Introduzione
I persistenti venti di guerra nell’est dell’Ucraina, così come il nuovo diretto coinvolgimento americano e francese nello scenario mediorientale, ha spinto molti ad una cauta preoccupazione (del resto le zone interessate restano a debita distanza dalle nostre abitazioni) per un’apparente involuzione dell’umanità tutta verso contingenze che venivano considerate di novecentesca memoria. Inoltre, paragoni e rimandi sono anche facilitati dal ricorrere del centesimo anniversario dallo scoppio della prima guerra mondiale. Come ci ha ricordato Paul Kennedy in un articolo uscito su Internazionale all’inizio di luglio, l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo mise in moto una sequenza di eventi destinati ad archiviare tragicamente quel lungo secolo, inaugurato dal Congresso di Vienna, di “sostanziale pace e prosperità per gran parte dell’Europa”. Proprio la trattazione più approfondita di ciò, permetterà una migliore comprensione del presente.
I limiti spaziali all’espansione territoriale ed il primo conflitto mondiale
Il principale obiettivo nell’articolo di Kennedy è comprendere quali siano stati i maggiori responsabili della prima carneficina mondiale del Novecento. La risposta fornita dallo studioso è estremamente chiara: la Germania e le sue difficilmente contestabili mire espansionistiche. Dal nostro punto di vista però, l’articolo contiene un grave errore metodologico: ovvero la trasfigurazione di un epifenomeno (il protagonismo militare tedesco) nella principale variabile indipendente della relazione causale proposta, riassumibile nella semplificata formula il militarismo tedesco ha prodotto la prima guerra mondiale. Inoltre, l’autore del ben noto, almeno per gli studenti di relazioni internazionali, Ascesa e declino delle grandi potenze, omette un particolare di assoluta importanza: nel secolo da lui identificato come pacifico e prospero, la Gran Bretagna, la potenza egemone attorno alla quale si strutturò l’equilibrio interstatale in Europa, condusse tra Asia ed Africa ben settantadue campagne militari. In tal senso, la domanda corretta da sollevare non riguarderebbe più, come invece fa Kennedy, le ragioni che portarono allo scoppio di una guerra che interrompeva un lunghissimo periodo “pacifico”. Al contrario, ci dovremmo interrogare sul perché l’Europa improvvisamente reimportò ciò che sembrava aver delocalizzato: il conflitto armato. La risposta va cercata, da un lato, nel differente tasso di sviluppo economico delle potenze capitaliste, e quindi nella cronica instabilità del sistema internazionale; mentre dall’altro risiede nell’improvvisa finitezza territoriale che il mondo conobbe alla fine dell’Ottocento. Secondo il ragionamento che Lenin propone ne L’imperialismo fase suprema del capitalismo, la tendenziale caduta del saggio di profitto spingerebbe le economie capitaliste all’espansione coloniale e ad un comportamento di stampo imperialista. Inoltre, in ogni momento la distribuzione delle colonie tra gli stati capitalisti sarebbe strettamente dipendente dal loro grado di sviluppo e forza. Questo, collegato proprio alla già ricordata differente velocità di accumulazione di capitale nei vari stati, spinge le forze emergenti ad esigere un ruolo primario nella spartizione delle terre ancora vergini, oppure a reclamare una nuova ripartizione di quelle esistenti. Quando poi a fine Ottocento, tutte, o quasi, le caselle libere sul mappamondo erano state occupate e la principale potenza emergente in Europa, la Germania, non aveva sostanziali possibilità di ottenere una redistribuzione territoriale a suo favore attraverso limitate guerre coloniali, per il semplice fatto che i tedeschi non possedevano numerose teste di ponte oltre i confini nazionali, la guerra tornò, logicamente, nel cuore d’Europa.
