Menu

Segregazione sociale ed etnica nella scuola: bacini d’utenza e biennio superiore unico

Uno dei punti di svolta della scuola italiana verso la mercatizzazione dell’istruzione è stata l’abolizione del vincolo a iscrivere bambini e ragazzi in età d’obbligo scolastico presso l’istituto d’assegnazione secondo il bacino d’utenza. In pratica, un tempo i genitori erano tenuti, salvo deroghe per motivate ragioni, a iscrivere i propri figli nella scuola a loro assegnata, in base a criteri di vicinanza all’abitazione, in base ai bacini d’utenza disegnati, in genere, dai comuni.

Con il procedere dei processi di autonomia degli istituti e l’affermarsi nella scuola della logica di mercato, tale vincolo è stato di fatto abolito in favore della totale libertà di scelta dei genitori. Anche da questa situazione è nata la concorrenza tra scuole, con il proliferare di iniziative acchiappa-iscrizioni più o meno demenziali e con le grottesche giornate aperte (o meglio open day, che suona più ”manageriale”) in cui gli insegnanti sono costretti a vendere la propria scuola come si farebbe con un qualunque prodotto commerciale.

Questa situazione raggiunge il suo apice, evidentemente, nei centri urbani medio-grandi, dove per i genitori è possibile scegliere tra diverse scuole, pubbliche o private, comunque raggiungibili in termini di tempo e di spazio, al contrario dei piccoli centri e delle zone rurali dove esiste un solo istituto scolastico.

Al di là delle considerazioni generali su una tale mercificazione dell’istruzione è importante approfondire le conseguenze che la quasi totale libertà di scelta dei genitori ha provocato dal punto di vista sociologico, vale a dire sulla mescolanza o sulla segregazione e gerarchizzazione sociale nelle scuole, da quello pedagogico, quindi sui risultati effettivi dell’apprendimento e mettere in relazione questi due approcci per verificane gli effetti sull’equità del sistema scolastico.

Qualche dato d’inchiesta sulla segregazione scolastica

In questo percorso può esserci utile una recente ricerca del Politecnico e del Comune di Milano1 che contiene diversi dati interessanti. Naturalmente, la ricerca riguarda il territorio milanese, ma può costituire comunque uno studio di caso da cui partire per varie riflessioni. Già dall’introduzione al volume i curatori affermano che una funzione fondamentale della scuola dell’obbligo come quella di includere tutti i cittadini e di garantire loro pari opportunità “sia fortemente minacciata a Milano da una spiccata tendenza, rafforzatasi negli ultimi anni, alla polarizzazione degli allievi in istituti scolastici separati, in cui si concentrano di conseguenza bambini di estrazione sociale o di nazionalità e provenienza etnica molto omogenee. La scuola milanese appare di conseguenza, per effetto di questa tendenza, come un arcipelago in cui i diversi gruppi di allievi, distinti per origine etnica e/o per livello socio-economico, non si mescolano insieme, ma si separano tra loro frequentando diversi istituti scolastici.” 2

Causa di questa situazione è, secondo i due autori, l’importanza attribuita alla scelta delle famiglie e alla centralità dei principi dell’autonomia scolastica. La polarizzazione sociale tra le scuole, secondo i dati della ricerca, è dimostrata dal fatto che se i minori stranieri in età dell’obbligo sono a Milano circa il 20% degli iscritti totali, ci sono scuole dove la loro percentuale raggiunge il 30% o 40% , mentre in altre cala al 10% o persino al 5%. Questa distribuzione non riflette l’effettiva presenza di stranieri nei bacini d’utenza delle scuole ma, al contrario, presenta delle discrepanze rilevanti. Il fatto che conferma l’origine della segregazione scolastica nelle scelte dei genitori sta nel sapere che il 56% dei bambini milanesi non frequenta la scuola primaria del proprio bacino d’utenza e questo dato sale al 57% per la scuola secondaria di primo grado. Di questi alunni “mobili”, circa la metà frequenta scuole private.

Quali siano le motivazioni di queste scelte sono chiare leggendo lo sviluppo della ricerca: le famiglie con maggiori possibilità economiche scelgono la scuola con l’intento di auto-segregare i figli in un ambiente omogeneo e lontano dai “rischi” rappresentati da una situazione socialmente differenziata, scegliendo le scuole pubbliche ritenute “migliori” e nella metà dei casi invece gli istituti privati. La ricerca del Politecnico e del Comune di Milano accorpa opportunamente segregazione sociale ed etnica. E’ noto infatti che quando si parla, in Italia, di alunni “stranieri” si rischia di incorrere in fraintendimenti dovuti alla nostra legislazione superata ed escludente rispetto al diritto di acquisire la nazionalità italiana, la cui riforma è stata insabbiata, durante la scorsa legislatura, dall’atteggiamento pavido e compromissorio del governo Gentiloni verso le opposizioni di destra.

