Giovedì 13 e venerdì 14 gennaio i Ministri degli Esteri della Ue si sono incontrati a Brest.
Al centro della discussione dei Ventisette vi erano principalmente due questioni: Ucraina e Mali.
Per ciò che concerne la questione ucraina, l’UE si è trovata a giocare “di rimessa” rispetto alle discussioni che la Russia ha intavolato questa settimana a Ginevra, Bruxelles e Vienna, rispettivamente con gli USA in Svizzera, la NATO in Belgio e l’ OCSE in Austria.
Un “valzer diplomatico”, probabilmente dai magri risultati, che però ha rimesso al centro la coppia USA e Russia, nel determinare questioni che pertengono anche all’Unione Europea.
l’Unione si è di fatto trovata marginalizzata rispetto al ruolo giocato da Washington e Mosca riguardo alla discussione di una serie di aspetti molteplici, concernenti soprattutto il Vecchio Continente, ma che al centro dei quali vi è emersa con forza la preoccupazione principale russa rispetto al suo accerchiamento dovuto dall’allargamento della NATO.
Tale accerchiamento, potrebbe tra l’altro essere esteso verso Nord, con la possibile richiesta di entrata nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia – che hanno già un grado di collaborazione importante con la NATO – oltre a quella espressamente osteggiata da Mosca dell’Ucraina e della Giorgia.
Se ciò avvenisse la nuova “Cortina di Ferro” – che si era spostata molto ad Est limitando di molto la profondità strategica della Russia rispetto all’Unione Sovietica con la progressivo allargamento ad est della NATO – si estenderebbe su una ipotetica linea che va dall’Artico al Mar Nero.
Nella pletora di questioni discusse questa settimana perciò l’Unione Europea rischia di divenire il “vaso di cioccio” tra gli USA e la Russia, e deve quindi attrezzarsi in fretta per aumentare la sua coesione e realizzare in tendenza la sua auspicata “autonomia strategica”, consolidando le proprie posizione in quelli che erano i punti di forza del Paese che all’interno dell’Unione ha la più spiccata propensione ed i relativi mezzi militari per proiettare la sua politica di potenza: la Francia.
Se questo processo avrà un suo “salto di qualità” a marzo con la votazione sulla bussola strategica – che doterà tra l’altro l’Unione di un esercito comune di 5000 effettivi pronto per missioni di combattimento –, l’incontro di Brest ha certificato il fatto che Bruxelles intende parlare sempre di più con “una sola voce” per quanto concerne gli obiettivi prioritari di politica internazionale di fronte ai suoi ipotetici alleati, come gli USA, ed i suoi ormai arcigni competitor come la Russia.
E così è stato.
Se l’attenzione mediatica ha enfatizzato la questione legata ad una possibile inasprimento del rapporto con la Russia rispetto alle vicende ucraine, vorremmo mettere in luce la posizione sul Mali dove Mosca è di fatto parte in causa considerato l’arrivo di “mercenari” della Wagner in numero cospicuo, in una situazione che sembra più ricalcare per certi versi il contesto della Repubblica Democratica del Congo (RDC).
Una presenza vista come il fumo negli Occhi da tutto l’Occidente, USA compresi, che vede allargarsi la presenza e l’influenza russa nel continente africano dalla Libia al Corno d’Africa.
La valutazione sul corso politico di Bamako è stata sostanzialmente negativa da parte del capo della diplomazia europea Josep Borrel: «la direzione non va nella giusta direzione e la giunta non da alcun segnale positivo», riferendosi all’allungarsi del processo di transizione ed al rinvio dell’elezioni.
I 27 si sono messi d’accordo per dare «pieno sostegno e fare un unico fronte con la Cédéao (La Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest, ECOWAS in inglese NdC) di cui noi salutiamo ulteriormente il lavoro. Noi prepariamo delle sanzioni contro coloro che ostacolano la transizione. Noi Manteniamo le nostre attività e le nostre missioni di formazione di consulenza alle forze armate e alle forse di scurezza del Mali. Noi manteniamo la sospensione dell’appoggio economico».
Una posizione, quindi, non solo di appoggio al blocco economico che è stato imposto al Paese da parte della Cédéao il 9 gennaio -ben più dure di quelle attuate dopo il colpo di stato dell’agosto 2020 – ma un possibile moltiplicazione della pressione economica su Bamako.
Va ricordato che tale orientamento era già stato ufficializzato a metà dicembre in sede di Consiglio della UE reso pubblico con un comunicato stampa dal titolo indicativo: “Mali: l’UE istituisce un quadro autonomo di sanzioni nei confronti di coloro che ostacolano la transizione politica”.
Una decisione con cui si definiva il quadro, ma senza fare un elenco degli interessati, di una serie di misure che vanno dal divieto di viaggio, al congelamento di fondi, all’impossibilità della messa a disposizione di risorse economiche per il Paese.
