un impianto moderno altrove. Se l’acciaio è fondamentale all’economia del Paese, che esso si produca lontano dai centri abitati e in condizioni di estrema sicurezza. Ma questa deve essere una scelta condivisa e supportata con forza da tutta la città. Sarebbe certamente la scelta che permetterebbe la rinascita di Taranto.

Si deve ripartire raccontando alla popolazione la verità. Lo stabilimento nelle sue condizioni attuali non può garantire la salute delle persone. Ci vuole un confronto cittadino (a chi mi dirà che c’è stato un referendum in materia, lancio un invito a leggere come era formulato quel referendum) sulle proposte, da questo non si può prescindere.

La nuova sinistra che vorrei vedere in campo avrebbe in Taranto la sua sfida maggiore. E potrebbero proprio essere i sindacati, adeguatamente coinvolti e profondamente cambiati rispetto alle priorità nella lotta per la difesa del lavoro, a diventare parte attiva delle trasformazioni necessarie.

Si parta dall’affidare uno studio ad esperti di siderurgia mondiale su se e come si possa cambiare l’ILVA di Taranto, su quali sarebbero le conseguenze sulla salute della popolazione con un cambio radicale nel processo produttivo. Contemporaneamente, si faccia uno studio serio e concreto per disegnare un piano di riconversione realistico: con attività, cifre, stime, progetti pronti per esser realizzati. I fondi europei ci sono e l’Italia è tra i Paesi europei che ne utilizza di meno per mancanza di progetti. Si faccia di Taranto un laboratorio a cielo aperto, coinvolgendo la popolazione e spiegando che la politica che vende soluzioni impraticabili è finta. Le diverse anime della città, divise e strumentalizzate dai molteplici interessi nazionali che ruotano intorno al nodo ILVA, devono poter dialogare di nuovo, in uno scambio costruttivo, cercando di trovare una strada condivisa di azioni da intraprendere.

La popolazione deve diventare partecipe di un processo decisionale che non può essere ancora affidato alla propaganda ormai vuota dei partiti tradizionali. Si riparta dalla necessità di superare la dicotomia tra lavoro e salute, perché già il fatto che la classe politica abbia posto la città davanti ad una simile scelta è una sconfitta irreparabile, che non necessita di altro per esser superata.

Le persone che abitano al quartiere Tamburi sono persone vere. I bambini di Taranto sono bambini veri. Hanno gli stessi diritti degli altri italiani, visto che la questione nazionalità ha assunto ormai valenza centrale nel Paese.

È urgente una politica che esca da Twitter, che scenda in campo, che vada a parlare con gli operai davanti ai cancelli dell’ILVA non solo la settimana prima dell’accordo di governo ma che si impegni con la città in un percorso. Lungo? Non credo. Sarebbe certamente di successo e condiviso.

Taranto vuole l’ILVA? Si smantelli lo stabilimento e si crei un impianto moderno, efficiente, profondamente diverso, come è stato fatto altrove. Si apportino i dati sulle conseguenze per la salute e la vita delle persone; lo facciano studiosi, esperti, studiando cosa è stato fatto altrove in Europa non con le nostre ricerche private su internet ma ad opera di una commissione ad hoc.

Taranto vuole un piano di riconversione? Ci si impegni nella progettazione e presentazione di un piano radicale di ridefinizione delle attività produttive: nessuno deve restare senza lavoro, al contrario, la città dovrebbe poter rifiorire e beneficiare in tutti gli aspetti della sua vita di un cambiamento epocale di tale portata. Si è fatto altrove, lo si faccia anche a Taranto. E a chi farà l’esempio di Bagnoli come insuccesso dei processi di riconversione, si risponda con ciò che è accaduto a Belval, con la Ruhr, con la Svezia, dove le aree che ospitavano stabilimenti siderurgici sono adesso dedicate con successo ad attività di ricerca, culturali, commerciali con un notevole ritorno in termine di benessere e di economia.

Non ha vinto nessuno con questo nuovo accordo ILVA. Nessuno ha vinto se ci saranno altri tumori, infarti, autismo, diabete. Nessuno ha vinto se gli operai vanno a lavorare con la paura di morire.

Nessuno avrebbe vinto, del resto, se la fabbrica fosse stata chiusa senza prima avere stretto tra le mani un piano di riconversione economica, con previ solidi investimenti e dettagli della ricollocazione dei lavoratori.

Si esca dalle eterne campagne elettorali e si ricominci, prefiggendosi l’obiettivo innanzitutto di una scelta condivisa dalla e con la popolazione e poi della sua realizzazione in tempi brevi con progetti reali. Ci si ponga come fine ultimo lo sviluppo delle persone, il benessere economico, sociale, fisico e mentale. Ripartire dal dialogo tra le parti, allontanandoci dalle pericolosissime strumentalizzazioni esterne.

La rivoluzione culturale e politica del Paese deve ripartire da Taranto, simbolo del fallimento attuale dei partiti politici. Perché l’aver messo una città intera nel vicolo cieco della scelta tra lavoro e salute è già un enorme fallimento.

* da http://temi.repubblica.it/micromega-online

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