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108 giorni di guerra

E la guerra segue il suo corso.

Un corso segnato dalle armi perché, al di là della retorica e delle narrazioni “eroiche”, la guerra è uso delle armi, sempre più potenti.

E distruzione di risorse e di esseri umani.

E’ produzione di morti in larga scala.

La nazione russa prende ogni giorno nuovi pezzetti di territorio cambiandone la “proprietà” e sottoponendoli alla sua autorità legale.

Sono pezzi importanti. Ci sta il carbone, l’acciaio, il litio, la più grande centrale nucleare d’Europa, i porti da cui esportare il grano e le materie prime di cui la Russia ha abbondanza.

La nazione ucraina si riduce ogni giorno di più a una landa desolata, un deserto, senza sovrastrutture, fabbriche, case, con gli abitanti in fuga e un esercito decimato.

Alla fine quello che rimarrà potrà pure essere accolto nella UE o nella Nato, ma sarà solo un peso, un costo.

Una palla al piede dal punto di vista economico e militare.

La guerra nell’epoca del nucleare non può essere vinta da nessuno.

Può solo cambiare, precariamente, gli equilibri e i confini sulle carte geografiche.

Ed è sul costo, disposto e capace di sopportare, che ognuno dei due contendenti si misura.

Le sanzioni economiche si stanno dimostrando un flop.

La frattura nel mercato internazionale sta creando più problemi a chi le impone che a chi le subisce.

E poi sanzionare chi ti dà le materie prime e l’energia che tiene in piedi la tua economia, a me pare una minchionata.

L’Europa ha i suoi problemi ed è bastato che l’inflazione ripartisse per far saltare i meccanismi di solidarietà interna.

Altro che ristori, altro che comune impegno a affrontare la crisi prodotta dalla guerra.

Ognuno si paghi i propri debiti.

Zelensky fin dal primo giorno ha capito che l’unico modo per “vincere” è coinvolgere la Nato in un intervento diretto.

Ci ha provato in tutti i modi.

Ma quel confine ancora non è stato superato.

Molti quell’intervento lo vorrebbero.

Un po’ meno gli americani un po’ più gli inglesi a la banda di iene e sciacalli accampati a Bruxelles.

Sarebbe il vero salto di qualità che trasformerebbe una guerra “locale” nella guerra totale.

Si aprirebbero scenari difficilmente recuperabili sul piano del compromesso.

Coinvolgerebbe quella parte del mondo che, al momento, se ne sta a guardare. La Cina, l’India, l’Iran.

Diventerebbe l’occasione per l’esplosione di infiniti conflitti regionali. Ogni nazione ha un conto in sospeso col vicino, e con le nazionalità che opprime al suo interno.

Le componenti di ogni popolo si fanno la guerra per chi deve dirigere e chi deve subire.

La lotta fra le classi renderebbe precario e di difficile gestione il fronte interno di ogni paese.

Un rischio troppo alto perché a quel punto non ci sarebbero più “linee rosse” invalicabili.

Ma è quello il punto di arrivo del processo in corso.

Potrà subire delle battute di arresto, ma il coperchio è saltato è il vapore si sta spargendo in tutte le direzioni.

In quel caotico magma, fatto di infinite pulsioni non più governabili, l’unico punto fermo da cui provare a ripartire per “condensare” una linea di resistenza alla barbarie incombente è la riaffermazione di una intransigente politica classista.

“Settaria”, “dogmatica”, “infantile”.

Elementare.

Classe contro classe.

Proletariato contro borghesia.

E’ una acquisizione teorica di piccole minoranze disperse e irrilevanti, che fatica a trasformarsi in forza materiale.

Ma la ragione ci rende ottimisti.

Perché non ci sono altre strade praticabili.

E nella storia, alla fine, una strada i proletari riescono sempre a trovarla.

* da Facebook

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