In pratica, i due terzi dei minori “stranieri” che frequentano la scuola milanese sono nati in Italia, non hanno quindi alcun problema linguistico, sono mediamente o molto integrati nel contesto scolastico, tanto da poter dire che le questioni legate all’etnia si intrecciano fortemente con quelle sociali, essendo le famiglie di provenienza di tali ragazzi spesso di condizione sociale povera o modesta. Per questo si può affermare che la situazione di segregazione vissuta nelle scuole milanesi ha caratteristiche contemporaneamente etniche e sociali (quindi coinvolge anche alunni italiani delle classi popolari).

Inoltre, la segregazione sociale ed etnica nelle scuole milanesi ha origine nel privilegio di scelta delle famiglie borghesi, poiché sono proprio queste ultime che hanno tempo e mezzi (anche economici, nel caso dell’iscrizione a scuole private) per esercitare un diritto a cui le famiglie popolari non sono interessate, per mancanza di tempo, di mezzi, di informazione e infine anche perché non hanno nessuno da cui “difendersi”.

E’ comunque presente anche una percentuale, molto inferiore, di famiglie straniere che scelgono scuole esterne al bacino di residenza, ma questa opzione è dettata da motivazioni legate al lavoro dei genitori (badanti, COLF ecc.) e non da esigenze di “autosegregazione sociale”; inoltre la presenza di minori stranieri nelle scuole private è irrilevante. I casi spesso riportati dalla grande stampa, in cui alcune scuole formano classi massicciamente composte da stranieri sono quindi motivati più dall’abbandono autosegregativo di alcuni istituti da parte delle famiglie benestanti italiane che non da un’effettiva situazione sociale dei quartieri.

Purtroppo è evidente che una tale situazione può a volte creare notevoli differenze tra scuole soprattutto in conseguenza della disponibilità di risorse economiche. Infatti, è noto che nelle scuole è ormai pratica corrente quella dei contributi “volontari” che sono evidentemente più cospicui per le scuole che ospitano ragazzi di famiglie borghesi che spesso formano anche associazioni di genitori che garantiscono un supporto economico significativo.

L’esigenza di “proteggere” i propri figli dalla mescolanza sociale, dal contatto con ragazzi di classi popolari o stranieri fa peraltro dimenticare alle famiglie borghesi altre ragionevoli motivazioni contrarie all’autosegregazione, magari in scuole “bene” ma lontane dal quartiere di residenza. Tra queste va citato sicuramente l’isolamento a cui le scelte dei genitori condannano i ragazzi delle classi più ricche. Per un preadolescente la scuola è un luogo d’intreccio di relazioni sociali e amicali, che, nate all’interno della scuola, si proiettano nel quartiere o nel campo giochi e nella possibilità d’incontrarsi nelle ore di tempo libero con i propri compagni. Tutto ciò diventa difficile per ragazzi che frequentano scuole a volte anche abbastanza lontane dall’abitazione e ciò non è positivo per dei bambini o preadolescenti per cui avere spazi di condivisione con i pari è fondamentale.

Qualche dato europeo

Esaminato il caso milanese, probabilmente abbastanza emblematico anche delle situazioni di altre città italiane, è opportuno volgersi a guardare quanto accade presso i nostri vicini europei.

All’interno dell’Unione Europea, la politica relativa alle iscrizioni scolastiche in base alla residenza presenta differenze enormi, in una gamma di situazioni che va dalla libertà totale dei genitori a un’automaticità quasi totale. Esistono dei paesi come il Belgio o l’Olanda, dove la libertà dei genitori è praticamente totale ( dove la segregazione sociale è forte) altri, come i paesi scandinavi, dove si preferisce un criterio per bacini d’utenza e infine altri in cui esiste un compromesso tra le due soluzioni. Tra questi ultimi è interessante il caso della Francia, su cui disponiamo di dati anche su scala nazionale.

