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Napoli di nuovo violenta: a che punto è la notte?

Napoli e la sua area metropolitana è sempre stata una zona attraversata da una complessa fenomenologia di “violenza urbana” connessa alle multiformi caratteristiche del suo sviluppo storico, economico e sociale.

Dentro questa condizione la grande criminalità organizzata – non solo i clan della Camorra ma le poliedrice specificità criminogene tipiche di una metropoli imperialista del Sud Italia – sono sempre stati il potente fulcro attorno cui si sono riprodotti i tipici rapporti sociali connaturati all’affermazione ed alla riproduzione di tale assetto economico, culturale (ed, ovviamente, militare) fino a configurare un vero e proprio dominio/egemonia su larghe fasce di popolazione e della società.

Con tale premessa non aggiungiamo nulla di nuovo a quanto analizzato, indagato e narrato – spesso con sguardi e punti di vista dissonanti tra loro – da intellettuali, sociologi, magistrati e dalle infinite schiere di opinion maker che si avvicendano attorno a queste problematiche.

E’ utile – però – ricordare questo preambolo altrimenti, anche inconsapevolmente, non si comprende né l’allarme che si intende lanciare e né si pongono le premesse per un affrontamento corretto degli avvenimenti che si stanno, rovinosamente, manifestando quotidianamente in città.

Stiamo parlando di una intensa ondata di violenza – “grande” o “piccola” – che sta attanagliando la città da qualche mese e che mostra – a parere di chi scrive – alcuni tratti di “novità”che andrebbero prima colti e poi scandagliati adeguatamente.

Mi riferisco ad una enorme serie di atti di violenza che non sono – direttamente – le conseguenze della presenza e dell’azione dei clan della Camorra ma sono il prodotto di variegati episodi perpetrati spesso da giovanissimi di entrambi i sessi e che – ad una prima interpretazione – non trovano una “lettura logica” finalizzata ad un profitto immediato (la classica rapina) ma si manifestano e si esauriscono nella espressione di violenza cieca, cattiva, puramente esibizionistica e dall’assenza di qualsivoglia “inibizione” di tipo morale, etico o, semplicemente, logico.

Lo stesso utilizzo delle armi da fuoco sta conoscendo un bizzarro e pericoloso “sdoganamento di massa” superando quella “modalità di comportamento” non scritta – ma sancita dalla consuetudine camorristica – per cui anche la “dose di violenza impiegata” era dosata all’obiettivo e alla portata dell’azione criminale da svolgere.

Inutile ripercorre le cronache di questi mesi ma è ampiamente noto e palpabile che in tutta l’area metropolitana sono aumentate le aggressioni – ovviamente scippi e rapine – ma, soprattutto, si sta diffondendo un senso di insicurezza e di “pura paura” che, da tempo, (forse dalla fine degli anni ’80 e ’90) avevamo dimenticato ed espunto dalla nostra vita quotidiana.

Persino in zone della città – il Centro Antico e il Centro Storico – che pure sono investite da un deprecabile processo di gentrificazione/

Rispetto a questo scenario – amplificato a dismisura dai media locali, dalle scomposte chiacchiere sui Social e dai soliti apologetici della “Tolleranza Zero” rinchiusi nei loro “bunker dorati” – occorre non ignorare il problema ma interrogarsi su cosa sta maturando nella “materia sociale metropolitana” per tentare di intravedere possibili percorsi collettivi di comprensione e di positivo affrontamento di queste contraddizioni.

E’ evidente che l’area metropolitana partenopea è stata, ulteriormente, stressata dalla crisi pandemica e che i lunghi anni della deregolation dei servizi pubblici essenziali hanno profondamente marginalizzato consistenti settori della società. Ed è ancora più palese che i tagli al diritto allo studio, alla ricerca, alla cultura e alle varie forme del welfare sono stati fattori di accelerazione delle forme di dispersione scolastica, di ennesima precarizzazione del lavoro e di frantumazione di ciò che residuava dei vecchi assetti sociali (anche di natura antropologica) frutto di una congiuntura politica ed economica oramai passata.

In questa sorta di “maionese impazzita” hanno facile presa e diffusione modelli di consumo, relazioni e “stili di vita” che riflettono e riproducono individualismo estremo, gerarchizzazione sociale, sessismo e razzismo di ogni sorta che diventano il propellente che alimenta i miti, i comportamenti schizoidi e l’immaginario di decine di migliaia di giovani e meno giovani.

Certo le risposte che arrivano dalle istituzioni locali (la nuova Amministrazione Comunale in primis) sono ridicole, totalmente avulse dalla realtà e fondate su metodologie totalmente estranee da tale inedita “complessità metropolitana”.

Basta citare la “Delibera sulla Movida” la quale è tutta orientata, parossisticamente, a limitare gli orari di fruizione e a penalizzare chi non può consentirsi consumi in esercizi accorsati mentre ignora completamente il tema delle condizioni di chi lavora e viene sfruttato in questo comparto, tralascia la questione dei trasporti pubblici e la necessità di un ridisegno di una efficace igiene urbana delle zone interessate da notevoli afflussi di persone che – oggettivamente – sporcano, inquinano e rendono invivibile alcune zone.

Infatti il risultato materiale di tale linea di condotta amministrativa è il contrario di quanto pomposamente auspicato con interi quartieri ridotti al buio e svuotati, di fatto, da ogni presenza artistica, culturale ed aggregativa la quale – a vario titolo – è stata, comunque, un argine verso fenomeni di sopraffazione, di violenza e di arroganza collettiva.

Infine – come se non bastasse – iniziano a palesarsi i primi segnali della vendetta penale e giudiziaria contro la ricca stagione delle occupazioni e delle gestioni degli “spazi liberati” con le denunce che iniziano a fioccare e con gli sgomberi che si annunciano nei prossimi mesi.

Sarà possibile innestare una ripartenza sociale?

Negli anni passati, con tutti i limiti e le difficoltà derivanti dall’agire in una metropoli complicata, l’ampio tessuto di relazioni politiche, sociali, aggregative e culturali che animavano la città costituiva una (parziale) controtendenza al degrado umano e materiale della città e ai fenomeni di violenza irrazionale intrinsechi a tale situazione.

Non che esistessero “isole felici e/o liberate” nella città in cui rifugiarsi o accamparsi!

Lasciamo ad altri questa illusoria quanto mistificante mitologia preferendo guardare in faccia la situazione concreta e le difficoltà in cui siamo, totalmente, immersi.

Oggi il “ricreare Comunità” come antidoto necessario a questa deriva non può nascere da una invocazione o da un apprezzabile auspicio che tutti avanziamo ma ha bisogno di maturare ed innestarsi in un processo di ricostruzione/riqualificazione della presenza sociale nei gangli della metropoli con la consapevolezza – critica ed autocritica – che non è possibile rieditare stagioni politiche consumate e superate.

Anche a Napoli – come altrove – l’ammiccamento al Terzo Settore (sempre più centralizzato ad una logica di profitto e di mercato), l’affidarsi acritico alle propaggini della Chiesa o la consueta speranza nella “permeabilità di alcune istituzioni dal basso” sono ricette che se consentono, immediatisticamente, qualche “barlume di soluzione” nel medio/lungo periodo sono progressivamente svuotate e sussunte da ogni anelito di consolidamento di un protagonismo diretto e collettivo dei subalterni.

Purtroppo – dinnanzi a noi – c’è una metropoli frammentata, scomposta e, spesso, in competizione anche tra “soggetti e corpi sociali” che dovrebbero essere dalla stessa parte e che stentano a trovare una propria soggettivizzazione indipendente.

Ma da qui occorre ripartire.

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