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La saga del regionalismo conflittuale: A Never Ending Story?

Un interrogativo tra i tanti sollevati dalla pandemia.

Se la capacità di assorbimento di uno shock negativo da parte di un’economia dovesse essere misurata dalla sua articolazione di poteri decentrati ci sarebbe da essere ottimisti sugli effetti della crisi pandemica sull’economia italiana.

Eppure, la tesi che vorrebbe una governance contraddistinta da autonomia normativa e finanziaria dei poteri locali maggiormente in grado di assorbire sul proprio territorio shock esogeni, siano essi simmetrici o asimmetrici, dal lato della domanda o da quello dell’offerta, sembra essere sconfessata proprio dal caso italiano.

A partire dagli anni Settanta, infatti, i mutamenti istituzionali in chiave “regionalista” sono stati progressivi (pur nelle discontinuità sempre rintracciabili nel lungo periodo) e, in parallelo, sono anche diminuite le nostre capacità di risposta agli shock globali.

È solo una coincidenza o qualcosa di più?

Se tre indizi fanno una prova, che dire di cinque?

Dalla crisi petrolifera all’ultima grande crisi, passando attraverso gli effetti più graduali dell’incessante integrazione dei mercati, gli shock globali e i cambiamenti strutturali che ne sono seguiti sono stati i nostri peggiori nemici. Ne hanno risentito, fino a scomparire progressivamente dalle statistiche, i due “figli gemelli” del boom economico italiano: la crescita nazionale e il riequilibrio tra Nord e Sud del paese.

C’è stata una costante nel groviglio di eventi susseguitisi nell’ultimo cinquantennio: la politica economica italiana ha attraversato le grandi transizioni scegliendo sempre “più regionalismo”. Così facendo, è questa l’ipotesi che avanziamo, lo Stato centrale ha assecondato i crescenti conflitti territoriali tra Nord e Sud, smarrendo la sua capacità di far leva sulle loro complementarietà per far crescere “insieme” i due sistemi.

Più che favorire il passaggio ad un maturo sistema federale cooperativo, utile al Sud e al Nord, i conflitti territoriali hanno alimentato un regionalismo disordinato e dannoso. 

In sintesi, gli indizi che rintracciamo a sostegno di questa ipotesi nella storia passata sono cinque.

La progressiva disarticolazione del presidio centrale della nostra politica nazionale inizia con l’istituzione delle Regioni negli anni Settanta segnati dalla crisi petrolifera. Anziché ripensare al ruolo del Sud che non può più contribuire alla crescita nazionale con la sua industria pesante ormai in crisi, la politica nazionale lascia spazio alle pulsioni dello sviluppo endogeno delle economie locali, tutte uguali, tutte pronte al decollo su base distrettuale. Tutto bene per la cosiddetta “terza Italia” finché durano le svalutazioni competitive.

Nel frattempo, la delega delle responsabilità di spesa dallo Stato centrale alle amministrazioni regionali gonfia il debito pubblico e peggiora la “qualità” delle politiche (Giannola, Petraglia, Scalera, 2016).

Con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht, arriva il secondo break. Le severe politiche implicite nei criteri di convergenza nominale alla moneta unica è sincrono alla fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e all’inizio dell’intervento ordinario per le aree depresse. Cresce il localismo delle politiche regionali con il favore dell’ “Europa delle regioni”.

La crisi dei partiti nazionali della Prima Repubblica è il perfetto alleato dell’affermazione del regionalismo all’italiana, inattuale e inadeguato rispetto a quanto avviene in Germania, uno Stato federale attento a preservare un coordinamento centrale della politica economica nazionale.

Da noi, invece, la coperta corta degli avanzi primari fa crescere la tensione tra Nord e Sud e la questione settentrionale prende il posto di quella meridionale, affossata, è sempre utile ricordarlo, dalla colpevole collusione tra governi nazionali che disinvestono dal Sud e amministratori locali interessati più alle clientele che allo sviluppo. 

Il nuovo secolo porta con sé i cambiamenti epocali della globalizzazione e della trasformazione dell’ICT con tutto ciò che ne consegue in termini di opportunità di crescita per le economie nazionali, e di nuove responsabilità per le politiche pubbliche.

