In Ucraina le operazioni militari proseguono stancamente. Il tempo, invece, incalza: nove mesi passati tra azioni e reazioni, ritirate e rioccupazioni, offensive, controffensive e contro-controffensive sembrano soltanto anticipazioni di qualcosa che tende all’eternità.
I cicli della guerra da un lato e dall’altro si susseguono secondo i cicli delle stagioni, dei rifornimenti, degli avvicendamenti di truppe al fronte e degli spostamenti di popolazioni. La migrazione interna forzata è più grave di quella verso l’esterno. Anche perché ormai riguarda soltanto i sopravvissuti e senza di loro anche la parvenza della dimensione umana della guerra scompare.
La guerra militare prosegue sul piano comune delle “piccole operazioni” o small wars. Gli annunci roboanti di grandi movimenti di truppe in avanzata o ritirata sono immaginati e fatti immaginare dai piccoli episodi. Le grandi frecce sulle mappe sono sparite. Ci sono puntini: il soldato che spara, la vecchietta che piange, il lume di una candela, il fornello all’aperto sotto un cielo sempre più plumbeo.
Nonostante ci siano centinaia di satelliti che scrutano l’Ucraina e la Russia, nessuno si azzarda a diffondere le immagini di un settore o dell’intero fronte. Le piccole guerre sono invisibili oltre a essere sostanzialmente incontrollabili.
Hanno però un vantaggio: possono essere combattute da tutti, contemporaneamente o in successione. In Ucraina combattono i russi, i ceceni e una decina di etnie federate impegnati nelle piccole guerre in Donbass, a Kherson e Zaporizhzhia. Combattono gli ucraini, i polacchi, gli inglesi, gli americani, i lituani, gli estoni e “forse” qualche italiano nelle “operazioni speciali” nel Baltico, nel Mar Nero e lungo il Dniepr.
E mentre gli ucraini scavano trincee e gli americani sparano missili e denaro dai satelliti, gli inglesi organizzano colpi di mano e sabotaggi più per provocare le reazioni, che poi toccherebbe ad altri affrontare, che per infliggere perdite sostanziali.
Quasi a voler alimentare il mito cinematografico del pugno di uomini che ribalta le sorti della guerra (mai avvenuto) che aiutare l’Ucraina a uscire vincitrice; più per sport e svago nazionale che per assumere qualche responsabilità della tragedia da essi fortemente voluta.
Churchill diceva che gli italiani vanno a una partita di calcio come se andassero in guerra e in guerra come se andassero a una partita. Lui, che non aveva pudore politico o peli sulla lingua, probabilmente si tratteneva dal confessare che tale caratteristica è in realtà quella di molti suoi connazionali in uniforme e non.
Se le small wars di entrambe le parti trasmettono la sensazione della frammentazione e della guerra senza fine e senza fini, la realtà del quadro generale è resa dalle enormi distruzioni strutturali.
I russi alle piccole guerre hanno accoppiato la sistematica distruzione delle strutture essenziali: collegamenti, trasporti, impianti elettrici e di riscaldamento. Gli ucraini, che per 8 anni hanno bombardato e distrutto il Donbass con le proprie artiglierie, ora usano gli Himars per distruggere quanto già distrutto.
Anche qui le immagini che ci vengono somministrate a dosi massicce rendono solo una minima parte della realtà e sono incongruenti. Si dice che i russi non hanno più munizioni e ogni giorno sparano l’equivalente delle scorte di molti Paesi della Nato. Gli americani hanno ordinato alla propria industria la costruzione di razzi per gli Himars perché in carenza di scorte.
Si dice che gli ucraini stanno vincendo e ogni giorno la lista dei danni di guerra inflitti dai russi aumenta. Lo scorso giugno l’istituto di economia dell’Università di Kiev denunciava danni strutturali subiti per 95,5 miliardi di dollari che avrebbero avuto bisogno di 550 miliardi di fondi pubblici e 200 miliardi di fondi privati per il ripristino materiale e socio-economico. Per un totale di 750 miliardi di dollari.
L’allora presidente Draghi prevedeva un Piano Marshall per l’Ucraina tra i 250 e 500 miliardi e così delineava la dimensione del business della ricostruzione che comunque avrebbe sottratto risorse a quelle disponibili per la ricostruzione europea dai danni indiretti della crisi economica globale e della guerra in Ucraina.
A settembre, la stima di Kiev dei danni è salita a 127 miliardi (31 miliardi in più in tre mesi di relativa diminuzione dei combattimenti). Applicando gli stessi criteri di giugno, a questa entità di danni corrisponde un fabbisogno totale di un trilione di dollari (mille miliardi) e la fine è ancora oltre l’orizzonte.
Ovviamente, le prospettive di business aumentano e allettano tutti gli sponsor della guerra e molti di quelli che auspicano la pace a senso unico o la tregua locale senza considerare la sicurezza regionale e globale. Ma la disponibilità di finanziamento inizia a essere esorbitante anche rispetto al potenziale finanziario del mondo occidentale e si manifestano i primi seri dubbi sulla fine che faranno i soldi e sulla capacità ucraina di gestirli rispettando le condizioni che verranno imposte per ottenerli.
La rivista Forbes giorni fa ha riportato la riflessione del giovane economista ucraino Yuriy Gorodnichenko, professore a Berkeley, il quale ricorda che in passato, “quando le è stato concesso sostegno finanziario internazionale, Kiev si è impegnata in piani di riforme che poi non si sono concretizzati. Lo Stato di diritto andava già da tempo rinforzato, e questo non è accaduto nonostante gli sforzi dell’Unione europea che nel 2017 aveva stretto un accordo di cooperazione politica ed economica con l’Ucraina”.
Un rapporto della Corte dei conti europea ha già segnalato che in Ucraina “corruzione e interessi oligarchici sembrano endemici: danneggiano il processo democratico, oltre a ostacolare concorrenza e crescita economica”.
Ma questo, all’attuale dirigenza europea sembra non interessare e tornano invece le istanze per nuovi finanziamenti anticipatori del presunto Piano Marshall. Mentre il sindaco di Kiev dispone l’oscuramento della Capitale per mancanza di energia, il presidente Zelensky sogna la fine della guerra per andare a “prendere il sole in Crimea”. O in Versilia.
Comunque vadano le cose, i miliardi continueranno a piovere sull’Ucraina e contano poco le riflessioni realistiche sulla ricostruzione. Benn Steil, direttore di Economia internazionale presso il think tank Council on foreign relations e autore di The Marshall Plan: Dawn of the Cold War, ha osservato che il “Piano Marshall ha funzionato non tanto per la quantità di soldi investiti, ma perché l’Europa del dopoguerra è stata accuratamente divisa in due e stabilizzata”, dalla pax americana da una parte e da quella sovietica dall’altra.
“Kiev rischia di non avere questo privilegio – avvertiva Steil qualche mese fa – la Russia potrebbe non riuscire a conquistare l’Ucraina, ma è più che capace di renderla un posto infernale dove vivere e fare business”.
Oggi, i segnali di questa profezia sono concreti.
* da Il Fatto Quotidiano
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