In Francia fu istituita nel 1963 la carte scolaire, documento che legava in modo piuttosto prescrittivo gli alunni alle scuole vicine all’abitazione. Parallelamente ai processi di aziendalizzazione della scuola, presenti in Francia come in tutta l’UE, la forza di tale vincolo fu diminuita, sino a quando, nel 2007, Nicolas Sarkozy propose l’abolizione della carte scolaire nel suo programma elettorale (seguito ben presto, per onor del vero, da Ségolène Royal, candidata socialista). In realtà l’abolizione totale della carte scolaire non è mai stata attuata, piuttosto ne è stato promosso un assouplissement (ammorbidimento) che ha finito con dare grande potere di scelta ai genitori.

Qualche anno dopo tale ammorbidimento, il ministero dell’educazione nazionale francese si è proposto di verificare gli esiti del provvedimento, censiti nella rivista Ėducation formations. I risultati rilevati possono essere avvicinati a quelli riportati dall’inchiesta milanese, soprattutto per quanto riguarda le grandi città. L’abolizione di fatto del vincolo della carte scolaire ha provocato in Francia fenomeni importanti di segregazione sociale ed etnica. In particolare, tali esiti sono imputati all’ansia di prestazione e di scuola di “eccellenza” che attanaglia le classi ricche francesi, che proprio per questo tendono a iscrivere i propri rampolli in scuole dove sia meno presente la mixité sociale3, accusata di provocare un abbassamento dei livelli di insegnamento e apprendimento.

Non è difficile quindi constatare che la libertà di scelta dei genitori comporta quasi inevitabilmente dei conseguenti fenomeni di segregazione etnica e sociale.

Segregazione, mixité e livelli d’apprendiment

Di fronte ai dati citati è spontaneo domandarsi se ciò che sembrano cercare i genitori delle classi più ricche nelle scuole non a “rischio” di mescolanza sociale, vale a dire una preparazione migliore, più “alta” e qualificata, risulti effettiva.

Comparare i risultati scolastici di scuole di contesti diversi, o persino di sistemi scolastici nazionali differenti, è evidentemente un’impresa difficile e rischiosa. Tuttavia, pur con tutte le riserve che è legittimo nutrire sui test PISA, credo che qualche elemento di valutazione possa essere desunto da quella fonte4. Se si esaminano in particolare i dati dei test PISA del 2015, si scopre che la segregazione sociale di un sistema scolastico è sistematicamente correlata con bassi risultati di apprendimento5.

Questo dato mette in luce come la ricerca della scuola “protetta” dai “rischi” della mescolanza sociale sia assolutamente insensata poiché, al contrario, i migliori risultati vengono proprio da quei paesi che praticano una politica di mescolanza sociale (Norvegia, Finlandia ecc.). Si potrebbe quindi concludere che la salvaguardia dell’eterogeneità sociale del sistema scolastico sia un fattore del suo buon rendimento. Tuttavia, questa è una conclusione che potrebbe risultare almeno in parte affrettata, poiché si può anche immaginare un processo di casualità inversa. Infatti, può accadere che nei sistemi più equi, dove i risultati sono meno legati all’origine sociale degli allievi, i genitori delle classi privilegiate siano poco motivati a cercare una scuola “esclusiva”. Ciò che comunque appare nettamente dall’analisi dei risultati PISA è che la segregazione sociale provoca in ogni caso un abbassamento generalizzato delle performance degli allievi.

A questo punto passiamo a combinare i dati sociologici con quelli pedagogici per trarre qualche conclusione relativa all’equità dei sistemi scolastici.

L’equità a scuola

Un sistema scolastico può essere definito equo quanto più i risultati scolastici degli allievi sono indipendenti dalla loro origine sociale. Sempre secondo il già citato studio dell’Aped (vedi nota 5), l’equità viene calcolata combinando i risultati dei test PISA nelle tre discipline testate: matematica, lingua madre, scienze. In base a tale ricerca, i sistemi scolastici più “equi” vale a dire dove le performance sono meno legate all’origine sociale sono quelli di Islanda e Norvegia, mentre i risultati peggiori sono quelli del Belgio6, della Francia, del Lussemburgo e dell’Ungheria. In questa speciale graduatoria, l’Italia si colloca nella fascia medio-positiva, tuttavia, come abbiamo avuto modo di notare, la situazione del nostro paese è in rapido peggioramento quanto al fattore segregazione sociale ed etnica, che è una delle cause più forti di non equità.