L’Italia risponde con il terzo cambiamento istituzionale, il più radicale: la Riforma del Titolo V della Costituzione che ribalta completamente il rapporto di forza tra Stato centrale e Regioni a favore di queste ultime. Più un’ulteriore concessione alle richieste di autonomia delle aree forti del paese – che iniziano a cavalcare il mantra dei residui fiscali – che un passo in avanti verso il federalismo cooperativo necessario nel paese “troppo lungo”.

Stanno lì a dimostrarlo il lascito di conflitti tra Stato e Regioni e, soprattutto, i tre pilastri fondamentali del nuovo Titolo V restati inattuati: la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di competenza esclusiva dello Stato (art. 117), la perequazione e la solidarietà territoriale (art. 119).

La crisi finanziaria internazionale del 2007-2008 costituisce lo sfondo alla quarta puntata della nostra sfortunata saga: la legge delega n. 42 del 2009 di attuazione del nuovo art. 119 della Costituzione rimasta nel migliore dei casi (si fa per dire) inattuata e, nel peggiore, attuata in maniera perversa.

La saga del regionalismo conflittuale si completa con le turbolente vicende della “battaglia” per l’autonomia differenziata, quando la nuova ondata di “regionalismo” prende la forma della rivendicazione di risorse aggiuntive per le regioni più forti al fine di sanare una presunta ingiustizia fiscale in nome di una (mai dimostrata) superiorità organizzativa e allocativa sullo Stato centrale.

Un progetto fallito, un tentativo di una fuga in avanti rispetto al modello di federalismo cooperativo avviato con la legge 42 del 2009 (SVIMEZ, 2019a; SVIMEZ, 2019b; DAGL, 2019; UPB, 2019). Con l’effetto collaterale di inasprire la conflittualità territoriale che ancora oggi trova esempi di rivendicazionismo preconcetto anche al Sud, non ultimo quello di taluni presidenti di regione.

Tornare alle basi per evitare gli errori del passato.

Non che la storia consenta rapporti meccanicistici di causa ed effetto tra accadimenti e tendenze politiche di medio periodo; ma come declassare a mere coincidenze una concatenazione di  “fatti stilizzati” così reiterati?

Ripetiamo: si potrà eccepire sul “post hoc ergo propter hoc” che evochiamo; è tuttavia indubbio che la strada verso il regionalismo in Italia, lungi dal costituire un elemento di tutela dalle avversità, ha finito per accompagnarsi all’indebolimento del sistema economico nazionale e all’aumento delle disuguaglianze territoriali. E tutto ciò pare dovuto ad un peccato originale che ha segnato i movimenti tesi a dotare le regioni di maggiore autonomia e dotazione finanziaria.

Il modello teorico che sta alla base del federalismo cooperativo così come inteso in letteratura (e preso a riferimento sulla carta dalla legge delega n. 42 del 2009) prevedrebbe cooperazione, perequazione e solidarietà territoriale.

La cooperazione implicherebbe il coinvolgimento delle realtà territoriali su base paritaria e una distinzione chiara tra competenze centrali e competenze regionali; perequazione vorrebbe dire livellare le condizioni di partenza tra le realtà regionali; solidarietà rimanda ad una ripartizione delle risorse fondata sul principio di sostegno, ciclico o strutturale, verso le realtà più svantaggiate.

In Italia nulla di tutto questo si è tradotto in pratica. La matrice storica del regionalismo nostrano denuncia, sin dal suo germogliare politico negli anni Ottanta, istanze conflittuali e non cooperative, di contrapposizione.

A voler essere chiari: il regionalismo all’italiana si è mosso, e qui a nostro avviso il suo peccato originale, per determinare una frattura tra le strutture economiche del Nord e del Sud dell’Italia e per esaltarne le specificità produttive a discapito della interconnessione.