Detto altrimenti, il dinamismo militare tedesco negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, non deve essere interpretato, come fa Paul Kennedy, alla stregua di un quasi-folle tentativo di affermazione mondiale da parte di Berlino. Al contrario, rappresentava il concreto sforzo tedesco di sfidare un ordine mondiale centrato su un’egemonia, quella britannica, che non aveva più nessuna ragione di perpetrarsi. Questa infatti, caratterizzatesi per la concentrazione in Gran Bretagna della massima competitività produttiva, commerciale, e militare per un lungo periodo, aveva subito una prima seria battuta d’arresto durante la grande depressione del 1873-1896, quando due nuovi poteri concorrenti cominciarono ad affacciarsi sulla scena mondiale: gli Stati Uniti e la Germania. Il principale limite del modello di sviluppo britannico era determinato, secondo la ricostruzione fornita da Giovanni Arrighi e Beverly Silver in Caos e governo del mondo, da quella specifica organizzazione del modo di produzione che ne aveva decretato il successo globale solo alcuni decenni prima: l’impresa familiare. Questa mostrava infatti la propria crescente incapacità a competere sulla scena mondiale di fronte all’iper-integrazione verticale dell’impresa capitalista statunitense e alla doppia integrazione (verticale ed orizzontale) di quella tedesca. La minore capacità del capitalismo britannico di fare profitti determinò così un poderoso processo di finanziarizzazione che al contempo si esplicitò in una maggiore polarizzazione sociale ed in un crescente protagonismo operaio, finendo per indebolire il patto sociale che aveva caratterizzato l’interclassismo del modello britannico. Il militarismo tedesco, in conclusione, ratificò semplicemente ciò che i rapporti di forza tra le potenze imperialiste avevano già decretato: il dominio britannico doveva giungere a conclusione. E così fu, anche se la potenza imperialista uscita vincitrice dai due conflitti mondiali non fu la Germania, bensì gli Stati Uniti.
Come vedremo nel dettaglio, le tre tendenze qui richiamate (differente tasso di accumulazione capitalista dei vari stati; cronica instabilità del sistema internazionale; ed intrinsecità del conflitto di classe nel sistema capitalista) torneranno di estrema utilità per comprendere il presente.
Africa e Medio Oriente
Molti commentatori e noti studiosi hanno proposto ragionamenti che strizzano l’occhio, più o meno apertamente, a quella teorizzazione sullo scontro di civiltà che Samuel Huntington avanzò per la prima volta ad inizio anni novanta. La verità è però un’altra. Ci troviamo infatti, proprio come nei primi anni del Novecento, nella fase acuta di una significativa transizione egemonica, il cui esito rimane largamente incerto e difficile da predire. Questo, in particolare, ci sembra il portato della crescente biforcazione tra la persistente supremazia militare americana ed il recente primato ottenuto dalla Cina nel comparto produttivo. Per questo non può sorprendere come all’espansionismo economico cinese (art. Int su Africa) si contrapponga un ritrovato protagonismo militare americano, desideroso di proteggere con la forza i propri diretti interessi prima che sia troppo tardi. Una prima faglia di collisione tra i due imperialismi in questione è certamente rappresentata dall’Africa. Se quella messa in campo dalle esigenze del capitale “cinese” è una penetrazione “soft”, fatta di borse di studio per la formazione della classe dirigente africana, di faraonici finanziamenti in opere infrastrutturali ed esportazione di migliaia di lavoratori nel continente, questo modello è sfidato dal più classico imperialismo a stelle e strisce, caratterizzato da forte presenza militare e saccheggi di risorse più visibili. Quest’ultimo tende ad essere particolarmente rilevante nell’Africa sub-sahariana, dove nei prossimi mesi, con la scusa di coordinare l’intera operazione internazionale anti-Ebola, giungerà anche un nuovo centro di comando militare (qui, per un approfondimento). La nostra previsione per il prossimo futuro è quindi di una crescente instabilità nella regione, che potrebbe sfociare in numerosi eventi bellici di portata limitata, sull’esempio di quanto successo in Mali qualche anno fa. Questo sembra l’esito più probabile data sia la centralità che l’Africa è venuta rivestendo per entrambe le potenze imperialiste, sia il persistente gap militare che le separa, e che quindi rende meno probabile (ma non impossibile) un conflitto globale.