Un provvedimento in linea con la repentina condanna del “colpo di stato” del 24 maggio del 2021 in cui già allora venivano paventati possibili provvedimenti.
Uno strumento di “guerra economica” che vorrebbe strozzare un Paese che in un processo tutt’altro che lineare sta cercando di fatto una seconda dipendenza.
Parigi, ha più volte invocato ed in parte realizzato una maggiore responsabilità dell’Unione nell’impegno militare che svolge in Sahel – con cui è presente attualmente attraverso una contingente superiore ai 5000 effettivi – con la sua missione “anti-terrorista”, che nel corso degli anni ha cambiato più volte nome ed ampliato il suo raggio d’azione, ed ha trovato un maggiore coinvolgimento dei Paesi del cosiddetto G5 Sahel di cui fanno parte oltre al Mali, Burkina Faso, Ciad, Mauritania e Niger.
Il coinvolgimento di altri contingenti di Paesi Europei nella missione Takuba, e ora l’annuncio di Josep Borrel che organizzerà una riunione con i ministri dei Paesi del G5 va appunto in questa direzione: l’articolazione della politica estera della UE in Africa che coinvolge i 27 in quello che era storicamente la politica neo-coloniale francese nella Françafrique.
Fatto non secondario la nostra presenza militare in Mali attraverso la missione Takuba ha raggiunto la sua piena capacità operativa, iniziata il luglio dell’anno scorso.
Ciò che sembra però ostacolare questo avanzamento del neo-colonialismo dell’UE in Africa, sono principalmente due fattori: la dimensione effettivamente multipolare delle relazioni internazionali che non può prescindere la peso giocato da Russia e Cina, e l’emergere di una forte e variegata volontà di “sganciamento” da parte di una porzione importante delle popolazioni in diversi Paesi africani, a cominciare proprio dal Mali, dal giogo delle maggiori potenze imperialiste.
Del primo fattore, ne è un ultimo esempio il pressing diplomatico di Mosca e Pechino che ha portato al fallimento dell’approvazione di una bozza di presa di posizione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in sostegno delle sanzioni votate dalla ECOWAS, una bozza proposta proprio dalla Francia e appoggiata da Kenya, Ghana e Gabon.
Sanzioni della ECOWAS a cui Parigi e Washington avevano dato il loro appoggio.
Il secondo fattore in Mali si è concretizzato con un “Colpo di Stato” dell’Agosto del 2020 che aveva destituito il presidente Ibrahim Boubacar Keita (“IBK”) contestato da mesi da un trasversale movimento di opposizione che ne chiedeva le dimissioni organizzato dal Mouvement du 5 juin et rassemblement des forces patriotiques (M5-RFP).
Da quel momento si è instaurato un rapporto piuttosto complesso tra i militari “patriottici”, che in barba all’intelligence francese hanno attuato il Putsch, defenestrando una élite politica strettamente legata agli interessi occidentali e le forze di opposizione che avevano animato l’opposizione a ”IBK”. Un regime, quello di “IBK” che aveva represso nel sangue le mobilitazioni, nella quasi totale indifferenza di coloro che ora si “strappano le vesti” per la forzata diluizione del processo di transizione, o che hanno ignorato colpi di Stato – come in Ciad – o regimi dispotici quando erano favorevoli ai propri interessi occidentali.
Una transizione complessa, quella del Mali, vista l’ingerenza dei Paesi occidentali, il permanere della minaccia jihadista che miete vittime tra i militari e i civili del Mali, e incontra le alte aspettativa di una popolazione con una porzione non indifferente tra i ranghi giovanili animati da un forte sentimento “anti-francese”.
Parigi non fa segreto di temere un proprio “Afghanistan” nel Sahel, dove i due colpi di stato in Mali ed in Guinea sembrano essere la genesi del sul “punto di caduta”, e dove prendono forza e consistenza le forze che si oppongono in altri Stati Africani alle pedine della crepuscolare Françafrique.
Come Rete dei Comunisti appoggiamo le mobilitazioni popolari in Mali e nei paesi dove è presente la diaspora e contro le ingerenze di vecchi e nuovi attori neo-coloniali. Ci uniamo alle prese di posizione e alle manifestazioni di solidarietà che si stanno sviluppando in Mali ed altrove.
Pensiamo che ciò che sta avvenendo pone con forza la questione di una alternativa politica che prefiguri una configurazione di relazioni tra popolazioni che rompa con la logica neo-colonialista che vorrebbe imporre il nascente polo imperialista europeo e comprenda – rompendo con un deleterio “eurocentrismo” – il valore del riemergere di un forte sentimento di indipendenza e la ripresa di un discorso panafricanista.
16 gennaio 2022
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