Si poteva aderire o dissentire dalla questione meridionale così come interpretata da Fortunato, da Salvemini o da Nitti; si poteva eccepire sulla visione dello Stato Imprenditore di Pasquale Saraceno, si poteva criticare la Cassa per il Mezzogiorno o le imprese a Partecipazioni Statali, sta di fatto che fino agli anni Settanta la performance strutturale dell’economia italiana è pensata come quella di un unico sistema produttivo, duale o dualistico, ma unico.

Il regionalismo italiano spezza questa unitarietà: i destini delle due macroregioni sono disgiunti; la questione diviene quella settentrionale, ovvero delle risorse che vanno destinate o mantenute in loco per permettere alle poche regioni competitive del paese di reggere la concorrenza internazionale.

E, da queste premesse, veniamo a quel che più interessa oggi. Se ogni shock è foriero di una nuova stagione, quali saranno i possibili andamenti futuri della saga? Sarà il caso di avviare fin da subito un chiarimento definitivo.

Innanzitutto concordando sulla superiorità dello Stato centrale rispetto alle Regioni in due delle tre fondamentali funzioni del settore pubblico in economia: la funzione di stabilizzazione per sostenere la crescita a breve e lungo periodo e la funzione distributiva a salvaguardia dell’equità nella distribuzione dei redditi (Musgrave, 1980; 1990).

Quale che sia la fonte statistica utilizzata, l’Italia registrerà, nel 2020, la più elevata contrazione del PIL dal secondo dopoguerra. Una nuova profonda recessione più feroce dell’ultima grande crisi, prima ancora di superarne le conseguenze che hanno riguardato anche l’ampliarsi delle disuguaglianze.

Sarebbe davvero diabolico perseverare con proposte di regionalismo caratterizzate da esplicite o implicite intromissioni nelle funzioni di stabilizzazione e di distribuzione. Il dibattito sul decentramento sia confinato alla sola funzione allocativa, quella relativa alla fornitura dei servizi pubblici, senza opposizioni preconcette di natura efficientista o neoborbonica[2].

E attenzione all’elevato contenuto redistributivo della funzione allocativa quando esercitata in alcune materie, come la sanità e l’ambiente, ad elevato rischio di “spillover” tra diverse giurisdizioni regionali.

Riferimenti bibliografici

DAGL – Dipartimento degli Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri (2019), Appunto per il Presidente del Consiglio (Oggetto: Applicazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – Schemi di intesa sulle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), 19 giugno 2019.

Giannola A., Petraglia C., Scalera D. (2016), Net fiscal flows and interregional redistribution in Italy: a long run perspective (1951-2010),  Structural Change and Economic Dynamics, 39, 2016: 1-16.

Musgrave R.A. (1980), Theories of fiscal crises: an essay in fiscal sociology, in Aaaron H., Boskin M. (a cura di), The economics of taxation, The Brooking Institution, Washington DC.

Musgrave, R.A. (1990), Horizontal Equity, Once More. National Tax Journal, 43, 113- 122.

Oates, W. E. (1968) in The theory of public finance in a federal system. The Canadian Journal of Economics/Revue canadienne d’Economique, 1(1), 37-54.

SVIMEZ (2019a), Nota tecnica sull’attuazione dell’autonomia differenziata a cura della Commissione SVIMEZ sul federalismo fiscale, 10 aprile 2019.

SVIMEZ (2019b), Audizione presso la Commissione (VI) Finanze della Camera dei deputati, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sui sistemi tributari delle regioni e degli enti territoriali nella prospettiva dell’attuazione del federalismo fiscale e dell’autonomia differenziata. Roma, 10 dicembre 2019.

Ufficio Parlamentare di Bilancio – UPB (2019), Audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019.


[1] La natura divulgativa del contributo non ci esime dal ringraziare Amedeo Di Maio, Salvatore Ercolano e Giuseppe Gaeta per la complicità nello stabilire legami tra fenomeni apparentemente non correlati.

[2] Gli stessi teorici classici del “federalismo fiscale” ricordano esplicitamente che la sua ragione economica può esistere limitatamente, e soggetta a diversi vincoli, alla funzione allocativa. “The economic case for federalism is found in the Allocation Branch” si legge in Oates (1968).

* da Economia e Politica

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