Un secondo teatro di diretto confronto tra Cina e Stati Uniti è rappresentato dal Medioriente. Qui la situazione è ulteriormente complicata dalla presenza di attori regionali di ragguardevole rilevanza (dal Qatar all’Arabia Saudita, senza scordarsi di Israele e dell’Iran) e dai diretti interessi che altre tre potenze emergenti detengono nell’area: Russia, Turchia, ed India. Il fenomeno dello stato islamico di Siria ed Iraq ha catalizzato, ultimamente, molta attenzione mediatica sull’area. Tanto è stato scritto al riguardo, tralasciando però spesso quello che a noi sembra un punto centrale: la vacuità della principale dicotomia (sunnismo/sciismo) con la quale i media tradizionali inquadrano l’instabilità mediorientale.
La minoranza sciita rappresenta il 10% dell’intero mondo islamico. Tuttavia, grazie ad una distribuzione non omogenea sul territorio, gli sciiti sono maggioranza in Iran, Iraq e Bahrain. Soprattutto però, sono al potere in Iran (dopo il 1979), in Iraq (dopo l’invasione militare americana del 2003) e, con uno sforzo immaginativo che faccia rientrare gli alauiti all’interno della galassia sciita, in Siria. Tradizionalmente, la cosiddetta mezza luna sciita, formata da Iran, Siria e sud del Libano (sotto il controllo effettivo del partito di Dio, Hezbollah) è stata rappresentata come antagonista al blocco delle petromonarchie capeggiato dall’Arabia Saudita e di natura sunnita. Tale rappresentazione è però fuorviante e sconfessata dalla politica estera di questi stati. Ciò che vogliamo mostrare è come la conclamata avversione tra le due principali anime del mondo islamico sia strumentale alla difesa e al perseguimento di altri obiettivi, tendenza largamente dimostrata dall’assenza di unitarietà degli stati sunniti in materia di politica estera. L’evento più eclatante al riguardo rimane la decisione presa nello scorso marzo da Arabia Saudita, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti di ritirare i propri ambasciatori da Doha, creando una profonda divisione nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Le ragioni di tale spaccatura riguardano quanto successo in Egitto e Siria. Infatti, mentre i qatariani hanno con forza sostenuto i Fratelli Musulmani (forza sunnita) in Egitto, i sauditi hanno spalleggiato il colpo di stato orchestrato dai militari; mentre i primi hanno alimentato e lautamente foraggiato l’opposizione siriana al regime di Assad, i secondi hanno, almeno inizialmente, mantenuto un profilo molto basso temendo un possibile effetto contagio anche interno delle cosiddette Primavere Arabe. Ancora più evidente è però quello che in queste settimane sta accadendo in Libia, dove in uno stato di caos totale due schieramenti principali si contendono il potere. Da un lato le forze golpiste di Khalifa Haftar, uomo della Cia sul campo, sostenuto da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi; dall’altro l’organizzazione islamista di Omar al-Hassi spalleggiata dal Qatar.
Appunti finali
Cosa possiamo concludere? Semplicemente che in Medioriente, così come in Ucraina, quelle che possono presentarsi come tensioni etniche o religiose, sono sempre mosse da precisi interessi economici delle potenze in campo. Lo sforzo da fare sta nel non cedere alle facili retoriche dello “scontro tra culture e civiltà diverse”, ma nel ricondurre il tutto alla concretezza dello scontro fra interessi contrapposti. Interessi che, attenzione, possono anche conciliarsi momentaneamente (come nel caso della guerra in Ucraina) per poi tornare a scontrarsi di nuovo. I padroni fanno sempre così, è la loro natura: non sono uniti, ma riescono ad essere unitari (e quindi a scatenare guerre, rompere alleanze per formarne di nuove e spartirsi il mondo) pur portando avanti la propria lotta di classe nei confronti di chi, come noi, se non si organizza autonomamente rimarrà sempre schiacciato.