E’ noto che il sistema scolastico italiano è stato a lungo, a livello di principi pedagogici relativi all’inclusione, uno dei migliori d’Europa, come testimonia per esempio la legislazione sull’integrazione degli allievi disabili, che in diversi paesi europei vengono ancora avviati a classi, se non a scuole, differenziate. Anche a proposito dell’integrazione degli allievi stranieri l’Italia ha avuto, in una fase iniziale, un orientamento democratico e inclusivo, che tuttavia è andato progressivamente spegnendosi in relazione al mutamento del clima politico e delle nuove norme sempre più aziendaliste degli ultimi anni. Inoltre, il sistema italiano ha assunto negli ultimi anni alcuni orientamenti che corrispondono ad altrettanti fattori di disuguaglianza: la libertà di scelta dei genitori, la polarizzazione tra scuole pubbliche in concorrenza aziendalistica tra di loro e con le scuole private e, non da ultimo, la libertà delle scuole di scegliere i propri allievi sulla base dei risultati scolastici. Questo ultimo aspetto non riguarda la scuola primaria e secondaria di primo grado, che è il centro del mio contributo, ma il passaggio tra questa e le scuole superiori.

Tuttavia, si tratta di una questione di rilievo, poiché se si considera che in Italia l’obbligo scolastico è posto, secondo la legge 296/2006, a 16 anni, appare quanto meno incoerente che numerosi licei selezionino i propri studenti in base ai risultati d’uscita dalla scuola media. Si tratta di una posizione evidentemente classista ed elitaria, che tuttavia ha la sua origine in una lacuna del sistema scolastico che deve essere riformata. La scuola media unica, grande riforma democratica ottenuta nel 1963, rispose all’esigenza di dare una formazione omogenea ed egualitaria ai giovani italiani all’interno di un contesto in cui l’obbligo era fissato ai 14 anni.

Oggi, che l’obbligo scolastico è fissato a 16 anni, è necessario che si istituisca una prosecuzione degli studi secondari comune per tutti sino a quell’età, rompendo la dinamica classista che impone ai giovani una scelta tra licei, istituti tecnici e professionali già a 14 anni. In pratica, se la scuola media garantiva l’assolvimento di un obbligo scolastico omogeneo sino ai 14 anni, si deve ora aggiungere un biennio unico che accompagni gli allievi sino al compimento dell’obbligo a 16 anni. Non è un caso, tra l’altro, che sia statisticamente dimostrato che un percorso scolastico comune meglio si associa a una eguaglianza degli apprendimenti rispetto alla divisione degli studenti in indirizzi separati e gerarchizzati.

Tuttavia, anche la riforma, necessaria, dell’obbligo scolastico con la creazione di un tronco comune sino ai 16 anni, deve fare necessariamente i conti con le situazioni di segregazione sociale ed etnica che ho gia preso in esame, poiché esse possono inficiare qualunque provvedimento che vada in favore di una maggiore equità. Per questa ragione, mi chiedo se non sarebbe il caso di reintrodurre nel sistema scolastico italiano l’obbligatorietà dell’iscrizione all’interno del bacino d’utenza dove si risiede, e questo per tutta la durata dell’obbligo esteso sino ai 16 anni con un biennio superiore unico con programmi d’insegnamento comuni. Sarebbe un provvedimento che in tempi di sfrenato liberismo ed individualismo potrebbe essere accusato di autoritarismo, ma che alla fine migliorerebbe senz’altro l’equità del nostro sistema scolastico oggi tanto in discussione.

1 Carolina Pacchi, Costanzo Ranci (ed.): White flight a Milano. La segregazione sociale ed etnica nelle scuole dell’obbligo, Milano, Angeli, 2017

2 Op. cit. pag. 13.

Choukri Ben Ayed, Sylvain Broccolichi, Brigitte Monfroy: “Quels impacts de l’assouplissement de la carte scolaire sur la ségrègation sociale au collège”, Ėducation formations, n.83, giugno 2013, pag. 39-57.

4 Il Programma PISA (Programme for International Student Assessment,) è un’ indagine internazionale promossa dall’OCSE nata con lo scopo di valutare (meglio sarebbe dire misurare) con periodicità triennale il livello di dei ragazzi in uscita dalla scuola dell’obbligo dei principali paesi industrializzati. Il programma misura le competenze in lingua madre, matematica e scienze.

5  I dati che utilizzo nei prossimi paragrafi sono tratti da un’inchiesta condotta dall’APED-Appel pour une école democratique (Belgio) e pubblicati nel numero 70, giugno 2017 de l’ècole democratique, in un dossier curato da Nico Hirtt.

6 In realtà il Belgio viene testato per i due sistemi, quello vallone e quello fiammingo, i cui risultati sono leggermente migliori del sistema francofono, ma la combinazione dei dati su scala nazionale dà comunque un risultato assai negativo.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *