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Un nuovo cappio al collo per le classi subalterne dell’Unione Europea

L’accordo siglato dai 27 leader dell’Unione Europea poco dopo le 5 della mattina di martedì 21 luglio è un rilancio “a tutto tondo” del progetto di integrazione europea a guida franco-tedesca.

Parla apertamente di “rivincita dell’Europa” l’editoriale del quotidiano francese “Le Monde”, “reso possibile dal riavvicinamento avvenuto il 18 maggio, tra Angela Merkel e Emmanuel Macron”.

Come costantemente è accaduto nella sua storia questo polo politico-economico in costruzione ha saputo sfruttare una crisi – in questo caso la pandemia e le sue conseguenze economiche – come una opportunità per un salto di qualità i cui i bisogni dei propri cittadini sono tanto centrali nella narrazione sulla bontà dell’accordo propinata dai media, quanto marginali rispetto alla realtà dei fatti.

È “l’accordo economico più importante dalla creazione dell’Euro” ha dichiarato Paolo Gentiloni, in perfetta sintonia con tutti i leader “europeisti”.

La posta in gioco in questo caso era continuare ad essere un attore di peso nella competizione internazionale in un contesto in cui aumentano le frizioni con i propri competitor – USA e Cina in primis – per poter proiettare i propri interessi dal Nord-Africa al Medio-Oriente passando per i Balcani.

Su una serie di “dossier” infatti gli Stati dell’Unione Europea sono ai ferri corti con gli Stati Uniti – il gasdotto Nord-Stream 2, lo sviluppo del 5G e la riconfigurazione di Balcani attraverso le trattative Serbia-Kossovo – e devono tamponare il sempre maggiore protagonismo della relazione strategica russo-cinese in Africa ed in Medio-Oriente, terreno principale della politica neo-coloniale dell’Unione.

Duecento mila morti ed una recessione che non si vedeva dalla Seconda Guerra Mondiale e nessun chiaro di luna di all’orizzonte potevano minare le basi per l’affermazione degli ambiziosi progetti delle oligarchie europee, ma la riconfigurazione che si intravede nel “Next Generation UE” fuga ogni dubbio rispetto ad un profilo di una Unione con più prerogative economiche ed una gerarchia tra Stati saldamente riconsolidata.

Inoltre, una maggiormente autonomia nella produzione di energia – il vero senso di ogni “new green deal” continentale – ed una più marcata indipendenza nello sviluppo delle tecnologie digitali funzionali alla cosiddetta “Industria 4.0”, sono gli assi dei criteri valutativi per gli investimenti a venire finanziati dalla UE: il rilancio in prospettiva della UE si fa dentro la competizione e per la competizione delle aziende europee e non per i bisogni dei cittadini.

Di fronte a questo il “doppio compromesso” da un lato verso i Paesi “frugali” con in testa l’Olanda ed alcuni Paesi dell’Est (Polonia ed Ungheria) è un lieve pegno da pagare per Germania e Francia che senza la cornice dell’Unione non potrebbero giocare un ruolo nel consorzio internazionale, facile da scaricare sui Paesi Mediterranei.

Che a farne le spese siano i fondi per la PAC – cioè la Politica Agricola Comune –, la transizione biologica dell’agricoltura e i progetti di ricerca come Horizon, sono effetti collaterali dei tagli del budget pluri-annuale che vuole essere vettore di sviluppo di alcuni progetti “core” e lasciare indietro tutto il resto, tamponando in parte gli effetti sanitari e sociali, ma mettendo sempre al centro il tessuto delle imprese.

Il 70% dei soldi che verranno sborsati tra il 2021 e 2022 secondo il quotidiano iberico “El País” andranno a queste tre emergenze: politiche del lavoro, sanità e naturalmente imprese.

Il dispositivo inedito” approntato è l’indebitamento diretto sul mercato da parte della Commissione – qualcosa di diverso dalla “mutualizzazione del debito” – per un valore di 750 miliardi, senza che sia ancora chiaro nei dettagli quali saranno la modalità di restituzione: 360 miliardi di prestiti e 390 di sovvenzioni – non a fondo perduto – quest’ultime a partire dal 2021 al 2023.

Il bilancio comunitario sarà di 1.074 mila euro per il periodo che va dal 2021 al 2027.

I soldi sembra verranno ripartiti secondo elementi strutturali e a seconda dell’ampiezza della crisi per ciascun Paese: Italia e Spagna dovrebbero essere i primi “beneficiari” in ordine di grandezza, ma il pegno da pagare è un programma di riforme strutturali ed investimenti fino al 2023 che dovrà avere il placet della Commissione a “maggioranza qualificata”, dopo il vaglio del Comitato Economico e Finanziario, cioè i tecnici dei Ministeri dell’Economia dei 27.

Non ci sarà alcun veto nell’esborso, ma una vigilanza costante che avrà questo iter. In caso uno o più Paesi abbiano delle “rimostranze” la palla passa al Consiglio Europeo – composto dai Capi di Stato e dai capi di governo – che avrà tre mesi per esprimersi.

Di fatto tutto il meccanismo approntato è una sorta di “commissariamento”, senza che il processo decisionale venga bloccato da veti incrociati e dove le linee realisticamente guida verranno decise a Berlino ed a Parigi praticamente per essere ratificate a Bruxelles.

Un modus operandi “temporaneo” che potrebbe anche non essere transitorio ma strutturale e non vincolato solo al periodo citato.

Sarà allo studio una capacità impositiva autonoma della UE, attraverso probabilmente due “balzelli”: una specie di tassa carbone e l’altra legata allo sviluppo digitale, un deciso passo in avanti che aggira la capacità impositiva dei singoli esecutivi nazionali – e la loro sovranità – e pone le basi per un budget autonomo svincolato dalle singoli contributi dei differenti Paesi.

Per ottenere questo il prezzo da pagare al “capo” dei Paesi “frugali” (Olanda, Austria, Svezia a cui si è unita la Finlandia) come l’Olanda è stato uno sconto sui contributi da pagare ogni anno alla UE.

In generale hanno condizionato le scelte di fondo rivedendo l’ammontare totale del “Recovery Fund” e la proporzione tra sovvenzioni e prestiti che di fatto si equivalgono, imponendo criteri stringenti per la loro erogazione, o come ha scritto chiaramente il Sole 24 Ore nel suo commento a caldo, costringendo i Paesi destinatari ad “accettare forme più intrusive nella gestione del denaro”.

Uno strano giro di parole, per non dire “commissariamento”. Lo svuotamento della sovranità si coniugherà con l’impoverimento della spesa pubblica e la svendita ulteriore del suo patrimonio: cosa sono state le “riforme strutturali” di cui ha parlato Conte nel suo discorso se non questo?

La redistribuzione di questi soldi deve immediatamente divenire un “campo di battaglia” nel nostro Paese, a cui deve affiancarsi una prospettiva politica di uscita dalla gabbia della UE.

L’Unione Europea è tesa a penalizzare sempre più pesantemente i paesi “periferici” e le loro classi subalterne ed ad ipotecare il nostro futuro all’interno di un modello di sviluppo devastante dal punto di vista ambientale, sanitario e sociale come ha dimostrato la recente pandemia.

Come “Rete dei Comunisti” pensiamo che un progetto di rottura rispetto a UE e NATO, dentro l’organizzazione del conflitto sociale e di cooperazione con i popoli del Tricontinente, sia l’unica vera exit strategy a cui votare la nostra azione.

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