Per non farsi stritolare, dunque, bisogna andare ancora oltre nel ragionamento e contrattaccare: lo scontro non è tra le civiltà ma nella “civiltà capitalistica”, ormai sempre più simile alla barbarie, sempre più inumana a prescindere dall’area geografica terrestre. E’ questa constatazione che permette di sentirsi parte di un’umanità globale, internazionale, accomunata dagli stessi problemi legati alla priorità che l’economia assume nel nostro tempo; è questo che ci impone la necessità di un’unione globale, dell’internazionalismo e della solidarietà fra persone che si vedono saccheggiare il proprio tempo di vita in funzione del profitto. Sono questi fattori, che non dobbiamo mai scordarci, quelli che ci possono tenere alla larga dalle retoriche nazionaliste messe in campo dalle potenze, egemoni o meno: queste, come abbiamo detto si scontrano, ma si accordano, si organizzano, hanno dei piani. E difendono sempre il loro interesse come classe, unita o meno. Noi non dobbiamo commettere l’errore fatale, come la storia ci ricorda, di legittimarne l’operato o schierarci in uno dei vari campi, perché non stanno agendo a caso, lo fanno per sviare l’attenzione dai sempre maggiori conflitti interni a loro stessi. Lo fanno per ricompattare le fila e avere nuova carne da cannone.
In ogni parte del mondo, da sempre, ci sono conflitti dovuti alla ribellione contro lo stato di cose presente, solo che oggi lo possiamo vedere in diretta, e per la prima volta percepiamo (anche se ancora non comprendiamo affondo) che la vita attuale non potrà essere così in futuro. Ci rendiamo conto che non può funzionare, come esseri umani che vivono sul pianeta terra. E allora vediamo che addirittura dagli Stati Uniti, dal ventre della balena, lo scorso maggio è partito il primo sciopero mondiale della storia indetto dai lavoratori dei fast food contro i salari da fame; che nella grande e lontana Cina nell’ultimo anno e mezzo è stato registrato il record assoluto, nella storia del paese, di scioperi dei lavoratori, i quali hanno imposto forti aumenti salariali. Anche nella vecchia Europa da qualche anno sembra che le cose non saranno più le stesse e si assiste, in forme diverse dovute anche alla storia del continente, a continue manifestazioni di insofferenza rispetto alle condizioni di vita. Potremmo continuare all’infinito con gli esempi, ormai quello che fino a pochi anni fa sembrava impensabile è diventato palpabile e sulla bocca di tutti: è in atto, e non da oggi, uno scontro di classe. Chi ci vuole sfruttare ha interesse nel parlare di altro, con statistiche di vario tipo, nuovi termini e spiegazioni rassicuranti, ma le cose peggiorano, le guerre continuano e la miseria cresce all’aumentare dei super ricchi. Il problema, ora che lo stesso Obama all’Onu afferma che “nel mondo si avverte un certo disagio”, è iniziare ad organizzarsi per combatterne le cause. Respingere certe “soluzioni” calate dall’alto, che abbiamo visto essere solo dei diversivi, e unirci come un network globale unitario, autonomo e deciso. Sarà durissima, magari #vinceremopoi e avremo anche noi i nostri Scilipoti: ma per certe cose, per le nostre vite e il nostro futuro, vale la pena combattere.
Letture consigliate per approfondire:
Arrighi Giovanni e Silver Beverly, Caos e governo del mondo, Mondadori, Milano-Torino, 2010 (I ed. 1999).
Hobsbawm Eric, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 2007 (I ed. 1994).
Lenin Vladimir Ilich, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Lotta Comunista, Milano, 2002 (I ed. 1956).
Wallerstein Immanuel, Il sistema mondiale dell’economia moderna (tre volumi), Il Mulino, Bologna, 1978, 1982, 1995.
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